Venerdì, in Germania il
cosiddetto Senato delle regioni che rappresenta i lander, ha dato un colpo di
grazia alla linea della cancelliera Merkel, bocciando il fiscal compact.
Approvato dalla Camera alta, il fiscal compact era allora passato molto tardi,
a causa della sentenza della Corte Costituzionale che aveva fissato un limite
al tetto di fondi che la Germania avrebbe dovuto versare. Che succede ora
politicamente? Fino alle prossime elezioni, la Germania non entra nel gruppo
dei paesi europei che hanno adottato il fiscal compact, quale vincolo di
indirizzo per la spesa pubblica, con buona pace di Monti, che ha imposto di
votare il provvedimento capestro che ci vincola a pagare 20 miliardi di euro
l'anno per altrettanti anni per uscire, si fa per dire, dal debito ed essere ben
accetti nell’Europa delle banche.
Noi – il Parlamento - l'abbiamo votato, la Germania no! Ci sarebbe di che
ridere se per farlo non fosse stata modificata la stessa Costituzione.
Sabato
in Portogallo oltre un milione di manifestanti ha chiesto la fine dell’austerità imposta dai creditori
internazionali e le dimissioni del governo di centro-destra. “Se il governo non se ne va, tutto questo continuerà” è
stato lo slogan a lungo scandito da Lisbona ad Oporto, il Portogallo è al terzo
anno consecutivo di recessione, con un tasso di disoccupazione medio vicino al
18 percento. I nuovi tagli – che colpiranno in particolare il servizio
sanitario, l’istruzione e il sistema pensionistico – puntano a risparmiare
circa 4 miliardi di euro nei prossimi due anni.
Dopo l'esplosione della bolla sui mutui subprime, nell'estate del 2008,
e dopo la successiva e conseguente crisi dell'euro, arrivata al culmine nel
novembre 2011, il bilancio dei governi dell'Unione europea è impietoso.
In poco più di due anni, 11 Paesi hanno visto premier e rispettivi esecutivi
cadere sotto la mannaia dei tagli al welfare e alla spesa pubblica. Mandati
a casa mentre, nelle piazze, il popolo di precari, disoccupati e giovani senza
futuro manifestava e invocava le dimissioni.
L'ultimo presidente del Consiglio defenestrato è stato lo sloveno Janez Jansa,
dal settembre 2011 alla guida dell'ex Paese più florido della vecchia
Jugoslavia, sul baratro del salvataggio per crac bancari e scandali di
corruzione a catena.
Il primo, nel gennaio 2011, fu invece l'irlandese Brian Cowen, repubblicano
liberale del Fianna Fáil. Partito che, prima della crisi vantava il record
della più lunga permanenza al governo in Europa, dopo i socialdemocratici
svedesi.
Seguito a ruota dalla Grecia dove il
socialista George Papandreou fu costretto a dimettersi, nel novembre del 2011,
dopo aver proposto un referendum (saltato) sulla permanenza del Paese
nell'euro.
Ora, dopo un bis elettorale, è il conservatore Antonis Samaras il
premier della grande coalizione di larghissime intese che, ha riunito una
minoranza degli ex comunisti, i socialisti del Pasok e il centrodestra di Neo
Dimokratia, all'ombra del Partenone, la crisi sociale resta drammatica. Ma, contro
ogni aspettativa, nonostante l’alternarsi di notizie contrastanti sulla
contabilità di Stato, nonostante emergano scandali, corruzione e ruberie, i
conti pubblici e il governo sembrano aver raggiunto una qualche stabilità. Chi
sta male è la fascia sociale più povera, che è in situazione da emergenza
umanitaria, che ha smesso di lottare contro le politiche di austerità perché
troppo impegnata a risolvere i problemi legati alla sopravvivenza quotidiana,
ciò è particolarmente evidente nelle grandi città e nell’area metropolitana di
Atene.
Solo Olanda, Finlandia, dove pur ci sono stati dei ricambi nell’esecutivo nel
2011 e 2012, e Francia sono ancora politicamente stabili, nonostante la crisi
dell'economia reale di quest’ultima, mentre la crisi ha, già, terremotato la
Spagna, infatti, dopo la bolla immobiliare, gli spagnoli hanno vissuto
la sconfitta politica della sinistra, sfociata nella dimissioni anticipate del
luglio 2011 del premier socialista José Zapatero. Dopo di lui è stato eletto il
conservatore Mariano Rajoy, vincitore delle elezioni ma finito
nel mirino degli indignados, per i massicci tagli alla spesa
sociale sollecitati dall'Unione europea in cambio dei prestiti (100 miliardi di
euro richiesti) per salvare le banche. Ora il consenso di Rajoy è ai
minimi storici e, alla prossima manovra lacrime e sangue, anche questo governo
di destra, fedele esecutore delle misure indicate da Bruxelles, potrebbe
implodere.
A questo punto chi voteranno, se voteranno, gli indignados spagnoli?
L'Europa dell'Est, in questa fase, si manifesta come
l'area politicamente più instabile, anche se meno influente sui mercati
internazionali, meno preoccupanti per l'euro stesso. In Romania, dopo pesanti
scontri di piazza, la girandola di governo si è conclusa, nel dicembre 2012,
con la vittoria del centrosinistra di Victor Ponta; in Bulgaria il primo
ministro Boiko
Borisov, è dimissionario e alla ricerca di ritrovare il consenso popolare, che
la svendita del paese alle multinazionali , la crisi economica, la corruzione,
gli ha sottratto
In Slovacchia, nell'autunno 2011 i socialdemocratici erano stati costretti alle
dimissioni, dopo lo stop sulle riforme in parlamento. E in Slovenia, prima del
conservatore Jansa, ora cacciato a furor di popolo dopo 2 mesi di
manifestazioni e sostituito da Alenka Bradusek, una donna esperta di finanza
internazionale, il precedente governo socialdemocratico era stato costretto
alle dimissioni nel settembre 2011.
E’ evidente come questa Europa abbia il fiato corto e debba essere radicalmente
trasformata.