«Enough is enough»

Sulle rivolte negli Stati Uniti

3 / 6 / 2020

«Enough is enough». Sono le parole con cui Tamika Mallory, una delle organizzatrici della Marcia delle donne che si è tenuta nel 2017, riassume le ragioni delle proteste che, a macchia di leopardo, sono scoppiate in tantissime città degli Stati Uniti a seguito dell’assassinio di George Floyd, cittadino nero ucciso dal ginocchio dell’agente di polizia bianco del Dipartimento di Polizia di Minneapolis Derek Chauvin. George Floyd faceva il buttafuori di professione fino a prima di perdere il lavoro a causa della pandemia del Covid-19. Per 8 minuti e 46 secondi Chauvin, intervenuto assieme ad altri tre agenti per una segnalazione di pagamento con una banconota da 20 dollari falsa, fece pressione sulle vie respiratorie del quarantaseienne Floyd portandone alla morte. Secondo l’inchiesta che è stata aperta, come riportato qui nel video ricostruito dal New York Times, Chauvin non abbandonò lo strangolamento neanche dopo la perdita di conoscenza di Floyd.

Otto e quarantasei. Un’apnea infinita che, per gli agenti di Minneapolis intervenuti, trovò giustificazione in quel taglio contraffatto da venti dollari con cui Floyd pagò un pacchetto di sigarette. Nonostante il cittadino nero fosse ammanettato e non avesse opposto resistenza, il suo rifiuto di salire immediatamente sulla volante della polizia perché claustrofobico fu sufficiente per permettere a tre persone di privarlo lentamente della vita, mentre diceva di non riuscire a respirare. Salgono brividi lungo la schiena mentre si guardano le immagini in cui a Floyd viene urlato di alzarsi e salire sulla macchina, e lui risponde di non poterlo fare. In primo piano quel corpo bianco che lo guarda dall’alto in basso e fa pressione sul collo, con uno sguardo impassibile. Agli occhi di Chauvin, la cui carriera è costellata di denunce per uso eccessivo della forza in episodi che coinvolgevano persone di colore, questa “truffa” monetaria doveva essere l’ennesima riprova della pericolosità di un uomo nero, del suo essere naturalmente criminale e, dunque, propenso in tutti i modi a danneggiare l’ordine costituito e prendersi gioco della polizia. Così la vita di un uomo nero vale 20 dollari contraffatti.

L’ex giocatore NBA Kareem Abdul-Jabbar, nel commentare le proteste di questi giorni, fa notare che una prima reazione di sdegno e di compassione compare molto più probabilmente nelle menti dei corpi bianchi, come è quello di chi scrive. Per un individuo dalla pelle nera, invece, monta la rabbia per l’ennesimo uomo soffocato non tanto da un singolo ginocchio, bensì dalla polvere invisibile del razzismo statunitense che rende la vita delle persone razzializzate un palazzo in fiamme. Correre verso l’uscita di emergenza del palazzo riversandosi sulle strade, è l’unica via di fuga rimasta.

A poco più di una settimana dall’omicidio di Minneapolis, le proteste della comunità nera e delle persone di colore hanno occupato lo spazio urbano delle principali città del Paese per diversi giorni e diverse notti di fila. Dalle immagini e dai video che sono disponibili sugli account social dei manifestanti, in particolare su Twitter, si deduce che le mobilitazioni stanno assumendo diverse forme, e che molti manifestanti stanno chiedendo di dare visibilità a tutte le svariate iniziative messe in campo dai movimenti. Dagli espropri dei negozi di lusso e assalti dei distretti di polizia fino alle marce pacifiche e ai presidi, le persone razzializzate si stanno ribellando alla violenza strutturale a loro danno. Le rivolte e le prese di parola danno conto del razzismo alla radice della società, della conformazione urbana delle metropoli, della politica e del diritto. Perché avere una cute diversa dal bianco espone di più al rischio della povertà e dello sfruttamento lavorativo, così come del contagio del Covid-19 a causa dell’esclusione di classe e etnica dall’accesso alle cure mediche. Perché esiste un’ineguaglianza del rischio di morte dei non bianchi per mano della polizia, all’interno della quale l’incidenza della mortalità degli uomini neri è la più alta di tutte, circa 96 su 100.000 morti contro 39 per i bianchi secondo una ricerca pubblicata nei Proceedings of the National Academy of Sciences. In totale, gli omicidi di giovani neri compresi tra i 20 e i 30 anni da parte delle forze dell’ordine arriva all’1.5%, all’1.2% dei giovani nativi americani e dei latini, mentre allo 0.5% dei giovani bianchi e degli asiatici.

Le rivolte assumono anche un connotato di classe, come mostrano gli assalti ai negozi di lusso e ai centri commerciali sotto la guida di parole d’ordine che ribaltano il diritto liberale, definendo furto e saccheggio – theft and lootingil prezzo del salario riservato alle persone razzializzate e la sottrazione di risorse e lavoro perpetrata dagli Stati Uniti contro i popoli originari e la popolazione nera. L’esproprio degli oggetti di lusso e dei beni di prima necessità, che sono stati anche ridistribuiti ai più bisognosi, diventa dunque la restituzione dell’appropriazione indebita subita da chi è stato marginalizzato e marginalizzata da secoli. Sebbene la compresenza di classe e razza sia al centro del discorso e delle pratiche dei movimenti di questa settimana, la partecipazione di parte della popolazione bianca ai blocchi, alle insurrezioni e ai presidi della comunità nera e di colore non sembrano indicare soltanto un generale senso comune di uguaglianza sostanziale, ma anche che altri segmenti della working class vedono nell’organizzazione delle persone di colore la possibilità di un’emancipazione dallo sfruttamento e dalle gerarchie sociali, particolarmente esacerbate dalla crisi pandemica. Alcuni frammenti delle manifestazioni fanno pensare che ci sia una nitida consapevolezza del privilegio bianco, di quella norma alla base delle democrazie liberali che decide quali vita contino più di altre in base al colore della pelle, come suggeriscono gli episodi in cui manifestanti bianchi/e seguono le richieste provenienti dalle comunità razzializzate, frapponendosi tra quest’ultima e i cordoni dei reparti di polizia. Da notare, inoltre, come molte voci nere in primo piano nei comizi e nelle assemblee appartengano a donne, persone queer e transessuali (ricordiamo Tony McDade, uomo nero transgender, tra le vittime della repressione poliziesca del 27 maggio), in linea con l’identità delle leadership del movimento Black Lives Matter del 2014.

Colpiscono le testimonianze video e fotografiche di agenti di polizia che si inchinano davanti ai manifestanti in segno di solidarietà e di protesta contro il loro stesso corpo. In alcune occasioni, i distretti locali hanno deciso di scendere in piazza in difesa dei cortei organizzati dalle comunità di colore contro eventuali incursioni suprematiste. L’impatto di tali immagini è perturbante per uno sguardo per niente abituato a vedere i garanti dell’ordine politico e sociale esistente scendere in piazza con chi organizza proteste di questa portata. Ovviamente, ciò non ci deve portare a due conclusioni affrettate: che esistano soltanto delle “mele marce” da sradicare – bad apples, nelle parole del consulente alla sicurezza nazionale della Casa Bianca, Robert O’Brien; che stiamo assistendo a una ribellione della base (rank-and-file) dei reparti polizieschi. Per quanto i gesti di solidarietà siano da analizzare nel merito, allo stesso tempo non bisogna dimenticare le operazioni militari, culminate con ulteriori morti, condotte dagli agenti, che non hanno affatto disertato dalle loro funzioni. Sono i movimenti neri a segnalarlo chiaramente, ricordando quanto la violenza sia sistemica e dipenda dall’organizzazione della società, ivi incluse le sue istituzioni come le forze dell’ordine, non dal singolo individuo.

Sulla pelle dei manifestanti il marchio di questa violenza continua a lasciare un segno indelebile proprio in questi giorni: le risposte virulente dei reparti antisommossa non lasciano spazio a troppi dubbi. La brutalità della polizia e dei contingenti anti-riot della Guardia nazionale per le strade di Minneapolis, Boston, New York, Atlanta, Aurora, Detroit, Washington, San Diego, San Francisco, Chicago, Seattle e Portland, tra le altre, non ha avuto alcun tipo di freno, se non l’autodifesa praticata dai cortei. Ora che in 40 città degli Stati Uniti è stato imposto il coprifuoco, la polizia ha completa carta bianca nel disperdere i presidi e i cortei, che stiano bloccando un ponte, svolgendo un’assemblea pubblica o marciando verso i luoghi del potere e del consumo. Lacrimogeni e proiettili di gomma vengono sparati su qualsiasi individuo che non indossi un’uniforme, compresi i giornalisti. Tra questi ultimi, Linda Tirado, una reporter indipendente, ha perso l’uso dell’occhio sinistro a causa di un proiettile di gomma sparato venerdì durante le mobilitazioni di Minneapolis; ma molti altri e altre sono rimasti feriti dalle operazioni di polizia o sono stati intimiditi e arrestati, nella chiara intenzione di privare la società tutta del diritto all’informazione sulle azioni di polizia.

Alcuni poliziotti sono stati licenziati o sono finiti sotto inchiesta per uso eccessivo della forza, ad esempio nella notte di sabato, e per «tattiche dalla mano pesante» [heavy handed tactics]. Con questa dicitura si intendono i travolgimenti delle folle di manifestanti con mezzi della polizia, dalle motociclette a Fort Lauderdale che sparano lacrimogeni sugli assembramenti ai SUV gettati contro la folla di manifestanti a New York, passando per gli accerchiamenti senza motivazione di mezzi privati di uomini neri ad Atlanta, conclusisi con l’uso della pistola stordente contro il guidatore e dei laccetti per legare le mani della donna che lo accompagnava; oppure per gli spari di vernice su persone semplicemente sedute sotto il loro porticato a Minneapolis. In tutti questi casi, la polizia ha attaccato presidi e individui pacifici.

Il clima di tensione provocato dalle forze di polizia è così evidente che sui social circolano diverse infografiche in cui sono illustrate indicazioni su come proteggersi dalla polizia. Anche la deputata socialista Alexandra Ocasio-Cortéz ha promosso sulle sue pagine social tutte le accortezze necessarie ai e alle partecipanti per non essere danneggiati dal gas lacrimogeno, per curarsi dalle abrasioni e per non essere rintracciati o indentificati .

In opposizione ai tentativi di pacificazione delle proteste, in molte città dove è scattato il coprifuoco i e le manifestanti hanno sfidato le autorità organizzando appuntamenti di massa e cortei. In questi ultimi giorni, è circolata la notizia, anche e soprattutto tra i canali dei movimenti, dell’infiltrazione di gruppi di suprematisti bianchi all’interno dei cortei, con l’obiettivo di prendere d’assalto abitazioni private per screditare le rivolte. Un argomento delicato, questo, poiché la figura dell’infiltrato viene utilizzata dalla retorica istituzionale che vuole dividere tra manifestanti buoni e cattivi nelle situazioni di uso della forza e di azioni radicali. Tuttavia, i e le partecipanti ai movimenti invitano su Twitter a non abbassare la guarda e a denunciare eventuali infiltrazioni a danno della comunità nera in lotta.

Da un lato, i movimenti stanno ottenendo consenso in una parte consistente dell’opinione pubblica e tra le celebrità, creando dibattito circa il sostegno ben oltre le parole richiesto alle persone bianche e/o privilegiate. Qui, a questo proposito, è possibile fare donazioni a sostegno delle spese legali per difendere i e le manifestanti arrestati e denunciati; mentre qui si trova una lista di linee guida su ciò che le persone bianche privilegiate possono fare, oltre alla presenza di piazza. Dall’altro, le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump riproducono pedissequamente il razzismo strutturale e di Stato contro cui si scagliano oggi le comunità delle persone di colore. Cosa aspettarsi da un uomo bianco e ricco, nella posizione più alta del potere costituito statunitense, che trasforma la telefonata di condoglianze al fratello di George Floyd in un monologo in cui non ascolta le parole del caro della vittima?

Nelle sue conferenze stampa e nei suoi post, Trump non fa giri di parole, mostrando tutta la sua vicinanza ideologica a quegli ambienti suprematisti bianchi, organizzati o meno, che ne hanno sostenuto l’elezione nel 2016. I suoi tweet parlano di ordine pubblico [law and order] senza chiedersi chi venga ucciso da esso; citano l'era Nixon e la politica contro i diritti civili, incitando all’uso delle armi da fuoco per reprimere i movimenti [«when the looting starts, the shooting starts»]; è disposto a mobilitare l’esercito contro i cittadini e le cittadine degli Stati Uniti, invocando l’Insurrection Act, come ha minacciato lunedì 1 giugno dalla sua postazione stampa, ripulita poco prima dalla massa di manifestanti a colpi di lacrimogeni. Evidentemente, rispetto a quest’ultimo punto, il Presidente ha voluto dare una virile dimostrazione di forza, comparendo di fronte alla chiesa data alle fiamme la sera prima a Washington, per compensare la sua fuga nel bunker della Casa Bianca della sera precedente, quando un corteo di manifestanti ha circondato la recinzione. La performance presidenziale di lunedì, a parte galvanizzare le destre estreme, ha perlopiù suscitato lo sdegno della popolazione di Washington, compresi il vescovo Marianne Budde e il sindaco Muriel Bowser.

Non c’è alcun arcano da svelare nella strategia di Trump: il Presidente vuole trattare uno stato di agitazione permanente, radicale e partito dal basso come un fenomeno di terrorismo domestico. Le sue esternazioni sulle organizzazioni della sinistra antifascista, trattata alla stregua di un gruppo terroristico internazionale similmente a Al-Qaeda, vanno in questa direzione.

È una vergogna che nessuno Stato europeo diriga delle dure parole e condanni il Governo degli Stati Uniti, forte della sua posizione sul piano geopolitico. Da persone bianche, le ragioni delle mobilitazioni negli Stati Uniti vanno sostenute, usando il nostro privilegio a sostegno delle comunità razzializzate, locali e non, e in aperto conflitto con la violenza strutturale che ricade su di esse. Questo è ciò che le voci dai movimenti stanno chiedendo. Non possiamo sapere cosa significhi convivere ogni secondo della propria vita con l’idea di non potersi sentire sicuri e sicure in uno spazio pubblico, in una conversazione, ad un posto di blocco, durante un controllo su un treno, in un colloquio di lavoro per il colore della pelle. Ma possiamo capirlo o sforzarci di farlo attraverso l’ascolto, per poi fare la nostra parte. Basta è basta. Nel mondo intero, qui. Dobbiamo iniziare ad arrabbiarci anche noi.