Ecuador - I movimenti indigeni fanno tremare il potere

Martedì 8 ottobre occupato il Parlamento continuano duri scontri a Quito: «la lotta continua fino a che il FMI non se ne andrà!».

11 / 10 / 2019

Da ormai una settimana l’Ecuador è in sciopero ed è attraversato da nord a sud, dalla costa all’Amazzonia da fortissime proteste contro l’ormai famoso “paquetazo” di Moreno, una serie di misure economiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale in cambio di un prestito di 4,2 miliardi di dollari, che andranno a colpire i settori più deboli della popolazione.

La crisi ecuadoriana è cominciata il 1° ottobre quando il presidente ha annunciato la manovra per poter accedere al prestito del FMI. Tra le misure oggetto delle forti proteste segnaliamo l’eliminazione del sussidio statale per il carburante, cosa che ha fatto aumentare il costo del diesel del 123% (è il carburante più usato dalle classi medio basse in Ecuador) e della benzina del 29% rispettivamente. Inoltre, i nuovi contratti potranno essere rinnovati col 20% in meno di remunerazione e i lavoratori delle imprese pubbliche si vedranno diminuire le ferie da 30 a 15 giorni dovendo anche regalare un giorno di salario.

Il giorno seguente, il 2 ottobre, diversi settori hanno lanciato uno sciopero nazionale, tra questi gli autotrasportatori che, come abbiamo già raccontato, hanno paralizzato la circolazione per l’intera giornata chiedendo l’immediato passo indietro al presidente. Lo sciopero nazionale del 2 ottobre ha visto scendere in piazza tutta la società, dagli studenti ai lavoratori alle organizzazioni indigene e in diverse città del paese. Cuore della protesta è stata la capitale Quito, sede del governo, nella quale ci sono stati gli scontri più duri con le forze dell’ordine e dell’esercito chiamate a reprimere fin da subito ogni accenno di protesta.

La risposta del presidente Lenín Moreno a questa prima ondata di proteste è stata trasferirsi e trasferire il governo a Guayaquil e annunciare lo “stato d’eccezione”, misura con la quale il presidente ha legittimato esercito e polizia a utilizzare la violenza per “garantire” la sicurezza del paese, come poi puntualmente successo nei giorni a seguire. Lontano dai tumulti ha poi voluto ribadire che la sua decisione è ferma e che non avrebbe fatto marcia indietro per nessun motivo.

Nei giorni seguenti le proteste sono continuate non solo nella capitale Quito ma anche in molte regioni a prevalenza indigena. La CONAIE, la CONFENIAE e altre organizzazioni indigene sono a loro volta scese nelle piazze a manifestare il loro rifiuto alle politiche economiche neoliberiste ed estrattiviste del presidente. La stessa CONAIE ha emanato un proprio “stato d’eccezione” nei territori indigeni e ha avvertito le forze armate che non sarebbero state accettate incursioni nei propri territori. E così è stato, infatti in alcune comunità sono stati “arrestati” e sottoposti alla giustizia indigena 47 militari che avevano disatteso l’ordine di stare distanti dalle comunità. Verso il fine settimana dal nord a sud, le comunità indigene si sono messe in marcia verso la capitale Quito per partecipare alle manifestazioni sotto Palacio Carondelet (sede del governo e residenza del presidente), superando nel proprio cammino gli ostacoli di polizia ed esercito. In pochi giorni oltre 20 mila indigeni sono giunti nella capitale mentre a Guaranda, Riobamba e altre città di medie dimensioni (in totale 6) sono state occupate le sedi dei governi provinciali con la richiesta al governo di eliminare immediatamente il “paquetazo”.

Nella giornata di lunedì 7 ottobre i manifestanti sono riusciti addirittura a “sequestrare” un blindato e a renderlo inutilizzabile e il giorno seguente a occupare simbolicamente il Parlamento, al seguito del quale si è scatenata una repressione pesantissima. Stante la crescita delle proteste e l’approssimarsi del secondo sciopero nazionale indetto per mercoledì 9 ottobre il presidente ha emanato un nuovo decreto, questa volta istituendo il coprifuoco parziale (dalle 20 alle 5 del mattino). Il “toque de queda” ha significato l’istituzione di zone strategiche, vicino alle sedi del governo, dove ha vietato la circolazione. Tutte le misure repressive del governo però, comprese le costanti violazioni dei diritti umani documentate nei social, non hanno impedito alla mobilitazione di crescere giorno dopo giorno e anche di radicalizzarsi.

Il settimo giorno di mobilitazione nazionale contro il “paquetazo” di Moreno è coinciso con un’altra giornata di violenta repressione di polizia ed esercito contro i movimenti indigeno, studentesco e dei lavoratori scesi in piazza in tutto il paese. Il secondo sciopero nazionale ha visto la capitale Quito ancora al centro degli eventi repressivi più duri, ma in tutto il paese ci sono state tensioni e manifestazioni di protesta contro il presidente e le sue misure economiche. A Cañar, città al centro del paese, i manifestanti hanno accerchiato e occupato il palazzo sede del governo provinciale, chiedendo l’immediata sospensione delle misure economiche. A Guayaquil, la capitale economica del paese e rifugio momentaneo del presidente nei giorni precedenti, ci sono state due manifestazioni, una di protesta contro il presidente e una a sostegno lanciata dall’ex sindaco della città: i manifestanti che si oppongono al “paquetazo” sono stati caricati più volte da polizia ed esercito per permettere la sfilata delle poche centinaia di persone che sostengono il governo.

A Quito la mobilitazione è stata ancora una volta enorme. Fin dal primo pomeriggio l’obiettivo dei manifestanti è stato quello di raggiungere il centro storico e in particolare il Palacio Carondelet. Per ore ci sono stati vari scontri nelle vie limitrofe e un utilizzo spropositato di gas lacrimogeni e proiettili da parte delle forze dell’ordine. Ma è verso sera che la situazione si è fatta drammatica, con l’intensificarsi della repressione, quando la polizia ha attaccato con gas lacrimogeni diversi centri di rifugio e accoglienza, tra le quali la Casa de la Cultura Ecuatoriana e l’Università Salesiana, nei quali erano presenti famiglie di manifestanti con bambini e i numerosi feriti della repressione poliziesca. Gli assalti, effettuati con gas lacrimogeni e irruzione di agenti a cavallo hanno provocato decine di feriti e due morti, come testimoniato successivamente dai rappresentanti indigeni. Inocencio Tucumbi, membro della CONAIE, è morto così, calpestato dai cavalli degli agenti che hanno partecipato all’assalto.

Secondo i dati forniti dal ministero dell’interno sarebbero circa 800 le persone arrestate (delle quali la maggior parte sarebbe ora già in libertà) e 400 le persone che hanno ricevuto assistenza medica ma secondo la CONAIE, una delle principali organizzazioni indigene in mobilitazione permanente contro il governo, feriti, arrestati e desaparecidos sarebbero molti di più e ci sarebbero stati anche alcuni morti: «La CONAIE con profondo dolore comunica a tutto il paese che la repressione eccessiva e brutale del giorno 9 ottobre, diretta dalle politiche repressive del presidente Moreno, dal ministro degli Interni Maria Paula Romo e dal ministro della Difesa Jarrín, ha causato la morte di alcuni compagni». Una lotta nella lotta riguarda la comunicazione: i media nazionali sono totalmente appiattiti sulle posizioni del governo tanto che in questi giorni si è potuto notare innanzitutto il tentativo di di ridimensionare la protesta e ridurla a qualche atto vandalico di pochi facinorosi. Ad ogni sanpietrino sradicato dai manifestanti, ad ogni palazzo occupato, ad ogni poliziotto fermato e disarmato dai manifestanti si è alzato un coro di indignazione per l’inaudita violenza mentre tutte le violazioni dei diritti umani e gli abusi di potere compiuti da esercito e polizia (e in rete circolano numerosi video a documentare) sono stati silenziati. Lo stesso presidente Lenín Moreno ha cercato di smontare l’insurrezione attribuendola a un tentativo di golpe di Correa e Maduro ma il movimento indigeno ha sempre respinto al mittente queste accuse accusando pubblicamente l’ex presidente di essere un opportunista: «la nostra lotta è per l’uscita del FMI dall’Ecuador. Non permetteremo a chi ci ha criminalizzati per 10 anni di approfittare della nostra lotta e del popolo ecuadoriano». Nei giorni scorsi infine, la Radio Pichincha Universal è stata oggetto di una perquisizione e di un tentativo di chiusura da parte della polizia per il suo lavoro di imparzialità nel dare notizie sulle manifestazioni.

Il giorno seguente al secondo sciopero nazionale è il giorno del dolore, dedicato alla cerimonia funebre dei compagni uccisi dalla repressione del governo. I movimenti indigeni si sono radunati all’interno della Casa delle Culture in assemblea per organizzare i prossimi passi della lotta e denunciare la terribile repressione subita dal governo. Proprio durante uno di questi momenti, sono stati individuati due agenti in borghese infiltrati che avevano con loro una granata: i due agenti sono stati trattenuti per denunciare il fatto alle autorità e ai media e sono stati la causa di un nuovo tentativo di criminalizzazione del movimento indigeno, accusato di sequestrare i servitori dello Stato.

Al termine dell’assemblea la CONAIE ha rilanciato la mobilitazione: «abbiamo fatto tremare il potere. Il dado è tratto: lo sciopero non si ferma fino a che il FMI non se ne andrà dall’Ecuador». La lotta continua, dall’Amazzonia giungono le foto delle carovane di altri popoli indigeni appartenenti alla CONFENIAE che si stanno dirigendo verso Quito per dare forza alla rivolta. Per Lenín e il Fondo Monetario Internazionale questa volta sarà dura, come ogni volta che dal basso e a sinistra ci si organizza e si lotta uniti contro la tirannia.

Foto di copertina: Alejandro Ramirez Anderson