È tutto giallo quello che luccica?

6 / 12 / 2018

C’è sempre qualcosa di dirompente nell’eco delle rivolte che giunge dalla Francia. Dalla presa della Bastiglia ai tumulti del 2005 nelle banlieu, passando per il “maledetto giugno” del 1848, la Comune, il maggio del 1968, le vicende politiche transalpine spesso vengono caricate di aspettative. È come se quell’alba rivoluzionaria della modernità - datata 1789 - fosse ancora capace di irradiare il mondo. Nel caso della “rivolta dei gilet gialli” le aspettative hanno spesso assunto caratteri di morbosità, consentendo all’enfasi degli eventi di scalzare l’analisi dei processi. Nel peggiore dei casi, ci sono stati goffi tentativi di emulazione, come nel caso delle pagine Facebook dei “gilet gialli” italiani sorte nelle ultime settimane.

Il senso di un’inchiesta

Il nostro approccio non si è mai basato sulla fascinazione estetica della rivolta. Per questa ragione abbiamo deciso di essere presenti a Parigi durante l’Atto III dei gilet, lo scorso 1 dicembre. E continueremo ad esserci, innanzitutto perché riteniamo l’inchiesta un elemento ontologico dei movimenti. Inoltre sentiamo la necessità di continuare a cogliere gli attimi, sentire le sfumature, scrutare l’orizzonte di una situazione che sfugge ad ogni linearità.

Le barricate, la Parigi in fiamme di sabato scorso scaldano i cuori, rendono finalmente tangibile quella rottura che tanti hanno intravisto nel tempo della crisi sistemica. Ma non possiamo fermarci a questo livello dell’analisi.  

L’interrogativo principale che spinge la nostra inchiesta sulle vicende francesi parte da due presupposti. In primo luogo le sue continue metamorfosi, l’assenza di punti di riferimento e di categorie note, la molteplicità fenomenologica, l’intreccio costante tra spazio reale e digitale, collocano questo movimento a pieno titolo nella fluidità del presente. A questo si aggiunge una piattaforma rivendicativa che non sintetizza la cifra del desiderio espressosi nelle tante mobilitazioni.

I gilet gialli irrompono in una scena francese in cui il macronismo ha reso istituente un’azione governamentale che ha esautorato il potere legislativo. Sono saltati da un lato gli strumenti classici della democrazia rappresentativa e concertativa, dall’altro i corpi intermedi. Un processo senza dubbio non confinabile alla sola Francia, che riguarda il superamento definitivo dello Stato di diritto, ma che qui ha trovato spazio nell’applicazione estensiva dell’état d'urgence, attuata con continuità a partire dagli attentati del 13 novembre 2015. Allo stesso tempo, questo movimento si affaccia in maniera dirompente in una scena globale segnata da una nuova dialettica nella governance ordoliberale, al cui interno si moltiplicano gli spazi per possibili rotture, sia dall’alto che dal basso. Si tratta della dialettica tra sovranità nazionale e potere imperiale, tra protezionismo e liberismo, tra “vecchie” e “nuove” élite, che individua un flusso in cui il dominio sulla riproduzione della vita si articola in forme sempre più oppressive.

La seconda ragione è direttamente connessa a quest’ultimo punto, perché riguarda le contraddizioni emerse all’interno del movimento stesso. Queste toccano tutti i piani di saturazione del rapporto contemporaneo tra capitale e bios, dalla redistribuzione della ricchezza al clima, dalla razzializzazione del corpo sociale alla crisi dei tradizionali strumenti della rappresentanza politica. 

Riteniamo errato leggere i gilet gialli come un corpo indistintamente “popolare”, in grado di esprimere quella lotta del “basso contro l’alto” evocata dal lessico del populismo contemporaneo. Allo stesso tempo non crediamo sia adeguato un approccio che guardi a una possibile ricomposizione di classe, all’interno di un’analisi schiacciata sul dato oggettivo del conflitto, sulla sua composizione tecnica e sull’economicismo delle rivendicazioni. 

A nostro avviso, il divenire di questo movimento va colto proprio nel suo carattere molecolare, in cui coesistono - nel tempo e nello spazio - meccanismi di alleanza e competizione tra sfruttati, prospettive regressive e progressive, difese dei privilegi e affermazione di nuovi diritti. Il lato oscuro e quello vitale della moltitudine si confrontano e si scontrano in maniera costante, individuando nei gilet un campo di battaglia e non solo terreno in cui sperimentare nuove alleanze.

Per questa ragione vogliamo cogliere, oltre alla potenza materiale del conflitto, anche il suo segno, l’espressione soggettiva che questo assume nelle sue linee tendenziali e mutanti. È l’essenza del materialismo storico marxiano a indicarci che non sempre le insorgenze sociali hanno un ordine progressivo e si traducono in una volontà di emancipazione collettiva dal dominio di classe. Questo, a maggior ragione, nei movimenti che esplodono nella multiformità della società post-fordista. Ed è in questa faglia che le soggettività organizzate assumono un ruolo determinante con la loro capacità di orientare il segno, non in termini avanguardistici o trascendenti, ma sempre immanenti ai movimenti.

L’urbanizzazione dei gilet gialli ne ha di certo aumentato la complessità, in particolare nella giornata del 1 dicembre. L’intreccio con le tante realtà e singolarità che stanno animando le piazze francesi da quasi tre anni comporterà una giuntura con il lungo ciclo di rottura avvenuto nella Francia post Bataclan? È questo uno degli elementi che più ci interessa inchiestare, perché il conflitto investirebbe a pieno la sfera riproduttiva del capitalismo con la lotta al biopotere, ai dispositivi neocoloniali, alla guerra tra poveri. 

Sono ipotesi tutte da verificare e mettere in luce, a partire da sabato prossimo, quando le pratiche di soggettivazione potranno riguardare un ulteriore ambito. I gilet gialli sono stati invitati a unirsi alla Marcia per il clima, che vedrà scendere in piazza migliaia di persone in tutta la Francia, e nel resto del mondo, per contrastare i cambiamenti climatici. Quella climatica è una delle contraddizioni insite nel movimento che abbiamo bisogno di approfondire, proprio perché abbiamo assunto da tempo come conflitto primario quello tra capitale e ambiente. L’elemento scatenante della protesta è stato l’ormai famigerata carbon tax, l‘aumento della tassa sui carburanti che, a detta di Macron e Phillippe, sarebbe propedeutica alla transizione della Francia verso un modello di economia green. Una transizione che non si discosta dal quadro di compatibilità capitalistica, i cui costi vengono interamente scaricati sui contribuenti e non intaccano le grandi centrali dell’inquinamento.

Il discorso fondativo delle Marce per il clima si basa sulla necessità di un cambio radicale del paradigma produttivo ed esula da quella green governance di cui Macron è espressione. L’invito rappresenta senza dubbio un’occasione per mettere sotto assedio il presidente francese anche rispetto alle ipocrisie del green capitalism e dell’uso strumentale e geopolitico che sta facendo della crisi climatica per accreditarsi, nel consesso internazionale, come l’anti-Trump.

Un orizzonte possibile?

Antirazzismo, antisessismo, egualitarismo sociale, ecologismo radicale e qualsiasi altra coordinata di riferimento di un pensiero rivoluzionario progressivo non possono intendersi mai come elementi preconfezionati dei conflitti. Questi si determinano nella materialità e nella storia stessa delle lotte, nel divenire comune di una visione intersezionale, nella capacità di soggettivazione che i discorsi e le pratiche riescono a produrre. Una capacità su cui si misura il rapporto tra organizzazioni e moltitudini, tra soggettività politiche e soggetti sociali in lotta, tra potenza destituente e potere costituente. Sentiamo la necessità di scorgere quest’orizzonte e per questo vogliamo immettere questa chiave di lettura non solamente nell’interpretare il fenomeno dei gilet gialli, ma di tutti i movimenti contemporanei.

Basta l’appello della Marcia del clima per costruire convergenze anche sul fronte del «system change, not climate change»? È bastato il fuoco insurrezionale parigino a sciogliere tutte le contraddizioni? Sono bastati i cori antifascisti, l’attacco dei luoghi simbolo del capitalismo, le botte con i fascisti a risolvere una “tara” genetica insita in questo movimento? Certamente no, anche se indubbiamente i fatti del 1 dicembre potrebbero segnare un’altra fase del conflitto, quantomeno facendo sentire Marine Le Pen molto più a disagio nel suo sostegno incondizionato alla protesta e Macron molto meno spavaldo, tanto da vedersi costretto a firmare una moratoria sull’aumento della tassa sui carburanti.

L’insurrezione parigina è stata dirompente nella capacità di mettere sotto scacco il potere e costringerlo alla resa. Il 1 dicembre segna uno spartiacque che può dare alla protesta maggiore corpo o, al contrario, inabissarla del limbo delle tante rivoluzioni mancate. Sono tanti gli scenari che si possono aprire, a partire dalla reazione che produrrà la scelta di Macron. Di certo si stanno schiudendo altre soggettività, come quella degli studenti che hanno occupato i licei in diverse città della Francia, mentre stanno ancora continuando i blocchi dei gilet. Ieri sono state numerose le mobilitazioni studentesche, spesso sfociate in violenti scontri e in raccapriccianti scene di repressione da parte della polizia.

Il prossimo sabato saremo nuovamente in una Parigi che si annuncia caldissima e metteremo a verifica tutti i nostri appunti per l’inchiesta. Magari dovremo rivedere la maggior parte delle cose che scriviamo oggi, ma, in fondo, è proprio questa la seducente bellezza del divenire.