Diario da Cancun. Per un miserabile mezzo grammo d'oro

Articoli di Marica Di Pierri, Responsabile Comunicazione Ass. A Sud

3 / 12 / 2010

Non è tutto oro quello che luccica, anzi. Lo sanno bene gli abitanti di San Luis Potosì, in Messico, che hanno visto in soli tre anni scomparire nel nulla il Cerro de San Pedro, la montagna storica che sovrastava la valle, ritratta al centro della bandiera dello stato.

Tre anni sono bastati a far saltare per aria centinaia di migliaia di tonnellate di roccia e terra, per estrarre le ultime briciole di oro custodite ancora dalle viscere della montagna. San Luis Potosì il destino minerario ce l'ha nel nome, da quando alla fine del 1500 l'avventuriero Pedro de Anda vi fondò il primo nucleo urbano corredandolo dell'epiteto Potosì per richiamare l'omonina ricchissima miniera boliviana. Qui si è estratto per decenni, a intervalli, fino al 1953 quando la miniera esausta ha chiuso i battenti. Quattro decadi dopo, nel 1995, l'impresa mineraria canadese Metallica Resources ha presentato al governo messicano un nuovo progetto di estrazione a cielo aperto (la Miniera San Xavier) per ridurre in polvere la montagna e così estrarre gli ultimi residui del nobile metallo. “Un piano diabolico e criminale” secondo gli attivisti del FAO, il Fronte Amplio di Opposizione alla Miniera che si battono da 15 anni contro il progetto. “La nostra lotta ha portato a due sentenze che ritirano le licenze per lo sfruttamento minerario. Ma grazie alle pressioni del governo di Fox prima e Calderon poi, la miniera è entrata in funzione ugualmente in maniera illegale”.

Da tre anni a questa parte vengono detonate ogni giorno 25 tonnellate di esplosivo per far brillare 80.000 tonn. di roccia. Il 40% di esse, triturate e coperte con 16 tonn. di cianuro e 32.000 milioni di lt d'acqua, fruttano mezzo grammo d'oro per ogni tonnellata. Di contro, la montagna è praticamene scomparsa. E con essa le aquile, il resto della fauna e l'incredibile patrimonio botanico della zona. Le falde acquifere sovrasfruttate e contaminate dal cianuro. L'aria appestata dalle polveri sottili provocate dalle esplosioni. La delegazione locale che accoglie la carovana apostrofa gli attivisti canadesi presenti chiedendo di portare avanti a casa loro la battaglia contro l'estrazione a cielo aperto e l'utilizzo di cianuro per la lisciviazione. “Basta con l'ipocrisia” grida una anziana abitante della zona, “quello che vietano a casa loro lo permettono altrove, non siamo esseri umani di serie B”. La carovana riparte, ma da San Luis una folta delegazione la accompagna fino a Cancun. “Possono continuare a reprimerci, ma non siamo criminali, giustizia ambientale è tutto ciò che che chiediamo”.

[di Marica Di Pierri su Il Manifesto del 30 novembre 2010]

Un milione di trappole

Attraversando le strade del Messico capita di essere colpiti da strani agglomerati urbani. Distese di piccoli cubi tutti uguali, ravvivate appena dall'uso di colori brillanti, spuntano all'improvviso alle porte delle città. A guardarle con più attenzione si capisce che si tratta di piccole case affastellate l'una sull'altra.

Costruite in nuclei di decine di migliaia di unità, questi moderni loculi rappresentano l'ultima frontiera di espansione del capitale messicano. Complici le corporation dell'edilizia, per rilanciare l'economia gli ultimi due governi messicani hanno promosso la costruzione di immensi quartieri. La gente le chiama “casitas Auschwitz”, trappole destinate ai milioni di persone progressivamente costrette ad abbandonare le zone rurali del paese. Sono quartieri dormitorio senza luoghi di incontro e neppure chiese, fatti di casupole realizzate in materiali tanto scadenti da garantirne il deterioro in pochi anni, al contrario dei mutui accessi per comprarle che invece restano da estinguere.

Lina Quevedo ha 56 anni, è un donna con quattro figli grandi e partecipa con noi alla carovana verso Cancun. Viene da Tecamac, una cittadina non distante dalla capitale. Ha deciso di interrompere per qualche giorno lo scorrere tranquillo della sua vita e unirsi alla rotta delle carovane perchè è preoccupata. A Tecamac c'è in ballo un progetto per la costruzione di un polo abitativo di dimensioni inedite. Un milione di case. Che vorrebbe dire: occupazione dei terreni agricoli rimasti, deforestazione, prosciugamento delle risorse idriche in una zona già provata dalla siccità. Le comunità che circondano l'immenso terreno destinato al progetto sono insorte. “Sono qui per il futuro dei miei figli” – dice Lina. ”La casa è un diritto, ma queste case i nostri diritti li calpestano, li cancellano”.

[di Marica Di Pierri su Il Manifesto del 1 dicembre 2010]