Ya Basta: Brasil Em Movimento

Delocalizzazione o morte. O tutte e due

Diario della seconda giornata di carovana.

28 / 8 / 2013

Rio de Janeiro - Son le cose che gli italiani all’estero devono mettere in preventivo. Un signore mi avvicina mentre faccio colazione in quest’incasinatissimo groviglio di scale, corridoi, stanze e altane che è l’Art Hostel e mi chiede incuriosito come mai a “voi italiani” piace tanto il Berlusconi. Siccome non ho nessuna voglia di abbruttirmi arrampicandomi per ore in astruse spiegazioni, assolutamente inutili a far comprendere il fenomeno a chi non vive nel Bel Paese, quando mi fanno questa domanda - e succede sempre! - alzo gli occhi al cielo e sospiro in una maniera così penosa che non hanno più il coraggio di farmi altre domande. Per vendetta gli chiedo di Lula. Il gentile signore mi confessa che a Lula, lui, ci aveva anche creduto. “Qualcosa di buono ha fatto... e poi era sempre meglio della destra”. 

Il signore dell’ostello non è il solo che al presidente operaio (intendo Lula, non quello nostrano) ci aveva creduto. Poi si son resi tutti conto che per la classe operaia non ci sono paradisi su questa terra. “Quando vinse le elezioni nel 2002 ci sembrava che tanti anni di lotte fossero arrivati alla conclusione. E agli inizi era proprio così. Lula accettò di istituire il ministero per la casa e ne affidò la direzione al sindaco di Porto Alegre, Olívio Dutra. Ci volle poco per capire che la lotta sociale non può mai abbassare la guardia e che un governo di sinistra può rivelarsi un avversario più ostico che un governo di destra”. A parlare è Lurdinha Lopes. A vederla per strada, sembrerebbe la classica zia che ti mette nel forno le torte di mele. 

A sentirla parlare di casa come diritto e non come merce, di occupazioni, e di resistenza agli sgomberi, cambi subito idea. Veste una maglietta rosso fuoco dell’Mnlm, il movimento national de luta por moradia (lotta per la casa) di cui è una portavoce e ci accoglie in un palazzone che si erge nel bel mezzo della City, l’elegantissimo quartiere degli affari di Rio. Un palazzo occupato, naturalmente. L’hanno chiamato palazzo Manuel Congo, nome di un eroe popolare nero contro la schiavitù, e fa parte dello dello stesso complesso del Municipio di Rio. Come dire che hanno occupato l’entrata di servizio del signor sindaco! Ci vivono 46 famiglie sfollate dalle favela che non hanno altro tetto che quello sopra la testa. Bella gente che stride come il sale nel caffè tra gli incravattati uomini d’affari della City con le borse di pelle in mano e le mercedes parcheggiate attorno al Manuel Congo. 

Non è la sola occupazione gestita dall’Mnlm. Qua e là per Rio, troviamo altri palazzoni occupati. Tutti con nomi di schiavi ribelli, come il Maria Criola, per un totale di circa 400 “recuperi”. “Dopo aver partecipato a tre inutili Conferenze governative di un ministero che si è rivelato un bluff, senza finanziamenti e senza struttura giuridica per operare - ci spiega Lurdinha -. Abbiamo partecipato alla terza a modo nostro: occupando le case statali vuote”.

Dopo Lula, con l’arrivo di Dilma, il dialogo col governo si è fatto ancora più difficile. Il Pt (partito dei lavoratori) ha sposato la causa degli speculatori edilizi. Tiene sfitte le case popolari - che pure sarebbero sufficienti a dare un tetto a tutti, assicura Lurdinha -, per non abbassare il prezzo delle case e punta sulla crescita edilizia. “Oramai le grandi compagnie si sono specializzate in grandi opere e grattacieli. Tra poco non ci sarà una sola casa di sue piani in tutta Rio”. 

Ma per far questo è necessario fare spazio, conquistare territorio. Ecco allora la parola magica: delocalizzazione. Termine elegante per un concetto fetente. 65 mila disgraziati sono già stati allontanati da Rio, sempre con le cattive e mai con le buone. “Entrano nelle favele come si entra in territorio nemico, le occupano militarmente e mandano via la gente con la forza, sparando proiettili veri. Ai più fortunati danno una casa a tre ore da Rio. Con quello che costano i trasporti, questi disgraziati finiscono lo stesso per dormire per le strade, considerato che devono comunque venire in città per lavorare o per sfamarsi”. Ogni giorno, polizia e messi comunali, girano per le favela “pacificate” e segnano con una vernice gialla, come si fa con gli alberi, le case da abbattere. E’ una pratica che non ha nessun  valore né legale né pratico, ma che basta a far scappare e qualche volta anche suicidare chi ci vive. Vero e proprio terrorismo psicologico.

Il mondiale si è rivelato un ottimo escamotage per giustificare queste operazioni militari contro la povertà per la conquista di terreni lottizzabili. Le telecamere di tutto il mondo che verranno ad immortalare le gesta di Messi e Balotelli, devono trovarsi di fronte ad un “Brazil lindo”. A Copacabana la polizia ti dà 150 reais di multa se butti una cicca per terra. I soldi per le infrastrutture sportive che non sono riusciti a raccattare con l’aumento dei costi dei trasporti, rientrato dopo le proteste, li cercano anche qui. Oppure tagliando le spese per l’istruzione. 

Mentre parliamo con Lurdinha, veniamo a sapere che proprio nella piazza vicina c’è una manifestazione di studenti e professori contro i tagli. “Hanno capito che meno la gente sa e meno è pericolosa - mi dice uno studente - per questo non vogliono che studiamo e che capiamo quali sono i nostri diritti”. Iniziative di protesta come questa - e che vengono puntualmente soffocate violentemente con cariche e lacrimogeni dalla polizia militare (quella civile si limita quasi sempre a dare supporto all’esercito) - sono oramai giornaliere a Rio. E vanno ad aggiungersi ai vari “Ocupa”. Proprio sulla scalinata del municipio, da un paio di mesi - ogni volta che li hanno sgomberati sono sempre puntualmente ritornati - si trova un accampamento di giovani che fanno riferimento al movimento che ha dato origine agli scontri di giugno. Sono quasi tutti a volto coperto. “Abbiamo imparato a nostre spese che è meglio non farci riconoscere - mi dicono - Non solo per la polizia, quanto per i gruppi paramilitari. Sono loro quelli che fanno sparire la gente.”

Elisa ha ventisette anni. Fa parte del movimento. Mi racconta con un sorriso che è di origini calabresi e vorrebbe venire in Italia a vedere come facciamo politica perché, dice, “da voi non è una cosa violenta”. Col suo compagno porta ogni giorno acqua e cibo per i ragazzi della scalinata. Il suo ruolo di portavoce e di supporto logistico le ha impedito di coprirsi il volto. Ora vive nella paura perché i paramilitari l’hanno minacciata di morte. “Siamo scesi in piazza senza esperienza di lotta. Perché lo abbiamo fatto? Perché ci fa schifo la corruzione dello Stato, la politica di partito, la partecipazione limitata a tracciare una x su una scheda di simboli tutti uguali, la povertà, le ingiustizie  ... Ci hanno fatto pagare un prezzo molto duro. Non sappiamo neppure bene chi siamo. Anarchici? Comunisti? O che altro? Solo una cosa abbiamo chiaro e in comune tra tutti noi. La volontà di resistere”.