Report dalla Carovana Ya Basta di presenz/attiva nel gennaio 2010

Dal Nord al Sud dell’Argentina: NI UN METRO MÁS ¡LA TIERRA ES NUESTRA!

dalla regione de La Rioja, nei paesi di Chilecito e Guandacol, alla Patagonia, provincia del Chubut

5 / 2 / 2010

Siamo partiti il 7 gennaio, destinazione Argentina: dieci carovanieri accomunati dall’idea di approfittare del viaggio per vedere cosa accade, come si organizza la gente, come resiste in questo immenso paese del Sud America. Per la prima volta la carovana Ya Basta parte dal Nord, dalla provincia de La Rioja, nei paesi di Chilecito e Guandacol, per conoscere le realtà delle assemblee cittadine autoconvocate: una nuova espressione dei movimenti che nasce dai bisogni concreti dei cittadini.

Le assemblee dei cittadini parlano di difesa dei beni comuni, di salute, di acqua, di vita, di resistenza e di autorganizzazione. Sono autoconvocate per contrastare progetti di governatori locali ma soprattutto di multinazionali di tutto il mondo…. La coltivazione di soia transgenica e le miniere a cielo aperto sono i due grandi argomenti di lotta, organizzazione e resistenza.

La realtà della UAC (unione delle assemblee cittadine) ci appare subito come uno strumento collettivo molto importante. Si tratta di creare i contatti e mantenere dei rapporti di solidarietà e sostegno tra tutte le assemblee locali, si cercano parole d’ordine comuni e si crea una rete di resistenza e sostegno che all’occorrenza si mobilita in tutto il paese. Arriviamo a Chilecito dove  ad attenderci troviamo Gabriela, Perla, Marcela e Vincente, tutti militanti dell’assemblea cittadina contro la miniera nel monte Famatina. Ci raccontano la storia di questa esperienza, nata sull’onda di quella di Esquel, conosciuta da Ya Basta negli anni scorsi.

E' stato proprio nella cittadina di Esquel, nella provincia del Chubut, che l'industria mineraria ha subito un primo grande blocco. La popolazione locale, dopo la creazione di un'assemblea autoconvocata, aveva indetto una consultazione popolare che, nel marzo 2003, rispose con un chiaro e vigoroso "NO" alle multinazionali minerarie. Tutto questo ha portato alla promulgazione della prima legge, a livello di legislatura provinciale, di divieto dell'attività mineraria a cielo aperto. A partire da allora si sono moltiplicate assemblee cittadine, mobilitazioni, azioni promosse dalla CTA ( Central de los Trabajadores Argentinos) e altre forme significative di protesta contro la distruzione ambientale provocata dalle grandi miniere.

Tra il 2003 e il 2008, grazie all'articolazione di proteste a livello regionale, si unirono alla lotta altre sette province minerarie che decretarono, per legge, la proibizione di scavi minerari a cielo aperto. Attualmente esistono 70 assemblee di vecinos autoconvocados e continuano ad aumentare le comunità consapevoli dei rischi connessi con l'attività mineraria e i mega-progetti estrattivi. In Argentina sono ancora numerosi i progetti in cantiere per l'installazione e la costruzione di impianti: Agua Rica, nella provincia di Catamarca (un mega-progetto grande tre volte quello di La Alumbrera), Famatina nella regione de La Rioja e Pascua Lama nella provincia di San Juan. Nel frattempo, dopo la vittoria ottenuta a Esquel, le consultazioni popolari non sono state più permesse.

Inoltre i governi provinciali di San Juan e La Rioja stanno esercitando forme gravi di censura per evitare che si conoscano i danni provocati dalle miniere a cielo aperto: un chiaro segnale degli interessi economici che accomunano i funzionari governativi delle due province con le multinazionali. Sotto questo mantello di omertà e complicità vergognosa, lo sfruttamento a cielo aperto continua silenzioso e apparentemente inarrestabile, come una delle espressioni più spietate del mondo “ricco”.

L’assemblea “El Famatina no se toca” vuole invece svelare tutto questo, parla quotidianamente alla gente, organizza momenti di incontro, assemblee con esperti sugli effetti della miniera sulla salute, sull’acqua, sulla vita delle persone….Ma non solo. L’aspetto che la rende forte è proprio la volontà di non far transitare nelle strade del  paese chiunque si debba recare alla miniera…Veri e propri blocchi stradali, che stanno avendo dei risultati molto positivi: pare infatti che i lavori siano bloccati grazie all’intervento costante, continuo e deciso dei manifestanti. Ovviamente l’impresa mineraria sta cercando altre vie d’accesso al monte Famatina….ma il controllo popolare è attento.

Sognando Guandacol

Arriviamo a Guandacol dopo ore di viaggio per una strada incredibilmente bella che sale in cima alle moltagne, cactus immensi ci accompagnano, caldo incredibile e rocce scavate dal vento che ricordano quelle dei cartoni animati di Willie il coyote.

Il paese conta meno di 4000 abitanti sparsi nel “campo”. Gente semplice che ha creduto in questi anni alle false promesse degli uomini della miniera che frequentano il paese (anche noi abbiamo avuto modo di incontrarci con alcuni di loro e non è stato piacevole, visto che dopo averli fotografati si sono fermati con il loro 4x4 e pretendevano che cancellassimo le foto. scattate...ovviamente non l'abbiano fatto e al contrario siamo riusciti a registrare l’inteso scontro verbale con i componenti dell’assemblea cittadina).

Guandacol era un paese di agricoltori; alberi da frutto e ortaggi caratterizzavano la zona oltre algli onnipresenti allevamenti di bovini e ovini…. Questo avveniva prima dell’arrivo della Miniera. Ora le polveri continue portate dal vento nel paese hanno desertificato la zona, gli alberi da frutto non producono più frutta anzi appaiono quasi essiccati, privi di vita, gli animali nascono con gravi malformazioni, non c’è più acqua…Nei giorni in cui la Carovana si è fermata a Guandacol, le temperature erano incredibili, 45 gradi e senza acqua….un paese che rischia di venire cancellato perché i giovani scappano, se ne vanno, non vogliono morire di malattie respiratorie e per di più non c’è nulla da fare per sopravvivere…L’economia di un piccolo paese è stata cancellata dal volere e dal potere del capitale straniero che oltrettutto non impiega nemmeno mano d’opera locale…oltre al danno la beffa…

A Guandacol ci accolgono Ricardo, Viviana e molti altri dell’assemblea cittadina e ci raggiungono alcuni referenti dell’assemblea della capitale della provincia La Rioja, Cecilia Matta, la leader e molti altri….Un incontro forte, bello e di condivisione che ci fa dimenticare di essere dall’altro lato del mondo tanti erano i pensieri e le idee in comune.

Organizziamo un'assemblea aperta nell’incantevole piazza del paese, un’assemblea veramente partecipata dove si delineano insieme le prossime mosse per contrastare l’impero minerario. La gente racconta di come si viveva prima dell’arrivo della miniera, che è impossibile non notare nel cielo infuocato dal sole di una tardo pomeriggio d’estate…Si vede la nube di polveri che cancella la nitidezza del cielo….Interveniamo anche noi, ci presentiamo e raccontiamo le nostre battaglie, l’esperienza del presidio permanente del No dal Molin, la forza e la volontà di costruire insieme il nostro futuro e soprattutto la resistenza a ciò che ci viene imposto dall’alto dai poteri della politica e del dio denaro. Una notte interminabile, arricchita da una stellata che sembra dipinta nel cielo. Una notte a costruire resistenza a Guandacol, per poterla poi sognare e rivedere un giorno senza miniera…

Il giorno seguente ci attiviamo sul piano comunicativo e partecipiamo alle trasmissioni delle due radio locali e iniziamo un vero e proprio “presidio permanente” nella piazza della paese. La gente si avvicina, ci parla, ci chiede dell’Italia, se esistono miniere da noi, come ci organizziamo come movimento, ci portano il miele e le poche mandorle che gli alberi hanno prodotto… “Assaggiatele, era una produzione di alto livello, prima di tutto questo” ci racconta un giovane, che dal Cile è immigrato acquistando un piccolo terreno proprio sotto il monte della miniera….ora il terreno sembra un deserto.

Paesaggi fantasma.

Le miniere a cielo aperto sono quelle in cui i processi estrattivi avvengono in superficie, mediante utilizzo di grandi macchinari che straziano la terra, provocando enormi lacerazioni. Questo modello di attività mineraria è quello prevalente, a differenza delle miniere a cui, forse, siamo abituati a pensare: le miniere della generazione dei nostri nonni, quando gli operai erano costretti a calarsi in angusti tunnel sotterranei muniti di pala e piccone. Ebbene, questo secondo tipo di miniera va lentamente scomparendo, soprattutto per quanto riguarda l'estrazione di oro, argento, stagno, rame, ferro. A cielo aperto vengono rimosse grandi quantità di terreno anche se, spesso, il minerale è presente in bassa concentrazione rispetto alla terra effettivamente rimossa dalle macchine escavatrici.

Per questa ragione i giacimenti sono formati da enormi crateri, che possono arrivare a 150 ettari di estensione e circa 200 metri di profondità. Per farci un'idea della devastazione che questo metodo di lavorazione comporta, possiamo dire che per estrarre appena 0,01 once di oro, le compagnie minerarie devono rimuovere e distruggere una tonnellata di terreno. Non importa che si tratti di boschi, montagne, pendici, conche idrografiche, suoli coltivati oppure abitati da comunità indigene. Durante le fasi di lavorazione, oltre al cianuro di sodio, vengono utilizzati numerosi altri agenti chimici e tossici che si depositano nelle zone che circondano le aree di scavo, insieme ai detriti di roccia e alla terra sollevata e convertita in melma inquinante. Passano i macchinari e le montagne diventano pianure. Ruscelli di acqua limpida si seccano dopo essere stati indebitamente privati di milioni di ettolitri di acqua, poi riversati in altri corsi d'acqua con l' "aggiunta" di cianuro e sostanze altamente tossiche. Una volta terminati gli scavi, il cratere diventa un lago artificiale, cambiando completamente la conformazione del paesaggio e le vette delle montagne si convertono in lande desolate.

L'economia locale collassa e le popolazioni che vivono in quei luoghi non hanno altra scelta che quella di emigrare. La quantità di denaro investita dalle grandi compagnie nel settore minerario è impressionante: insieme agli idrocarburi e ai farmaci, si tratta di una delle attività industriali che genera maggiori guadagni. Secondo i dati della Segreteria Nazionale delle Miniere, tra il 2003 e il 2007, il totale degli investimenti è aumentato di circa otto volte, passando da 660 milioni a 5600 milioni di dollari. Tanto per fare un esempio: la multinazionale canadese Barrick Gold, la più grande multinazionale dell'oro che vanta azionisti del calibro di George W. Bush, ha investito 3600 milioni di dollari, nel corso del 2009, per lo sfruttamento dei giacimenti di Pascua Lama, lungo la frontiera con il Cile, a 5500 metri di altezza.

Questi investimenti beneficiano di scandalose agevolazioni fiscali, grazie alla Legge sugli Investimenti Minerari (Ley Nacional 24.196) voluta dal governo di Menem, la quale impedisce allo Stato di sfruttare le risorse minerarie nazionali: solamente i detentori di capitale privato possono farlo. Sembra incredibile ma è la realtà dell'Argentina: si tratta, forse, dell'unica legge che impedisce tassativamente a un governo nazionale di intervenire sugli affari riguardanti le ricchezze del proprio territorio, a esclusivo vantaggio delle multinazionali del settore estrattivo.

Report di Monica Tiengo

LA FORESTAZIONE DELLA PATAGONIA

di Fabrizio Benini

L’odierna situazione di degrado economico in cui vivono gli indiani Mapuche trae origine, nella Patagonia argentina, da quella che i politicanti di allora chiamarono “La conquista del deserto”, un genocidio organizzato nella seconda metà dell'Ottocento dall’esercito del governo argentino capitanato dal generale Roca, per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene, a favore dei coloni
A tanti anni di distanza la storia si rende beffarda, infatti i nuovi coloni vessano di nuovo le popolazioni native con un'attività come la “forestazione”.

La terra della Patagonia, arida e sabbiosa in superficie, permette la crescita di erbe e piante cespugliose resistenti al vento e alle escursioni termiche e capaci di trattenere elementi nutritivi e acqua per lungo tempo, divenendo così pascolo per le mandrie di ovini, bovini e cavalli e per diversi erbivori selvatici.


Ora i “moderni conquistadores” europei e nord americani adibiscono migliaia di chilometri quadrati alla innaturale crescita di conifere non autoctone. Il “business” del legno e della cellulosa rischia di cancellare quindi un intero ecosistema evolutosi nei millenni e a cui i Mapuche hanno trovato una naturale vocazione e un ruolo come ad ogni elemento della naturaleza, affinando un modo di vita rispettoso del loro ambiente. La scelta delle piante per forestare la Patagonia è “caduta” su alcuni abeti nord americani, capaci di raggiungere altezze elevate e diametri ragguardevoli in poche decine di anni.

Questo però a scapito delle risorse idriche del luogo: questi alberi riducono la portata dei ruscelli e asciugano ulteriormente il terreno, permettendo ai continui venti di queste latitudini di eroderlo. L’erosione avviene anche perché gli aghi delle conifere depositandosi a terra annullano la crescita delle erbe; fenomeni che determinano anche una drastica riduzione della vita in questi pseudo-boschi così diversi da quelli ancestrali, composti anche da latifoglie.
Senza erba non c’è speranza per i piccoli animali erbivori come lepri e piccoli roditori e di conseguenza cala anche la presenza dei loro predatori. Gli uccelli non trovano i semi per l’alimentazione, non si riproducono e scompaiono dai cicli riproduttivi di altre piante a cui sono essenziali per la diffusione.

Uno dei maggiori problemi derivanti dalle monoculture è l’impoverimento del territorio, ma in questo caso le ripercussioni si hanno anche sulla popolazione.
Il depauperamento del mondo vegetale ed animale toglie alle popolazioni indigene la possibilità di approvvigionarsi di selvaggina e animali da pelliccia, di curarsi con le piante che i loro lonko usano nella medicina tradizionale e di reperire quelle usate nelle cerimonie religiose. Tutte piante che non potranno più crescere all’ombra delle abetaie dei latifondisti.
Che sia “La campagna del deserto” o antiteticamente la forestazione, il fine rimane unico e uguale: la sopraffazione delle popolazioni native.

La Patagonia Ribelle

di Monica Tiengo

Lasciamo Guandacol, il Chilechito e tante emozioni per andare in Patagonia, in Terra Mapuche….

Dopo 45 ore di viaggio, dopo aver cambiato 4 autobus e preso finalmente a noleggio un’auto arriviamo a El Maiten, nella provincia del Rio Chubut, al confine tra la regione dei Laghi e la Patagonia del Nord...nel ventre della proprietà di Benetton.

La sensazione per chi, come me, è già stata in questi luoghi, è quella di essere, dopo tanta strada, finalmente arrivata a casa….

Ci accolgono Mauro e i tanti compagni che quotidianamente gestiscono radio Petu. Con grande soddisfazione ci raccontano di come a due anni dall’inaugurazione il progetto stia crescendo, come nuova gente e molti giovani si siano avvicinati, di come vorrebbero diventasse la radio. Non sono un luogo per comunicare ma anche un luogo dove incontrarsi, fare attività di socializzazione, concerti, musica, laboratori e organizzare la resistenza…insomma quello che noi chiamiamo centro sociale e che loro chiamano SUM, un grande spazio per tante attività.

Andare in radio mi provoca come sempre una grande emozione, parlare ai suoi microfoni ancora di più, anche se dopo pochi minuti, attorno ad una tavola rotonda scambiandoci un mate ci si sente veramente a casa…

Ci raccontano come vanno le cose, come va il processo di resistenza e soprattutto quello di recupero delle terre, quello più importante, perché solo dopo aver recuperato, cioè essersi ripresi la terra che le tante multinazionali e i ricchi terratenenti hanno acquisito in varie forme, solo dopo essere “ritornati alla terra” si può resistere, lottare e creare una rete di sostegno con tutte le altre comunità che sono sotto sgombero o decidono di recuperare.

Questo processo di recupero è cresciuto moltissimo in questi anni e ce lo raccontano con orgoglio i nostri fratelli mapuche.
Recuperare terra vuol dire recuperare vita; e la vita vale "mas que l'oro", più dell’oro che vogliono sfruttare i potenti del mondo. Per questo negli ultimi mesi ettari ed ettari di terra stanno tornando in libertà: si tagliano le recinzioni, si libera la vita, si costruiscono piccole case di terra, fango e legno e da qui…si ricomincia…una vita nuova che ha un sapore vero, che segue semplicemente il ritmo della natura, il susseguirsi delle stagioni, il colore della terra, del cielo, delle infinite stelle che cadono davanti ai nostri occhi increduli da tanto splendore.

Andiamo a far visita a diverse comunità in recupero e non c’è forza più grande di una comunità che decide di resistere e opporsi al continuo saccheggio che quotidianamente i governi locali e i potenti stranieri cercano di imporre.

Quando lo straniero arriva, impone le sue regole, impone un concetto tutto occidentale di proprietà privata, di possesso di ciò che sta sopra, sotto e dentro la terra…Più volte ho raccontato dell’infinita quantità di filo spinato che circonda la Ruta 40, la principale strada che percorre la Patagonia, dei corsi dei fiumi deviati, dei laghi recintati e della polizia privata che sta a guardia dell’immenso….ma questa volta ciò che mi ha colpito di più è la tanta terra recuperata, la volontà  di non arrendersi e di riorganizzarsi.

Vuelta del rio e Las Huaytecas sono solo due dei tanti esempi che incontriamo, gente della terra che con dignità e forza ha deciso di ricostrure e ripensare il concetto di comunità.

Per comunità si deve intendere un insieme di conoscenze, cultura, lingua, condivisione e indipendenza economica. E’ una resistenza che sembra impari ma che può e deve trovare, e su questo stanno lavorando i mapuche, sostegno e riconoscimento anche da altri…non mapuche.

L’esperienza a mio avviso più interessante è quella della della comunità Las Huaytekas , sono circa una ventina di famiglie che hanno occupato praticamente un lato intero di montagna e che per promuovere l’occupazione e per rendersi indipendenti economicamente hanno aperto sulla ruta 40 un mercato autogestito di arte e cultura mapuche. Una bella esperienza di creazione di una nuova comunità, di capacità di programmare e decidere insieme orrizontalmente tutte le mosse e le strategie di resistenza. Anche qui le donne hanno un ruolo molto importante. Mirta è la portavoce che ci racconta che il loro nemico è una grande impresa forestale che ha piantato migliaia di inutili e nocivi pini nella loro montagna. Ci si chiede cosa resterà di quel lato di montagna dopo che l’impresa avrà raggiunto il suo obiettivo, quello di tagliare gli alberi a grandezza raggiunta..Ci raccontano i danni che l’intero ecosistema sta subendo in Patagonia con questa questione della “forestazione” e ci dicono che la loro non è una lotta per un diritto di proprietà ma soprattutto una difesa forte e decisa di tutti gli elementi che fanno parte della natura perchè ancestralmente sentono di appartenere a questa meravigliosa terra. 

Nel grande dibattito mondiale sulla difesa della terra e dell’ambiente, viene da pensare che tutti dovrebbero dare più ascolto alle semplici parole di chi come i mapuche hanno la convinzione di appartenere alla terra e non di esserne solo un fruitore…

Le infinite piantagioni di abeti non autoctoni, il saccheggio continuo delle immense risorse naturali (in primis l’acqua), le continue recinzioni che incontriamo ci parlano invece della volontà di sfruttare e poi abbandonare uno dei posti più belli e incontaminati del mondo.

Ce lo avevano già detto le donne delle assemblee cittadine contro le miniere: "qui i potenti vengono, saccheggiano e poi se ne vanno lasciando solo povertà e devastazione”, ce lo ripetono i fratelli e le sorelle delle comunità mapuche che hanno ben capito che gli interessi economici prevalgono su tutto…sulla natura, sulla terra, sulla vita…

Agli occhi dei nostri viaggiatori sembra impossibile che negli immensi spazi patagonici tutto sia diventato privato, che tutto appartenga a qualcuno, ma la dignità della gente non si compra. La profondità degli sguardi, il colore degli occhi che riescono a riflettere la luce delle interminabili giornate estive esprimono tutto questo…ci parlano di una dignità che va oltre e supera il filo spinato che li circonda.

Editing e immagini a cura di Beatrice Barzaghi