Contagio spagnolo

Il 17 marzo il governo spagnolo ha approvato un nuovo decreto che prevede varie misure economiche per tamponare la situazione.

23 / 3 / 2020

È salito a quasi 28.000 il numero dei contagi in Spagna e a più di 1700 il numero di morti. È passata solo una settimana dalla dichiarazione dello stato di allarme dopo che l’11 marzo l’OMS aveva dichiarato lo stato di pandemia globale. Una misura, quella spagnola, arrivata sicuramente in ritardo rispetto alla veloce espansione del contagio. Che la situazione fosse stata presa un po’ sottogamba lo dimostra l’alto numero di contagi tra i membri del parlamento spagnolo: il primo caso è stato Santiago Abascal che l’8 marzo aveva partecipato al meeting di Vox a Vistalegre (9000 partecipanti in un luogo chiuso) assieme al segretario generale del partito, Javier Ortega Smith, anche egli risultato positivo. Sempre l’8 marzo, dopo le grandi manifestazioni femministe che hanno visto scendere in piazza più di 120.000 persone solo a Madrid, il numero dei contagi ha subito una impennata. Irene Montero, ministra delle pari opportunità e Carolina Darías, ministra delle politiche territoriali, sono risultate positive e il loro contagio ha di fatto costretto tutto il governo spagnolo alla quarantena. Giorni prima l’agenzia europea per la salute pubblica aveva messo in dubbio l’organizzazione di entrambi gli eventi e aveva persino sconsigliato alla popolazione di parteciparvi.

Di fatto quindi la situazione è precipitata in due giorni: se venerdì 13 marzo ancora si discuteva se fosse il caso di adottare misure tanto drastiche, nel giro di 24 ore veniva dichiarato lo stato di allarme con la relativa chiusura di “tutte” le attività e l’inizio della quarantena per la durata dei successivi 15 giorni, con possibilità di proroga (ieri estesa fino all’11 aprile). Lo stato di allarme conferisce  inoltre al governo poteri eccezionali per limitare la libera circolazione di persone e veicoli, beni e servizi di razionamento.

Qui iniziano le contraddizioni. Come in Italia, il governo spagnolo annuncia la chiusura di tutte le attività non “strettamente necessarie” ma l’elenco di queste risulta a dir poco opinabile; nel decreto infatti, tra le attività non soggette a chiusura è presente la voce “vendita di prodotti e beni essenziali" che lascia largo spazio interpretativo, con beneplacito delle aziende. Non è un caso che i fuochi della pandemia siano nelle grandi zone industriali e nei territori ad alta densità produttiva, come dimostrano i dati su scala globale.

Mentre quindi le persone subiscono pesantissime limitazioni della libertà personale (in Spagna per esempio non è consentito uscire neanche per una breve passeggiata che non abbia come fine una spesa o il raggiungimento del luogo di lavoro), il capitale non ne subisce alcuna e anzi, per esercitare le sue libertà mette in pericolo i lavoratori e le lavoratrici. Le multinazionali e le imprese costrette a chiudere invece hanno potuto fare ricorso all’ERTE (Expediente de Regulación de Empleo Temporal) misura che consente a all'azienda di sospendere diversi contratti di lavoro per un determinato periodo di tempo o di ridurre l'orario di lavoro di determinati lavoratori per un certo periodo di tempo. Ciò fa sì che la società risparmi sui salari nel tempo stabilito dall'ERTE, mantenendo i suoi dipendenti che continuano ad essere vincolati alla società ma senza di fatto percepire uno stipendio (per esempio, lunedì Seat ha annunciato che presenterà un ERTE che coinvolgerà 14.812 lavoratori e che chiuderà la fabbrica Martorell a Barcellona per 5-6 settimane). Si parla di multinazionali enormi come Burger King e McDonald’s che ogni anno fatturano grandi capitali sulla pelle dei lavoratori e dell’ambiente ma per le quali, nel momento del bisogno e di fronte alla minaccia di veder calare i propri profitti, tutto diventa carne da macello. La loro libertà, sì che rimane intatta e in ogni caso quindi, a pagare le conseguenze di uno stato di crisi extraemergenziale sono solo le lavoratrici e i lavoratori.

Il 17 marzo il governo ha approvato un nuovo decreto che prevede varie misure economiche per tamponare la situazione, tra questi quella che riguarda i lavoratori in ERTE che avranno accesso alla disoccupazione la cui durata permarrà fino alla fine del periodo di sospensione del contratto di lavoro o di riduzione temporanea della giornata lavorativa. Nel decreto sono previsti anche piccoli aiuti non sufficienti ai lavoratori autonomi: il minimo che si potesse fare.

Per l’ennesima volta il pubblico si fa carico di una voragine economica pur di salvaguardare la “libertà” delle grandi imprese, escluse dal “sacrificio” collettivo. Non si tratta di un problema solo della Spagna ma di un problema che dovranno affrontare nei prossimi mesi (e anni) tutti i paesi del mondo e che dimostra, questa volta in maniera lampante, i limiti e il fallimento del sistema capitalista davanti ad una emergenza sanitaria globale.

La risposta collettiva però non ha tardato ad arrivare, i movimenti Marea Básica contra el paroy la precariedad e Renta Básica ¡Ya! hanno lanciato una petizione dove chiedono misure immediate per contrastare gli effetti indesiderati della situazione di emergenza sui settori più precari e svantaggiati della società. La proposta è semplice e prevede l'applicazione di un reddito di quarantena di base che garantisca una vita degna a tutte le persone: “Siamo consapevoli che questa misura implicherebbe l'assegnazione di importanti risorse economiche, ma anche che l'eccezionale situazione in cui viviamo consente allo Stato di adottarle. Tra le altre cose, mentre alcuni settori economici vedono il loro reddito impoverito, altri lo vedono aumentare, a volte molto notevolmente. Pensiamo che la sfida principale che dobbiamo affrontare come civiltà sia quella di poter andare avanti insieme, poiché questo è un problema che affetta tutti. E questo progresso implica che l'intera società esca nel miglior modo possibile da questa trance nella quale stavamo vivendo, ma non a scapito di abbandonare importanti settori, tutti funzionanti e precari.”

Come in Italia la grande emergenza richiama al centro dell’attenzione pubblica diritti e rivendicazioni sopite, contraddizioni e ingiustizie, e si pone come spunto di riflessione l’immaginare un sistema migliore che parta da un semplice assunto: giustizia sociale per tutte e tutti.

Lo stato di emergenza prevede inoltre, la possibilità da parte dello stato di poter utilizzare, per garantire il servizio pubblico, i beni e le risorse private e porre sotto il suo comando il personale sanitario privato. Anche questo è stato fatto dopo settimane in cui l’unico apporto delle cliniche private era stato quello di abbassare leggermente il prezzo del tampone che, come alcuni media avevano riportato, arrivava a superare persino gli 800 euro in alcune prestigiose cliniche di Madrid.

Con il decreto tutti gli spazi pubblici e privati possono essere abilitati a trasformati temporaneamente in nuovi luoghi di assistenza per la cura dei malati. Il governo aveva dato alle aziende che fabbricano materiali come apparecchiature diagnostiche, maschere per il viso, occhiali protettivi, guanti e altri prodotti sanitari un termine di 48 ore (a partire dal 15 marzo) per riferire delle autorità, pena sanzione immediata. Si tratta sicuramente di una misura giusta ma in qualche modo resa necessaria dalla situazione della sanità spagnola. Un dato interessante da rilevare è che di tutti gli ospedali e le cliniche presenti nel paese, meno della metà di questi sono strutture pubbliche. Questo significa che in casi di emergenza come l’attuale epidemia, senza la “confisca” delle strutture private, il sistema sanitario spagnolo sarebbe andato al collasso nel giro di pochi giorni. I tagli degli ultimi anni inoltre, firmati anche PSOE, avevano drasticamente ridotto il personale, i posti letto e le risorse finanziarie destinate alla sanità pubblica. Ci troviamo dunque davanti ad un problema più profondo: la perdita graduale del principio di universalità della sanità spagnola.

Con tutte le contraddizioni che lo stato attuale sta mettendo in luce si spera che questa emergenza sia un punto dal quale ripartire per immaginare davvero politiche alternative, redistributive e universali, non assoggettate a logiche liberiste che si dimostrano, adesso più che mai, inadeguate.