Intervista di Lorenzo Fe

Conflitti sociali in Cina – Intervista al collettivo di ricerca Chuang

29 / 2 / 2016

Chuang è un collettivo di ricerca anticapitalista sulla Cina, amministratore della pagina web chuangcn.org. A breve uscirà il primo numero dell’omonima rivista. Abbiamo spesso fatto riferimento all’importanza dei conflitti sociali in Cina nel mondo contemporaneo, senza purtroppo avere la possibilità di investigarli sul campo in prima persona. Sembra quindi importante cominciare a stabilire connessioni con ricercatori e militanti presenti sul terreno, in modo da approfondire la comprensione e il dibattito sul tema. Questa intervista costituisce una prima occasione di scambio.

Innanzitutto, perché avete deciso di avviare il progetto Chuang e di che cosa si tratta? Qual è secondo voi l’importanza a livello globale dei processi sociali che si stanno sviluppando in Cina?

Chuang: Due dei fondatori di Chuang si sono occupati di ricerca indipendente, traduzioni, stesura di articoli e organizzazione di eventi sulla Cina sin dai primi anni 2000. Un collettivo precedente di cui facevamo parte si è dissolto a causa di differenze politiche e dello sviluppo di carriere accademiche da parte di alcuni membri. Poco a poco abbiamo incontrato altre persone interessate alla Cina tramite più ampi network anti-capitalisti e nel 2013 ci siamo riuniti per discutere le tendenze della società cinese e alcune idee per collaborare. Svariati partecipanti all’incontro hanno avviato un blog in inglese su un sito già esistente, e altri si sono messi a scrivere per pagine cinesi. Al fine di consolidare una presenza più distintiva e coerente nei dibattiti in inglese sulla Cina, alcuni di noi alla fine hanno deciso di avviare un sito a parte (Chuangcn.org) e iniziare la preparazione di una rivista su carta stampata.

L’idea di fare uno sforzo addizionale per stampare una rivista è stata parzialmente ispirata dal fatto che la gente legge più facilmente analisi lunghe e in profondità se sono stampate e se sia forma che contenuto sono preparati con cura. Questa è stata la nostra esperienza personale con riviste come Endnotes, Sic e Kosmoprolet. Chiaramente – come anche i redattori di queste riviste – vogliamo che i nostri testi siano quanto possibile accessibili, quindi li pubblicheremo anche sul nostro sito.

Per quanto riguarda il nostro approccio all’analisi dei processi esistenti in Cina e il loro significato globale, lo riassumiamo nella prefazione al primo numero della nostra rivista, che uscirà a breve: “Chuang è un collettivo di comunisti che ritengono che la ‘questione cinese’ sia di importanza centrale nelle contraddizioni del sistema economico globale e nelle potenzialità per un suo superamento. […] La Cina si colloca al fulcro delle reti produttive globali, di conseguenza le crisi cinesi minacciano il sistema capitalista più che le altre. Una svolta in Cina significherebbe una crisi davvero sistemica, nel corso della quale il superamento del capitalismo potrebbe diventare nuovamente l’orizzonte delle lotte popolari. […] Il nostro obiettivo è quello di formulare un apparato teorico lucido, in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. In questo primo numero, tracciamo il nostro framework teorico di base e illustriamo lo stato attuale del conflitto di classe in Cina. Includiamo anche le traduzioni di reportage e interviste con i proletari coinvolti nelle lotte, affiancando alla nostra teoria fonti primarie provenienti da dinamiche di classe che resterebbero altrimenti astratte. […] La nostra narrazione […] non intende resuscitare antiche faide intestine alla sinistra, e nemmeno proporre un gioco di replay storico che mappi la nostra direzione politica attuale in base a coordinate divenute obsolete molto tempo fa. Speriamo invece che la nostra storia economica della Cina possa fornire una chiave di lettura attuale per i conflitti contemporanei nell’area, gettando luce sull’eredità del regime di sviluppo socialista e sulle sfide peculiari per qualsiasi progetto di emancipazione che sorga nel paese più grande del mondo e nella seconda più grande economia capitalista, che rimane sotto il controllo di un regime che rivendica tuttora una dedizione al comunismo. […]”.

È vero che la percentuale di lavoratori impiegati in attività “produttive” sta diminuendo, tuttavia sembra che in Cina una porzione crescente della popolazione sia stata inclusa nel rapporto salariale (sia in attività produttive che improduttive). La relativa riduzione dell’esercito industriale di riserva spiegherebbe piuttosto bene gli impressionanti aumenti di scioperi e salari avvenuti in Cina negli ultimi anni. Non c’è una tensione tra questi dati empirici e la vostra affermazione secondo cui le rivendicazioni salariali e le forme di lotta a esse associate sarebbero di importanza secondaria rispetto alle rivolte? L’assenza di un movimento operaio avente un certo livello di coordinazione non è più facilmente spiegabile con la repressione statale e il monopolio legale della rappresentanza dei lavoratori da parte del sindacato di stato, piuttosto che dalla “illegittimità delle rivendicazioni salariali”, che nonostante tutto sono assai presenti? E se l’alto livello di repressione statale fosse a sua volta spiegabile dallo scarso spazio per ulteriori concessioni salariali (a causa del basso saggio di profitto), non si tratterebbe di un’ulteriore prova dell’importanza centrale delle rivendicazioni salariali?

Prima di tutto, è importante disaggregare alcune espressioni utilizzate nella domanda. È vero che il numero di persone impiegate in attività produttive (soprattutto nel manifatturiero) sta diminuendo e che sempre più persone stanno diventando dipendenti dal salario, ma questo non coincide con una riduzione dell’esercito industriale di riserva. Questo perché i “contadini storici” non sono un esercito industriale di riserva, anche se alla fine vengono proletarizzati. Infatti l’esercito industriale di riserva consiste di persone dipendenti dal salario che non hanno accesso al lavoro e che di conseguenza contribuiscono ad abbassare il salario di coloro che lavorano, dato che esiste un esercito di disoccupati che necessita di lavoro per la propria sussistenza. I “contadini storici”, anche nella forma in cui sono esistiti nel periodo socialista, non erano dipendenti dal salario e perciò non esercitavano una pressione al ribasso sui salari. Il primo numero della nostra rivista include un articolo che spiega come il processo di separazione dei contadini da mezzi di sussistenza alternativi al salario abbia avuto luogo in Cina, cambiando la natura di classe dei contadini, essenzialmente proletarizzandoli. Questo processo “libera” dalla terra (o da altre forme di sussistenza non salariata) una popolazione precedentemente non salariata e la incanala verso l’economia basata sul salario. Successivamente a questo processo, noi non vediamo una “riduzione” dell’esercito industriale di riserva in Cina. Tale riduzione potrebbe essersi verificata nei primi o a metà anni 2000, ma non sussiste più oggi. Anzi, ora che la crescita economica sta chiaramente rallentando, ci saranno meno industrie in grado di fornire occupazione a queste masse di nuovi proletari. Settori tradizionalmente sovra-produttivi come l’acciaio, il carbone, l’edilizia, ecc. stanno subendo difficoltà, e probabilmente effettueranno licenziamenti di massa nei prossimi anni. Molte altre fabbriche hanno già chiuso i battenti nel 2008-09 e molte zone, come Dongguan, non si sono ancora riprese. L’esercito industriale di riserva oggi sta crescendo e questo fa parte di una crescita generale della popolazione in eccesso – di cui l’esercito industriale di riserva è solo una frazione.

Tenendo conto di questo, non è chiaro che ci sia una relazione causale tra la riduzione dell’esercito industriale di riserva e gli aumenti salariali, perché l’esercito industriale di riserva non si è ridotto. C’è una scarsità di mano d’opera, è vero, ma questo ha anche a che vedere con tendenze demografiche generali, la crescente produttività di alcune industrie e la trasformazione capitalista della campagna. Inoltre, certe regioni non si sono ancora riprese dalle chiusure di fabbriche del 2008 e la fuga di capitali e migranti che a esse si accompagnò. Questo è il paradosso della “scarsità di  mano d’opera migrante in concomitanza con l’abbondanza di offerta di mano d’opera rurale” [1].

In secondo luogo, in realtà non riteniamo che gli scioperi e le rivendicazioni salariali siano di secondaria importanza rispetto alle rivolte. Infatti, i due molto spesso si combinano. Mettiamo semplicemente in evidenza il fatto che le rivolte sembrano essere più comuni, e che tendono a coinvolgere fasce più ampie della popolazione, rispetto a lotte molto specifiche miranti a forme particolari di contrattazione sul salario. Ma anche questi scioperi rivendicativi non hanno realmente la medesima natura dei tradizionali movimenti operai, infatti molti migranti non nutrono nemmeno l’aspettativa di lavorare nello stesso posto di lavoro molto a lungo. I lavoratori hanno pochi incentivi a costruire istituzioni volte a effettuare importanti ristrutturazioni dell’impresa, o a pianificare la conquista rivoluzionaria della produzione. C’è infatti una scarsa identificazione tra il lavoro e la propria vita – una situazione molto diversa dal “lavoro a vita” che si sarebbe potuto cercare, per esempio, nelle fabbriche di auto di metà XX secolo a Detroit. Di conseguenza tali rivendicazioni in Cina spesso assumono una forma simile al saccheggio, con una mentalità “prendi tutto quello che puoi”. Si apre uno spiraglio dal quale è possibile riprendersi salari, bonus vacanza, contributi non pagati, o semplicemente rifarsi su manager che hanno molestato sessualmente lavoratrici, proprietari che hanno mandato squadracce a picchiare i lavoratori che hanno alzato la testa, ecc. I lavoratori colgono l’occasione, ma poi spesso prendono semplicemente i soldi e se ne vanno. Queste attività stanno diventando più collettive, ma in ogni caso somigliano di più ai contemporanei scioperi e rivolte di altri paesi rispetto a quello che normalmente si pensa.

In terzo luogo, la “illegittimità delle rivendicazioni salariali” non significa che esse non esistano o che non siano comuni. Prendiamo in prestito questo termine dal gruppo francese Théorie Communiste ed effettivamente non è l’espressione migliore (tendono ad amare l’uso di linguaggio arzigogolato). Sostanzialmente significa che, al livello globale, il saggio di profitto è così basso che il capitale non può permettersi un aumento del minimo salariale globale. Si tratta di una semplificazione eccessiva, e ha svariate altre conseguenze (inflazione, turbolenze valutarie, crisi dei debiti sovrani, ecc.) ma la forma che assume in Cina è tale per cui il salario stesso diventa un punto centrale di contesa, e gli aumenti salariali hanno per conseguenza la delocalizzazione di fabbriche nell’interno del paese o all’estero, oppure l’intensificarsi dell’automatizzazione. Troviamo tutti questi fenomeni in luoghi come il Delta del Fiume delle Perle, qui gli scioperi sul posto di lavoro riguardano più spesso pagamenti e contributi in blocco, e i lavoratori che li intraprendono non si aspettano di rimanere nella fabbrica o che la fabbrica rimanga in zona. Molti degli scioperi recenti richiedevano il pagamento di salari in arretrato da parte di fabbriche che si preparavano a delocalizzare. I lavoratori li hanno intrapresi perché costituivano la loro ultima possibilità di ottenere il denaro, senza il rischio di perdere il lavoro che se ne stava andando in ogni caso.

Quindi le rivendicazioni salariali sono di importanza centrale – ma non nel modo in cui lo sono state per i movimenti operai storici di Europa e America. La differenza cruciale sta nel fatto che le rivendicazioni salariali odierne non possono avere per risultato la creazione di un settore di colletti blu ad alto salario, nemmeno per pochi decenni. Ogni organizzazione che si costituisca con questo scopo, o sulla base di simili presupposti, commette un errore strategico. In sostanza, le condizioni globali contemporanee hanno distrutto l’ambiente nel quale si è sviluppato il movimento operaio storico, quindi è improbabile che le strategie di quel movimento possano funzionare oggi; che si tratti di varianti moderne del New Deal socialista liberal per la creazione di posti di lavoro ad alto salario, o del programma di Erfurt, o dello sciopero generale anarco-sindacalista, per non parlare di rivoluzioni effettuate da milioni di contadini armati. Tutti questi esempi si basano sulla espansione dell’occupazione in imprese produttive su ampia scala e sull’afflusso di contadini in fase di proletarizzazione provenienti da un’ampia frontiera non capitalista. Queste sono le condizioni necessarie per le riforme socialdemocratiche volte alla redistribuzione dei redditi, i partiti di massa, i grandi sindacati dei lavoratori e i tradizionali eserciti rivoluzionari. Non c’è dubbio sul fatto che le future forme di organizzazione avranno forti componenti legate al lavoro e al posto di lavoro – assolutamente. Ma questo non coincide necessariamente con l’ascesa di un “movimento operaio” tradizionale, o di nulla che vi assomigli. Un movimento di questo tipo non esiste in Cina, e ciò non è dovuto semplicemente alla repressione. Infatti tale movimento non esiste neanche in Europa, negli Stati Uniti o in altri paesi dove non si dà la repressione “dura” che caratterizza lo stato cinese. Non c’è un “movimento operaio” in quanto tale in Cina e ripetiamo: questa è una cosa buona dal punto di vista del potenziale per un progetto comunista.

Un certo numero di organizzazioni dei lavoratori e ONG di fatto esistono e sono spesso soggette alla repressione dello stato, come abbiamo visto nel giro di vite del 3 dicembre. Nonostante l’importante lavoro che tali gruppi svolgono, rimangono di piccola portata e non si sono generalizzati in modo comparabile ai movimenti operai del primo XX secolo in Cina e altrove. Anche se alcuni parlano di se stessi in termini di “movimento operaio”, hanno una forma più simile ai network di attivisti per il sostegno dei lavoratori presenti anche in altri paesi.

Esiste un’intersezione tra lotte ambientali da un lato e scioperi e rivolte dall’altro? Come?

Le rivolte spesso esplodono come reazione ai tentativi della polizia di reprimere proteste ambientali. Ci sono notizie in cinese su questo tipo di episodi quasi ogni settimana, e i casi più eclatanti giungono ai media in inglese diverse volte all’anno. Non ci è giunta voce di intersezioni tra scioperi e lotte ambientali nel senso di lotte miranti al cambiamento delle condizioni al di fuori del posto di lavoro. Questo è probabilmente un sintomo del fatto che la maggior parte degli scioperi sono condotti da lavoratori migranti che non intendono stabilizzarsi nelle zone in cui lavorano. Se il termine “ambientale” è esteso per indicare anche condizioni di tossicità sul posto di lavoro e nei dormitori, tali questioni sono a volte un fattore negli scioperi (che però hanno principalmente altre rivendicazioni). Più spesso esse si manifestano in richieste di cure o compensazioni per malattie o decessi già causati da tali condizioni.

Per quanto riguarda le lotte ambientali all’esterno del posto di lavoro, la principale modalità di intersezione avviene quando i residenti stabili di una zona fanno chiudere un’azienda a causa dell’inquinamento, e poi i lavoratori licenziati protestano per chiedere l’indennità di licenziamento. Questo è accaduto almeno due volte a fine gennaio, in una fabbrica di alluminio a Hunan e in una fabbrica di acciaio ad Anhui. La fabbrica di alluminio è stata chiusa dopo che i contadini hanno protestato contro l’inquinamento dell’acqua, al quale attribuivano una diminuzione del raccolto e un aumento di malattie quali il cancro. Più di 600 lavoratori sono stati messi in congedo non pagato. 400 di loro hanno marciato per sette chilometri per ottenere un’indennità, i salari arretrati, i contributi assicurativi e controlli medici. I controlli medici sono stati richiesti perché i lavoratori erano preoccupati in merito agli effetti dell’inquinamento sulla propria salute, unico punto in comune con le rivendicazioni ambientali dei contadini. Tuttavia a quanto pare non hanno fatto alcun tentativo di coordinarsi con i contadini a riguardo. In generale, questo tipo di proteste vedono i manifestanti per l’ambiente schierati contro i lavoratori che rischiano il licenziamento, e non sappiamo di alcun caso in cui questo conflitto di interessi sia stato risolto.

In che modo i movimenti sociali occidentali possono sostenere efficacemente le lotte cinesi?

Chuang: Gli attivisti dei paesi ad alto reddito tendono a manifestare il loro sostegno per le lotte che avvengono nei paesi a basso reddito attraverso azioni come manifestazioni all’esterno di sedi diplomatiche, o addirittura in piccoli parchi dove non vengono viste da nessuno eccezion fatta per gli stessi auto-compiacenti attivisti. Questi atti dimostrativi servono soprattutto a dare agli attivisti il sentimento di “star facendo qualcosa”, cercando prestigio nella loro propria subcultura. Ciò è in parte causato da difficoltà oggettive: quando un gruppo di lavoratori sciopera in Cina, per esempio, pochi europei lo vengono a sapere prima che lo sciopero sia già terminato, e anche se è ancora in corso, non possono fare donazioni senza aumentare seriamente i rischi dei lavoratori che dovrebbero riceverle e dei network che dovrebbero facilitare la transazione.

La transnazionalità delle aziende implicate in tali lotte suggerisce la possibilità di costruire azioni e network transnazionali in grado di esercitare una pressione reale su di esse. Tuttavia non sappiamo di esperienze del genere a parte per network orientati al consumatore come SACOM (Students and Scholars Against Corporate Misbehavior), che mirano a far firmare alle multinazionali “accordi di responsabilità sociale aziendale”, oppure piccoli boicottaggi indipendenti, come quello dell’azienda calzaturiera Yue Yuen. I primi possono essere semplicemente condannati come inefficaci anche per il raggiungimento di immediati obiettivi riformisti e come inadatti allo sviluppo dell’iniziativa operaia. I boicottaggi, almeno, hanno preso le azioni dei lavoratori cinesi come punto di partenza, tentando di incoraggiare la solidarietà proletaria internazionale. Ma essendo limitati a boicottaggi (per lo più fallimentari) dei punti vendita al dettaglio, non sono andati oltre piccole azioni simboliche.

Queste azioni sarebbero più efficaci se si estendessero ai punti nevralgici della catena di distribuzione globale, dalla manifattura alla vendita al dettaglio. Ma ciò richiederebbe un livello di comunicazione tra i lavoratori della logistica che al momento non si dà, anche se ci sono stati sviluppi promettenti tra i lavoratori della logistica in Italia, per esempio.Ipoteticamente, il carattere transnazionale del capitale in generale e di certe compagnie in particolare ha creato le condizioni oggettive per azioni concrete di solidarietà transnazionale. Tali mobilitazioni potrebbero mettere seriamente in discussione i margini di profitto di tali compagnie, appoggiando così le iniziative sovversive dei lavoratori al punto di produzione. Questo è oggi più vero che mai, e la difficoltà principale sembra essere la mancanza di consapevolezza e di connessioni tra i lavoratori dei diversi paesi – e anche tra i lavoratori di stabilimenti diversi delle stesse compagnie negli stessi paesi. La Cina si trova in prima linea in quanto a nuovi meccanismi securitari (tecnici e politici) miranti a prevenire la solidarietà proletaria transnazionale facilitata invece dall’integrazione della Cina nel mercato globale. Questa integrazione non può funzionare senza connettere i proletari oltre i confini nazionali in un modo o nell’altro. I lavoratori cinesi sono diventati assai esperti nell’uso di internet; alcuni lavoratori attivisti reperiscono e diffondono le informazioni sulle lotte degli altri paesi e utilizzano i loro contatti internazionali per sostenere le lotte locali.Chuang è in primo luogo orientato a diffondere informazioni sulla Cina a lettori anglofoni, affiancando alle nostre analisi le traduzioni di narrazioni proletarie cinesi e le analisi di attivisti cinesi. Alcuni di noi lavorano anche con siti cinesi al fine di introdurvi informazioni sulle lotte e le condizioni esistenti altrove.

Per i proletari al di fuori della Cina, vorremmo sottolineare che, nel XXI secolo, siamo tutti più o meno connessi alla Cina. Soprattutto per quanto riguarda le prospettive di una rivoluzione comunista, i proletari cinesi saranno centrali in un modo o nell’altro a causa del ruolo della Cina e dei lavoratori cinesi nell’economia globale, per non parlare della semplice magnitudine della popolazione cinese. Questo significa che, se vogliamo giocare un ruolo in qualsiasi tipo di movimento che aspiri a superare il capitalismo, dobbiamo sviluppare relazioni personali con i lavoratori cinesi e migliorare la nostra comprensione della storia e della situazione cinese, andando oltre le mitologie portate avanti da amici e nemici. Uno degli obiettivi di Chuang è quello di aiutare le persone di altri paesi a superare tali mitologie e a riconoscere che le condizioni che vivono in quanto proletari non sono fondamentalmente diverse da quelle che vivono i cinesi. Siamo consapevoli del fatto che il pubblico disposto ad ascoltare un messaggio del genere, al momento, è probabilmente limitato ad alcune nicchie – non nutriamo illusioni in merito. Ma è anche piuttosto evidente che, con il rallentamento della crescita in Cina, domande sull’argomento verranno poste sempre più spesso e da sempre più gente. Molti hanno cominciato a mettere in dubbio pubblicamente i fondamentali del capitalismo dopo la crisi del 2008, pensiamo che la questione cinese stia cominciando ad assumere caratteristiche simili. I nostri argomenti avranno quindi qualche opportunità di fuoriuscire dal solitamente sigillato mondo degli attivisti.

*** Lorenzo “Fe” Feltrin, di Treviso, è dottorando in scienze politiche alla University of Warwick, dove si occupa di sindacati e movimenti sociali in Marocco e Tunisia. Ha precedentemente collaborato con la casa editrice milanese Agenzia X, per la quale ha pubblicato il libro Londra Zero Zero sulle subculture anni zero della capitale inglese.

Note[1] Questo è il titolo di un articolo accademico sull’argomento, pubblicato in Eurasian Geography and Economics, 51(4), 2010, di Kam Wing Chan.