Cina - L'esportazione delle zone speciali in Africa

Un nuovo colonialismo? Un contributo allo sviluppo? Le contraddizioni della relazione tra la fabbrica del mondo e il continente più povero

18 / 3 / 2013

Oggi con Angela Pascucci affrontiamo per Osservatorio Cina un altro pezzo di mondo che sembra tanto lontano ma che è vicino alla Cina dal punto di vista degli interessi: ci riferiamo al continente africano.


Partiamo dalla cronaca. Il primo viaggio all'estero che farà nuovo “capo dei capi Xi Jiping, che proprio oggi è stato nominato dall'Assemblea Nazionale del popolo Presidente della Repubblica Cinese, dopo che a novembre era stato insignito dei titoli di Segretario del Partito e della Commissione Militare Centrale, sarà in Africa e in Russia, alla fine di marzo.

In Africa andrà in Tanzania, nella Repubblica del Congo e in Sudafrica e qui presiederà ad una riunione dei BRICS, l'acronimo che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.

È un viaggio importante, e simbolico, perché la nuova leadership che si è insediata a Pechino ribadisce così la centralità e l'importanza del continente africano. Il valore simbolico è raddoppiato dal fatto che si terrà la riunione dei BRICS che, vogliamo ricordare, racchiudono il 43% della popolazione mondiale, il 17% del commercio globale e insieme hanno preso l'impegno di triplicare entro il 2015 i propri investimenti in Africa.

Ricordiamo che la Cina, già nel 2012 durante l'ultimo Forum Cina-Africa che si tiene ogni tre anni - e a cui tiene particolarmente - si è impegnata a raddoppiare per i prossimi tre anni da 10 a 20 miliardi di dollari i prestiti ai paesi africani. Così facendo la Cina vuole rimarcare il fatto di avere un grande interesse per l'Africa ma di essere anche parte di un blocco, quello del nuovo asse dello sviluppo globale, e di non essere un giocatore isolato. In questo modo pone un'enfasi particolare sul fatto che con la propria azione in Africa ha prodotto un innegabile multilateralismo nella geopolitica globale grazie proprio alla sua espansione, che in questo continente ha avuto uno sviluppo particolare.

Al di là del valore simbolico ci sono anche dei fatti molto concreti. Di tutti i BRICS la Cina è certo quello più impegnato in Africa in quanto, come sappiamo, la strategia globale cinese è volta ad assicurarsi risorse fondamentali per la propria crescita economica quali fonti energetiche, petrolio, gas e altre materie prime importanti per far andare la macchina della propria economia.

Questa strategia complessiva digoing out, come la chiamano i cinesi,ha origine nella metà degli anni '90 quando la Cina si rende conto di non essere più autosufficiente dal punto di vista energetico e comincia ad importare a ritmo crescente il petrolio ed ogni fonte energetica e materiale strategico vitale per la propria crescita. E' a questo punto che si incardina fortemente la sua presenza in Africa.

(http://www.cartografareilpresente.org/article412.html).

Gli elementi simbolici sono i “China-Africa Forum”,che si tengono ogni tre anni. Il primo si è tenuto nel 2000 e particolare rilevanza ha avuto quello che si è tenuto nel 2006 a Pechino e che molti ancora ricordano. Pechino fu completamente addobbata con bandiere e manifesti enormi raffiguranti leoni, giraffe, elefanti e striscioni con slogan che inneggiavano a questa nuova partnership. In quella occasione furono invitati i capi di 48 nazioni africane. Fu un evento senza precedenti perché mai nessun paese occidentale, né europeo né tanto meno del continente americano, aveva mai organizzato qualcosa del genere. Nessuna nazione europea aveva mai dimostrato una simile attenzione complessiva all'intero continente.

Oggi l'interscambio tra la Cina e l'Africa è arrivato a 200 miliardi di dollari rispetto ai 9 miliardi del 2001. Dall'Africa la Cina importa il 30% del totale del petrolio che acquista all'estero.

Nel 2012 gli investimenti diretti cinesi nel continente sono arrivati a 16 miliardi di dollari, che tuttavia sono solo una parte di tutta un'altra serie di flussi finanziari, prestiti a tassi agevolati o a tasso zero che vengono concessi dalle diverse entità cinesi sia direttamente ai governi africani che alle imprese cinesi che si installano in Africa.

Per esempio è stato calcolato che tra il 2001 e il 2011 la Import-Export Bank della Cina ha prestato all'Africa subsahariana 67 miliardi di dollari. Per un confronto, si pensi che la Banca Mondiale ne ha dati 55.

Un altro elemento importante per il consolidamento della presenza cinese in Africa è stato l'acquisto del 20% della Standard Bank sudafricana da parte della Industrial China Industrial and Commercial Bank. Un grossissimo investimento di 5,5 miliardi di dollari che è però strategico perché la Standard Bank sudafricana ha 500 filiali in 17 paesi africani e dunque offre una buona rete di espansione finanziaria a sostegno degli investimenti e delle attività economiche cinesi.

Quindi la presenza cinese in Africa si sta allargando e diversificando. Non agiscono più soltanto le imprese statali, che sono quelle che hanno le mani sul petrolio, sul gas e sulle materie prime strategiche ma si è aggiunta in questo decennio anche un' imprenditoria privata cinese che opera nel settore delle infrastrutture e della manifattura. (Mancano dati affidabili sulla effettiva presenza cinese in Africa, soprattutto per alcune voci, come quella dell’imprenditoria privata. Uno studio della Import-Export bank del 2006 parlava di 800 compagnie, l’85% delle quali private, ma da allora la presenza è esplosa. Tra il 2007 e il 2008 sono arrivate a 2000 per poi aumentare ancora. Ci sono fonti che parlano di decina di migliaia di piccole e medie imprese cinesi sul continente. Si veda: Gu Jing “China’s Private Enterprisee in Africa and the implications for African Development” in European Journal of Development Research Special Issue, 2009).

La Cina ce la sta mettendo tutta per rispondere alla critica che da sempre accompagna il suo intervento in Africa, quella di esercitare un “neo-colonialismo strisciante”. Questo è anche il giudizio che Hillary Clinton, l'ex segretario di Stato Americano, buona ultima aveva dato nel 2011 nel corso di un viaggio ufficiale in Africa. La critica classica è che la Repubblica Popolare cinese ha un atteggiamento predatorio, quindi neo-coloniale, in quanto si accaparra ingenti ricchezze, materie prime e risorse minerarie senza dare un corrispettivo adeguato a quello di cui si appropria. Pechino si difende da questa accusa affermando invece che la sua è una strategia “win-win”, ovvero di mutuo beneficio e che soprattutto si incardina sui 5 principi della coesistenza pacifica che hanno alla base la non ingerenza negli affari interni dei singoli paesi. Questa strategia ha sempre irritato l'occidente, perché sulla base di questi principi cardine di non ingerenza, la Cina proteggerebbe i cosiddetti “stati canaglia africani”, consentendo loro di sfuggire ai condizionamenti occidentali.

Quale sono le caratteristiche della presenza cinese in Africa?

Il quadro che ho cercato di delineare parla invece di una presenza cinese che è molto più vasta e articolata del “colonialismo strisciante ”. Ciò che sta prendendo forma è un enorme progetto di espansione di un modello economico, quello cinese, che afferma di essere un volano di sviluppo per l'intero continente africano. Un modello ben diverso da quello occidentale che, quello sì, è sempre stato percepito dagli africani come coloniale in quanto non ha mai cercato di tirare fuori l'Africa dai suoi problemi e dai suoi guai, ma piuttosto li ha moltiplicati e ha avuto come obiettivo soltanto l'arricchimento occidentale.

Prova ne sia il fatto che Pechino sta esportando in Africa il modello delle “Zone Economiche Speciali”, che in Cina sono quelle che hanno fatto da trampolino di lancio alla sua economia: la zona economica di Shenzhen, nel Guangdong, o la zona di Pudong a Shanghai. Sono previste, infatti, in Africa sette “Zone Economiche Speciali”, due in Zambia, due in Nigeria, nelle isole Mauritius, in Egitto e in Algeria, oltre ad una serie di parchi industriali e zone di libero scambio. (per un approfondimento: Deborah Brautigam, Thomas Farole, Tang Xiaoyang “China’s Investment in Special Economic Zones : Prospects, Challenges, Opportunities, marzo 2010. http://siteresources.worldbank.org/INTPREMNET/Resources/EP5.pdf).

Le “Zone Economiche Speciali” sono dei sistemi economici particolari che ai cinesi assicurano molti vantaggi. Si assicurano l'importdi loro macchinari ed attrezzature ed in più usano queste aree per produrre manufatti “made in Africa”, che vengono esportati nei paesi occidentali come tali e quindi possono usufruire delle agevolazioni all'export concesse ai prodotti africani, agevolazioni che non sarebbero consentite ai prodotti cinesi.

Si può dire che le “Zone Economiche Speciali”, nelle intenzioni dei cinesi o almeno per come Pechino le vendono agli africani, dovrebbero essere anche per le economie africane un elemento di lancio, l’ avvio di un ciclo virtuoso dello sviluppo economico africano.

Un altro aspetto importante, proprio dell'intervento cinese in Africa, è quello riguardante la costruzione di infrastrutture. Generalmente i cinesi, anche su richiesta dei governi africani, legano i loro contratti di sfruttamento di risorse come gas, petrolio e minerali alla costruzione di infrastrutture quali aeroporti, strade, dighe, centrali elettriche, stadi, scuole ed edifici pubblici e così via via, a seconda della gamma di interventi, da quelli più “produttivi” a quelli più “di rappresentanza”. Per esempio in questo momento i cinesi hanno rimesso in attività gli oltre 1500 km di linea ferroviaria che uniscono la costa atlantica dell'Angola con la Repubblica Democratica del Congo e lo Zambia. Un'altra operazione interessante di costruzione di infrastrutture è in corso in Etiopia, dove la storica ferrovia francese Addis Abeba-Gibuti sarà rimpiazzata entro il 2016 da una linea ferroviaria elettrica costruita dai cinesi, del costo di quasi 3 miliardi di dollari. Questo tratto è un elemento centrale di un progetto ferroviario più vasto, che prevede 8 corridoi ferroviari per una lunghezza complessiva di quasi 5 mila km, che realizzerà una serie di collegamenti fra Kenia, Sud-Sudan, Sudan e Gibuti, e alla cui costruzione partecipano anche imprese turche e brasiliane.

Il marchio e l'impegno dei cinesi nelle infrastrutture, che all'Africa servono come il pane, fino a questo momento si configura come unico tant'è che la stessa Banca Mondiale ha riconosciuto il ruolo della Cina. La Banca mondiale ha monitorato attentamente questo particolare intervento della Repubblica popolare in Africa, e nel 2008 ha diffuso un rapporto (Vivien Foster, William Buetterfield, Chian Chen, Nataliya Pushak (a cura di), “Building Bridges, China’s Growing Role as Infrastructure Financier for Subsaharan Africa”, settembre 2008, https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/2614.)

Dal rapporto emerge che l’intervento cinese non solo ha attirato altri investitori ma è stato molto importante per l’intero continente.

In un altro, più recente rapporto, dello statunitense del Gao cioè l’organismo equivalente della nostra Corte dei Conti, è stato comparato l'intervento americano con quello cinese nell’ Africa subsahariana. Da questo rapporto (Government Accountability Office, Report to Congressional Requesters, “Sub Saharan Africa, Trend in Us and China Economic Engagement, febbraio 2013) appare evidente come l'Africa, abbandonata dopo la Guerra Fredda, sia ritornata nella sfera di interesse degli altri paesi del mondo anche grazie all'arrivo dei cinesi, che hanno aperto in qualche modo una nuova competizione.

E dal rapporto emerge chiaramente quanto gli Stati Uniti si siano molto re-impegnati nello scambio commerciale con l'Africa ma anche come sia diverso il tipo di intervento americano rispetto a quello cinese. Per esempio gli Stati Uniti esportano molto più petrolio dall'Africa di quanto non facciano i cinesi e questo appare molto chiaro dai flussi commerciali. I cinesi esportano, infatti, si riforniscono certo di petrolio e gas ma anche, e molto, anche di minerali.

A latere di tutto questo, una considerazione sull'intervento in Africa del governo americano, porta a dire che, a parte l'appropriazione delle risorse, si tratta soprattutto di un intervento militare, attuato attraverso l'AFRICOM, l’African Command, avamposto militare statunitense nel continente. Una struttura che, secondo le dichiarazioni ufficiali degli stessi americani, ha il compito di “garantire il libero flusso delle risorse naturali dall'Africa al mercato globale”. (http://www.informationclearinghouse.info/article34273.htm). Questo a proposito delle accuse di neo-colonialismo rivolte dagli Stati Uniti alla Cina. Dall'inizio del 2013 piccole unità dell'esercito americano operano in 35 paesi africani per programmi di addestramento militare. (http://www.politico.com/story/2012/12/us-army-units-to-head-to-africa-85452.html)

Detto questo apriamo anche le note più dolenti e preoccupanti della presenza cinese.

Per esempio uno dei paesi che maggiormente sembra risentire di questa presenza è lo Zambia. Alcuni giorni fa, il governo dello Zambia ha tolto ai manager privati cinesi il controllo di una grande miniera di carbone, la Collum, in seguito alle rivolte degli operai che lavoravano in condizioni orribili. Un anno fa un operaio aveva ucciso un manager cinese e due anni prima i manager cinesi avevano sparato sugli operai in rivolta per l'aumento dei salari e contro le condizioni di lavoro. Human Rights Watch ha dedicato un intero rapporto alle pessime condizioni di lavoro nelle miniere di rame in Zambia che sono sotto il controllo cinese.

Un'altra lamentela nei confronti dei cinesi è che le loro infrastrutture sono spesso di scarsa qualità per cui ci sono tratti di ferrovie che sono spazzati via dalle acque, scuole che si aprono in due, tetti che crollano.

E’ invece dei giorni scorsi l’accusa lanciata contro Pechino sul Financial Times del governatore della Banca Centrale della Nigeria, Lamido Sanusi, secondo il quale in Africa è in atto una nuova forma di colonialismo. Il governatore ha accusato la Cina di “prendersi le materie prime e venderci prodotti finiti”, che è appunto l'essenza del colonialismo e ha osservato che la Cina non è più il paese in via di sviluppo, l'economia amica alla pari, ma è ormai la seconda economia del mondo, un gigante economico capace delle stesse forme di sfruttamento dell'occidente e che soprattutto sta contribuendo alla deindustralizzazione e quindi al nuovo sottosviluppo africano (http://edition.cnn.com/2013/03/12/business/china-competitor-to-africa/).

Anche il presidente sudaficano Jacob Zuma durante l'ultimo vertice Cina-Africa ha dichiarato che nel lungo termine il rapporto commerciale tra le due nazioni è insostenibile.

La valutazione finale che si può dare è che l'intervento cinese in Africa ha aperto nuove dinamiche per il continente, che difficilmente si può definire coloniale, ma sicuramente trasporta un modello di sviluppo – quello cinese – che già in Cina è discutibile perché distorto.

In più la Cina è molto attenta ai propri interessi, si vende bene e cerca di creare sinergie, però, ad esempio, in sede di grandi organismi internazionali non è mai stata una forza propulsiva per l'Africa.

Il modello cinese in Africa dovrebbe essere più attento alle esigenze di sviluppo e progresso dei paesi africani. C'è da dire che tutto questo è una dinamica aperta, in cui la Cina, secondo alcuni giudizi, non impone niente e sta ad ascoltare. Questo i paesi africani lo sanno e difficilmente potranno pensare di accusare davvero la Cina dello stesso comportamento di sfruttamento feroce tenuto dall'occidente.

... continua!