Un articolo di Hermann Bellinghauser tratto da La Jornada del 5 ottobre 2009

Chiapas ed emigrazione

Gli immigrati del Chiapas residenti negli USA ora sono un peso per le loro famiglie

8 / 10 / 2009

Negli Altos del Chiapas l’emigrazione negli Stati Uniti riversa i suoi effetti a fronte della recessione economica dall’altro lato della frontiera, e quello che sembrava un’opzione per migliorare le entrate delle famiglie indigene, si è trasformato in un peso, quasi una paradossale prigione che separa gli emigranti dal loro paese e dalle loro famiglie. Solo a Catixtik, nel municipio tzotzil di San Juan Chamula, ci sono attualmente circa 55 uomini “illegalmente” negli Stati Uniti. Solo un pugno tra le migliaia di indigeni che negli anni recenti si sono legati ai polleros (trafficanti di clandestini – N.d.T.) nelle proprie terre per attraversare la frontiera.

Ora che anche là non c’è lavoro sono disoccupati e vivono alla macchia per evitare la deportazione. Per di più, “non possono ritornare”, perché non hanno soldi per farlo e devono ancora pagare il pollero. Nella loro comunità non li aspetta nessuna possibilità di lavoro ed andandosene hanno abbandonato o trascurato i loro campi. Sussistono nel loro inattivo esilio grazie al denaro dei programmi governativi come opportunità che ricevono le loro mogli in Chiapas. Queste sono obbligate a trasferire questi pesos attraverso la Western Unione affinché gli uomini li convertano in costosi dollari.

I polleros del XXI° secolo spesso sono indigeni. Qualche fortuna personale (da non sottovalutare) a San Juan Chamula, Zinacantán e San Pedro Chenalhó si può attribuire a questo nuovo tipo di intermediari della manodopera tzotzil, i cui predecessori popolano i racconti indigenisti di Rosario Castellanos e Ramón Rubín.

Alcuni anni fa “l’esportazione” di chamulas, zinacantecos e pedranos era considerata “un’industria in crescita” (La Jornada, 5/6/06), mentre gli studiosi Floriana Teratol e John Burstein l’anno scorso riferivano che ogni emigrante pagava circa 10 mila pesos per il viaggio dal Chiapas all’Arizona, attraversando il deserto. Una volta là, “l’emigrante acquisisce un debito di altri 5 mila pesos affinché il ‘raitero‘ (il trafficante in loco) lo sistemi” (Ojarasca, 8/08). Indipendentemente dall’effetto sull’integrità comunitaria e familiare dello sradicamento economico (la maggioranza degli emigranti sono uomini sposati), per un po’ è sembrata un’alternativa contro la scarsità di mezzi nei propri villaggi.

Il governo di Vicente Fox arrivò a promuovere ed idealizzare questa forma di “impiego” per i messicani poveri. Secondo i ricercatori citati, gli emigranti inviavano a casa “tra i 3 e 4 mila pesos ogni quindici giorni, la metà delle loro entrate”. Così pagavano i debiti nella loro comunità e potevano investire nella costruzione della casa, a volte sontuosa e non necessaria. Come indigeni e contadini di altre zone del Chiapas, i tzotziles degli Altos normalmente vanno in Florida, Carolina del Nord ed in altri stati nel nord degli Stati Uniti. Il relativo benessere permetteva loro di pagare le multe per l’assenza alle assemblee o l’inadempimento degli obblighi comunitari, ed al ritorno disponevano di risorse per occupare cariche religiose nelle proprie comunità.

Emigrare era una “moda” tra i giovani.

Una “prova” di virilità, un’avventura prestigiosa. Secondo le testimonianze delle mogli rimaste a casa, raccolte in diverse occasioni, l’emigrazione non aveva solo effetti monetari. Vivendo là, gli uomini ricorrono a prostitute e a pornografia di ogni tipo, e questo modifica i loro comportamenti (e a volte la diffusione di malattie). Per dirla chiaramente, quando tornano, gli emigranti cercano di riprodurre nella vita matrimoniale le pratiche “apprese” dal porno, e le loro mogli, se non le accettano, vengono ripudiate.

Ora, gli emigranti stanno ritornando. Ma molti sono ancora “bloccati”, e sono i limitati programmi governativi ed i prestiti degli strozzini locali a mantenerli là. Rappresentano un ulteriore peso, forse il peggiore, nell’economia familiare degli indigeni più poveri.

Articolo su La Jornada 

Traduzione Maribel, Bergamo.