“Black women are victims too”: Breonna Taylor e la campagna Say Her Name

6 / 10 / 2020

Il caso di Breonna Taylor ha portato nuovamente all’attenzione pubblica lo stato di invisibilità e marginalizzazione in cui versa la lunga lista di vittime non conformi alla narrazione della brutalità poliziesca che vede come target predominante uomini afro-americani. Una narrazione che anche negli ambiti di movimento e resistenza ha storicamente determinato la comprensione di cosa significhi la violenza razzista e la brutalità poliziesca, di come accade e come si combatte. Le donne, le soggettività trans e queer, i corpi neri non conformi sono stati a lungo celati nell'ombra del dibattito, sebbene siano targetizzatx con la stessa violenza e frequenza, e siano state storicamente in prima linea nella lotta per la giustizia di vittime che non determinavano la presa in carico collettiva delle ripercussioni vissute sulla pelle della propria identità politica. 

Nel 2014, la campagna Say Her Name, lanciata da Kimberlé Crenshaw e Andrea Ritchie, è nata proprio per portare alla luce la necessità di parlare delle “vite nere che contano” comprendendo tutto lo spettro che attraversa la razzializzazione dei corpi, e dell’impatto che fattori come genere e orientamento sessuale hanno avuto nel rendere dei target particolarmente vulnerabili delle specifiche identità, non solo nei termini della brutalità e della violenza da parte della polizia e delle istituzioni, ma anche nel modo in cui poi le comunità si fanno carico di lottare per la giustizia e la dignità di vittime che tendono a passare in secondo piano, o a non comparire affatto. 

Non è un caso che le rivolte e i cicli di lotta afroamericani, fino ad arrivare a Black Lives Matter e ai giorni nostri, si possano snocciolare cronologicamente a partire proprio dai nomi di giovani uomini brutalmente massacrati dal suprematismo razzista: Emmett Till, i leader Black Panther, Rodney King, Tryvon Martin, Michael Brown, George Floyd, per citarne alcuni. Il focus che i movimenti hanno sempre avuto sull’esperienza di brutalità vissuta dagli uomini afroamericani è ciò che ha determinato la percezione pubblica di come si eserciti la violenza istituzionale e suprematista, contribuendo a plasmare una lettura sistemica che ha taciuto o sottostimato l'esperienza delle donne nere e delle soggettività trans e queer. Eppure, negli Stati Uniti, la sessualizzazione e la mercificazione del corpo è stata endemica nella costruzione della "non-umanità" nera: lo stupro era parte integrante dell'esperienza di schiavitù delle donne nere, la sedicente bestialità e l'ipersessualità della Nerezza era plasmata sui corpi di donne che non corrispondevano al canone di femminilità bianco, che proprio a causa della conformazione dei propri corpi erano ritenute dalla società bianca come intrinsecamente sessualizzate e sessualizzabili, non dotate di specifiche umane come intelletto, coscienza, volontà di autodeterminazione. 

Sui corpi delle donne nere si è plasmata la costruzione sociale, culturale e politica della schiavitù e della segregazione, in complementarietà e integrazione con quella degli uomini. Ma il retaggio patriarcale e sessista ha determinato nei cicli di lotta afro-americani la gerarchizzazione e l'invisibilizzazione dell'esperienza femminile. È proprio a causa della marginalizzazione e dell’invisibilità che movimenti come Black Lives Matter hanno cercato di dotare il dibattito pubblico di strumenti sociali, culturali e teorico-politici in grado di ribaltare la prospettiva.  

La campagna Say Her Name delinea la traiettoria di violenza suprematista lungo i crocicchi di genere, identità e orientamento sessuale, ma anche fattori quali lo stato di salute mentale e le condizioni-socioeconomiche che hanno determinato la facilità con cui la polizia ha premuto il grilletto, premuto un ginocchio, soffocato a morte; sapendo che ci sono contesti in cui è legittimo e auspicabile "toglierne unx di mezzo", sapendo che violenza e morte sono le due facce di una medaglia che non ha mai avuto intenzione di utilizzare il controllo come risorsa per comunità che non hanno mai contato nulla nella società statunitense. 

Non è un caso che Say Her Name sia stata una campagna lanciata proprio da Kimberlé Crenshaw, attivista e teorica afro-americana coniatrice del termine "internazionalità" nel 1989. La prospettiva femminista con cui per prima ha assunto le lenti giuridiche dell'esperienza di invisibilità delle donne afro-americane è ciò che ha spalancato le prospettive teorico-politiche di tante lotte globali, fornendo una lettura sistemica in grado di integrare tutto lo spettro delle identità entro condizioni socio-economiche determinate proprio dalle esperienze di razzializzazione e sessualizzazione. 

Non è un caso nemmeno che Black Lives Matter sia stato fondato nel 2012 da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, attiviste queer con esperienza pluridecennale in ambiti quali i diritti delle lavoratrici domestiche (un settore senza tutele negli States), i diritti dx rifugiatx e richiedenti asilo, i diritti di famiglie e soggettività colpite dal complesso industriale-carcerario e dall' incarcerazione di massa. 

L'omicidio di Breonna Taylor è venuto alla ribalta delle cronache proprio in virtù del fatto che le vittime per cui ci si rivolta negli Stati Uniti sono sempre state, e ancora tendono ad essere, uomini afro-americani. Lottare per la dignità e la giustizia di tutte le vittime non significa delegittimare l'indignazione per la morte di George Floyd, significa sradicare le dinamiche di internalizzazione del patriarcato e dell'omolesbobitransfobia in una maniera profondamente trasformativa, capace di  comprendere all'interno della lotta per la liberazione tutte le vite che necessitano di una rivoluzione, anche e soprattutto quelle che hanno vissuto finora all'ombra del fuoco. 

“Non lasciare che io me ne vada / Prima di avere un nome” Audre Lorde. 1982.