American dream again. Un anno con “The Donald”.

2 / 2 / 2018

Gli americani, si sa, sono molto legati alla loro Costituzione. La Carta del 1789, firmata proprio da quel Washington che ha dato nome alla sede della Casa Bianca, trasuda delle parole che, nella mente della cultura statunitense, significano libertà e eguaglianza. Sarebbe dunque impensabile non adempiere a quell’articolo II della terza sessione in cui si richiede che «il Presidente dia al Congresso informazioni sullo stato dell’Unione». E Trump, da buon patriota, non è stato da meno.

Il 30 gennaio – un martedì, come vuole la tradizione – nei suoi ottanta minuti di intervento il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti ha voluto dipingere quella che, a parer suo, è la fotografia del suo Paese, dagli affari di economia fino alla situazione geopolitica. Una sorta di bilancio degli Stati Uniti infiocchettato dai soliti speechwriter, che non hanno mancato di infarcire degli arcinoti avverbi e aggettivi come «big league», «massive», «tremendous» e «deadly» il discorso del tycoon. Ma, al di là dei commenti della stampa liberale e delle parole dello stesso Trump, ciò che è interessante è tutto il contorno in cui è stato pronunciato il discorso. È forse riflettendo su questo, cercando di dar conto della razionalità dei discorsi di Trump, che possiamo fare anche noi un bilancio a poco più di un anno dal suo insediamento.

L’ultimo mese non è stato affatto facile per il Presidente. Preso dal turbine degli scandali, la stampa liberal-progressista di mezzo mondo e i Democratici hanno cercato in tutti i modi di far tremare il Governo Trump. In primo luogo, la continuazione del Russiagate, l’inchiesta lanciata dall’ex agente dell’intelligence inglese Steele il quale, temendo inizialmente che vi fossero pressioni politiche contro la candidatura di Trump nel 2016, ha passato tutti i dossier raccolti riguardanti i rapporti tra Trump e personalità russe all’FBI. Di qui si è dato tutto un gioco di pressioni, di insabbiamenti, di licenziamenti dei vertici dell’FBI, come l’ex capo James Comey, da parte dello stesso Trump. Sembra che le ultime inchieste stiano rivelando diversi contatti avuti tra i membri dell’entourage del tycoon e personaggi politici russi subito prima delle elezioni, da cui alcune interpretazioni farebbero procedere il tempestivo attacco hacker alla casella di posta elettronica di Hillary Clinton durante la campagna elettorale, uno dei cavalli di battaglia Repubblicani usati contro i Democratici. L’architettura che regge la dinamica del dibattito pubblico sul Russiagate è estremamente semplice: Trump sarebbe riuscito a guadagnarsi la presidenza grazie all’intervento della nemica storica degli americani, della Russia.

Allontanandoci dalla guerra tra organi politici e esecutivi, che pure sta occupando gran parte del dibattito pubblico, l’altra scossa che le opposizioni hanno cercato di infliggere al multimilionario ha trovato fondamenta nel libro Fire and Fury del giornalista Michael Wolff. L’inchiesta, condotta in quasi un anno di frequentazione della Casa Bianca da parte del giornalista, ha raccolto le testimonianze di più di duecento persone coinvolte nel lavoro quotidiano dello staff del Presidente. L’immagine che ne esce è quella di un uomo anziano, bisbetico, presuntuoso, irascibile e piuttosto recalcitrante nei confronti delle mansioni da capo di Stato. Un assist ben lanciato agli opinionisti e commentatori dell’opposizione, i quali hanno immediatamente aperto un dibattito circa l’adeguatezza psicologico-culturale di Trump ad occupare la sua posizione. Il topos letterario impiegato è quello del «folle», del «crazy man» che non ha assolutamente alcuna idea sul futuro del Paese e che non è guidato da nient’altro che dal suo ego irrazionale e estraneo al buon senso. Una constatazione ulteriormente comprovata dall’aspro diverbio avuto con il suo ex Chief Strategist e responsabile della campagna elettorale, Steve Bannon, alias uno degli esponenti più di spicco dell’alt-right americana – una versione «del terzo millennio» dell’estrema destra suprematista, razzista e sessista. Nel libro di Wolff sono infatti riportate le frasi con le quali Bannon additava molti membri della famiglia Trump, tra cui il cognato Jared Kushner, accusato di non essere patriottico per aver intrattenuti rapporti sospetti con i russi nell’ormai famoso periodo della competizione elettorale. L’ex Chief Strategist, del resto, è stato liquidato dalla Casa Bianca come sacrificio necessario a seguito dell’attacco terroristico di Charlottesville ai danni di una manifestazione antirazzista durante la quale perse la vita l’attivista Heather Heyer. Il responsabile dell’attacco è un nazista afferente all’area politica dell’alt-right, un dato che non ha potuto far nascondere l’imbarazzo a Trump nelle sue dichiarazioni successive all’accaduto. La distanza tra Bannon e il Presidente è stata interpretata da molti come un’ulteriore giravolta del trumpismo, una sorta di abbandono della base dell’estrema destra a favore di una politica della mediazione. Difatti, nonostante le decine di ordini esecutivi firmati che più o meno corrispondono al discorso nazional-populista della campagna elettorale, molti punti sono rimasti tuttora allo scoperto: la costruzione del famosissimo muro a spese del Messico, l’abrogazione dell’Obamacare sulle assicurazioni sanitarie, la politica economica più aggressiva con la Cina, il ritorno della Great America nelle relazioni internazionali contro la Russia e, soprattutto, la Corea del Nord, una sorta di isolazionismo dalle guerre. Senza tralasciare che, nei primissimi mesi di Presidenza, i tagli al settore agricolo, sociale e sanitario sono aumentati vertiginosamente.

Eppure, le accuse che gli vengono rivolte di mancato compimento delle promesse elettorali e la natura degli scandali – dal Russiagate alla sua presunta “follia” – peccano dello stesso vizio di forma: giudicano Trump come una peripezia del sistema elettorale statunitense, come se fosse il semplice risultato del consenso del «basket of deplorable» [1], della massa incolta e analfabeta caduta nella trappola populista. La verità è che la ragione populista dietro al momento elettorale statunitense non è mai stata solo e soltanto vaga, ma anche politicamente significata. Certo, il populismo, come ogni discorso politico che promette redenzione degli ultimi attraverso un capo [2], quando prende le redini del comando non può che disattendere la carica emotiva e psicologica che ciascuno attribuisce alla figura del capo, tanto simbolo universale per tutti e tutte quanto astratto e in sé privo di un contenuto preciso. Ma ciò non vuol dire che il discorso elettorale non si sia basato su di una specifica razionalità, che non abbia poggiato su un insieme di idee e di valori pre-esistenti che sono stati poi rimodellati e montati assieme dalla figura di Trump.

Da questo punto di vista, è evidente la coerenza dimostrata da alcune delle sue recenti decisioni o prese di parola. America first non rimanda necessariamente ad una chiusura in se stessi, bensì alla difesa dei propri confini e delle proprie frontiere. E qual è la miglior difesa, se non l’attacco? Una postura sempre pronta all’offesa per rimarcare la potenza dello Stato-nazione e, allo stesso tempo, proteggere il territorio che si vuole colonizzare: tanto vale per il Pacifico, da cui le inquietanti scaramucce con Pyongyang, quanto per il Medio-Oriente. Soprattutto se i territori nascondono risorse e materie prime che fanno schizzare alle stelle i derivati dei mercati finanziari (altro che nemico dei banchieri!) e permettono agli Stati Uniti di giocare sul mercato del petrolio. Perché, altrimenti, Trump avrebbe stretto accordi milionari con l’Arabia Saudita e starebbe conducendo una battaglia contro l’Iran? Da dove verrebbe la decisione di riconoscere repentinamente Gerusalemme come capitale di Israele? L’America non corrisponde solo alle farm del Winsconsin o alle fabbriche della Rustbelt, ma a tutto ciò che contribuisce alla ricchezza americana – in qualsiasi parte del mondo si trovi. Allo stesso modo, possiamo vedere una razionalità profondamente americana nel suo approccio al DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma con la quale centinaia di migliaia di figli minorenni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti possono ottenere un permesso di soggiorno. Dopo aver minacciato di stralciarlo, Trump ha invertito la rotta sostenendo che avrebbe trovato delle strade per garantire la cittadinanza a più di un milione di bambini. Nella cultura americana la naturalizzazione dello straniero è piuttosto accettata, a patto che la sua individualità sia compatibile con i valori americani e che nel corso dell’ottenimento della cittadinanza ci sia una completa assimilazione degli stessi. Evidentemente, i minorenni vengono giudicati idonei per questi criteri essendo magari nati e cresciuti negli Stati Uniti; non per niente sono chiamati Dreamers, perché anche loro possono ambire ai privilegi del sogno americano. Dall’altra parte, Trump tende la mano per poi lanciare il sasso: l’implementazione del DACA sarà possibile solo a patto che i Democratici avallino il finanziamento del muro con il Messico. In poche parole, se sei nato e cresciuto negli Stati Uniti, sei assimilabile ai valori della patria, quindi puoi restare; altrimenti rappresenti un membro delle forze del Male che entra per turbare l’ordine politico e sociale. Qui sì che l’America first fortifica le frontiere e tenta in ogni modo di isolarsi dall’esterno. In ultimo, non possiamo scordarci l’immaginario mobilitato dallo stesso Trump i cui effetti continuano a riesumare le radici della società “profonda”. L’impiego di concetti e parole, di misure e decisioni politiche appartenenti al mondo (neo)fondamentalista, di un’aggressione continua a tutto ciò che non è americano, ha fatto risorgere nazionalismi, il Ku Klux Klan, diversi gruppi apertamente contrari a tutte le conquiste civili, politiche e sociali ottenute dai movimenti di liberazione. Le aggressioni poliziesche ai cittadini afro-americani non sono di certo calate nell’epoca Trump, essendo il colore della pelle ancora una delle cause più determinanti delle disuguaglianze economiche e sociali.

Lo si può notare proprio dal recente discorso sullo State of the Union. Trump ha rievocato quei lemmi e slogan che hanno martellato l’elettorato per quasi due anni nel tentativo di spingere sulla giusta leva. L’immaginario su cui più ha trovato il meccanismo vincente durante la campagna elettorale è stato quello dell’American Dream, del ritorno del glorioso passato in cui tutti (ossia: i maschi bianchi tax payer) potevano avere l’ambizione di salire sulla scala sociale – come ha fatto lo stesso magnate del mercato immobiliare con al sua Trump Company. Non è un caso che il sogno americano sia stato al centro del suo intervento di martedì. Se ancora ha azzardato un tentativo di universalità  parlando di unità della nazione, l’ha fatto come gesto retorico. Adesso, al contrario del periodo della corsa alla Casa Bianca, può benissimo usare delle parole molto più parziali, più posizionate, indirizzate in forma esplicita e spudorata soltanto ad alcuni elettori – insomma, ha abbandonato qualsiasi «significante fluttuante», direbbe Ernesto Laclau [3]. Difatti, come scrive Kashana Cauley sul New York Times, nel suo discorso non ha mancato di lodare la working class bianca del Midwest, ha preso le parti della polizia rispetto agli attacchi subiti dalle persone afroamericane, ha sostenuto l’apertura di Guantanamo, ha parlato di armi nucleari e ha usato un linguaggio militare per descrivere l’intraprendenza americana nella competizione economica con gli altri Paesi. Tutto questo rimanda al soggetto cardine della sua vittoria elettorale che vede nelle altre etnie e nella diversità dalla propria identità un nemico da cui bisogna difendersi, davanti al quale è opportuno serrare le fila. L’America da sogno è fatta su misura di questo soggetto maschio, bianco, eterosessuale e proprietario: non per gli altri. È finito il tempo dell’elemosina dei voti trasversali per cui bisognava convincere anche chi apertamente osteggiato dalla ragione populista di Trump, che indubbiamente ha avuto il merito di raccogliere molto consenso elettorale tra le donne bianche, alcuni ambienti LGBT e di una parte della popolazione latina.

Se, tuttavia, non si capiscono il senso dei suoi discorsi, le persone a cui si dirige, la vita quotidiana che incarna la politica trumpiana e l’insieme di idee profondamente radicate in America, si continuerà a pensare che Trump ha vinto per un complotto russo oppure che il sistema elettorale ha favorito gli incolti – a fronte delle statistiche che parlano di una sfaccettatura di classe istruita e di media estrazione come sua sostenitrice. Dopo un anno di Trump, forse il suo populismo è svanito, ma ancora ben saldo rimane l’orientamento della sua agenda. Magari tra quattro anni anche lui sarà diventato un sogno, ma fintantoché non si individuano le cause specifiche che lo hanno reso possibile, gli americani non abbandoneranno il loro Dream intriso di frontiere interne ed esterne, costi quel che costi.

[1] Espressione con cui Clinton ha additato l’elettorato di Trump in uno dei suoi ultimi interventi prima dell’Election Day. Per molti analisti, Trump ha potuto vincere grazie al rigurgito anti-classista che Clinton ha suscitato nell’elettorato;

[2] Cfr. M. Canovan, Trust the People! Populism and the Two Faces of Democracy, in «Political Studies», Volume 45, Numero I, Marzo 1999, pp. 2 -16;

[3] Laclau E., La razòn populista, Fondo de Cultura Economica, Mexico, 2006;