America Latina: poter parlare senza filtri

13 / 12 / 2019

Un articolo di Nuria Alabao, giornalista, dottoressa in Antropologia e membro della Fundación de los Comunes, tradotto da Christian Peverieri.

Le reti funzionano come un’agorà pubblico che, al di là del fatto che a volte ci rinchiudono in bolle di punti di vista, permettono di sondare gli stati di opinioni su questioni di attualità. In questi giorni, per esempio, abbiamo potuto assistere all’esigenza di serrare i ranghi di una certa sinistra con il governo di Evo Morales, rispetto alla crisi politica aperta dopo le elezioni presidenziali.

In questo senso, serrare i ranghi significa che si rifiuta qualsiasi analisi della situazione con un certo grado di complessità. Se qualche coraggioso si permette di criticare in qualunque forma le politiche del governo di Morales o di farsi eco del malcontento popolare – che è presente nelle proteste – viene definito al servizio del golpismo yankee, lo si accusa di “legittimare” il colpo di stato o, ancora peggio, di caricarsi sulle proprie spalle le morti di questi giorni. La stessa strategia del vicepresidente boliviano García Linera, che in una recente intervista per Telesur segnala il lato “corretto” alle correnti critiche: vedete? Dall’altra parte ci sono solo fascismo e morti. O con me o contro di me, un classico. Ci propone di “scegliere” tra un populismo statista – ogni volta più autoritario – o un neolibersmo selvaggio con abbigliamento postfascista in modo che possiamo “scegliere” il meno peggio, cancellando così il movimento “destituente” dal basso che è esistito.

I processi politici non si adattano a essere storie di buoni e malvagi dove solo è possibile un posizionamento “corretto”. Tuttavia, nei conflitti esistenti della politica internazionale si traccia una linea che regola ed esige sommarsi a una delle due parti e qualsiasi ambiguità è penalizzata con attacchi furibondi. In questo modo si costruiscono immaginari su alcuni luoghi, siano questi Venezuela, Bolivia o Nicaragua, dove la ideologia fornisce un posizionamento preliminare. Non ci sono sfumature. L’imperialismo statunitense o la geostrategia dei poteri internazionali si converte nella facile risposta che fa da barriera al pensiero critico: il petrolio spiega il Venezuela, il litio la Bolivia e così con tutto. L’ingerenza statunitense negli ultimi vent’anni si è rapportata ai processi di cambiamento in America Latina, quello che dobbiamo domandarci è perché queste ingerenze funzionano ora e prima no, che cosa è cambiato? Vale a dire, perché i governi progressisti hanno perso l’appoggio popolare, molte volte della loro stessa base che li aveva sostenuti. Per capirlo non servono i dogmi. La politica non è una religione. Per questo l’appello della femminista Raquel Gutiérrez a «smantellare la logica della polarizzazione, dello scontro e della guerra che oggi fa lacrimare le città e le regioni della Bolivia» [1].

La destra golpista latinoamericana

È certo che quelle che sono state chiamate “rivoluzioni” dell’America Latina sono state per un periodo una speranza per chiunque cercasse alternative al neoliberismo. Molti siamo andati a lavorare lì – nel mio caso in Venezuela – impegnata in prima persona in questi processi di cambiamento che ora oscillano. Abbiamo scommesso sulla promessa di altri mondi possibili. Riconosciamo le proposte emancipatrici nelle costituenti di Venezuela, Bolivia ed Ecuador e nei loro passi in avanti dove in un primo momento si è anche ridistribuito il potere. Abbiamo visto emergere nella politica i soggetti esclusi dalla democrazia rappresentativa: i contadini senza terra, gli abitanti delle favelas, gli indigeni… se non è una rivoluzione poco ci manca, riconosciamo forme effettive di ridistribuzione della ricchezza che sono state portate avanti in questi paesi e abbiamo appreso alcuni insegnamenti. Abbiamo scoperto anche la faccia di una opposizione virulenta, golpista, sostenuta inoltre dalla strategia ingerente degli Stati Uniti, che la ha appoggiato e finanziato con la scusa della “promozione della democrazia”.

La mancanza di alternative oggi come ieri dà una difficoltà in più nel posizionarsi pubblicamente, ma è anche una scusa per i governi di turno per cancellare dalla mappa qualsiasi opposizione dal basso. Questi giorni in Bolivia, abbiamo visto la faccia di questa opposizione violenta e il suo nuovo stile vincolato al nuovo corso postfascista mondiale, la sua faccia attraversata da razzismo e antifemminismo, e sembra che si possa solo appoggiare l’ “altra parte”. Ma qual è l’altra parte? È la nostra parte? Stiamo difendendo le stesse cose? In Bolivia, organizzazioni operaie come la Central Obrera Boliviana (COB) o la Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia (FSTMB) – che hanno contribuito in passato ai trionfi di Morales -, i movimenti indigeno o femminista – che ora stanno lottando in prima linea contro il golpe – sono stati i primi a denunciare tanto i problemi del modello economico estrattivista, come il fatto che Morales ha irrigidito la democrazia boliviana, cosa che ha contribuito a spianare il cammino del golpe postfascista che si sta producendo oggi. Il fatto più recente: la convocazione del referendum del 2016 per modificare la Costituzione per poter ampliare il numero di mandati presidenziali per potersi ripresentare e che ha perso, ma con risultati ovvi. Questo ha catapultato la campagna elettorale di Carlos Mesa che si è convertito nella faccia dell’opposizione, capitalizzando il malcontento. Quale sarebbe la nostra posizione se qualcosa del genere succedesse nel nostro paese? O questo dipende da chi ignora i meccanismi democratici? Sovvertendo la democrazia, forse è possibile perpetuarsi al potere ma si genera sfiducia dei nostri simili, si spiana il cammino all’opposizione e si ostacola la vitalità del processo di cambiamento.

Suppongo che Morales abbia paura dell’esempio ecuadoriano, dove il successore di Correa, Lenín Moreno, si è divincolato completamente dalla “rivoluzione cittadina” e si è messo a smontare i successi delle politiche neokeynesiane e redistributive degli ultimi tempi. Tuttavia, lì il motto della CONAIE – Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador – dice chiaramente: “Né Moreno né Correa”. È evidente che mai si governa “per tutti”, ma anche che molti di questi processi hanno perso l’appoggio popolare nel loro cammino, lo stesso appoggio che è imprescindibile per frenare i colpi di stato quando si producono, ma che esigono in cambio, essere tenuti in considerazione. 

Il serrare i ranghi diventa un imperativo proprio ora che i populismi latinoamericani, che sono stati referenti per alcuni partiti politici e movimenti europei – come Podemos senza andare tanto lontani -, è in crisi. L’incapacità di mettere in marcia progetti che trascendano la necessità di un leader caudillista costituisce uno dei suoi maggiori debilitanti. Non si percepisce in questi processi capacità di rinnovamento interno per affrontare le contraddizioni e i problemi che sorgono con l’azione di governo. E soprattutto, non si prevengono meccanismi per dare spazio alla critica interna. Principalmente perché qualsiasi dissidenza dei suoi affini – o proposte alternative dall’interno – sono state silenziate e segnalate come “il nemico”. Una tragedia a cui la storia delle rivoluzioni nate dalle grandi utopie del XX secolo ci ha abituato.

Queste opzioni populiste, inoltre, sono anche riuscite ad assimilare o a spazzare via qualsiasi opzione partitica a sinistra. Così come hanno assorbito, come nel caso della Bolivia, i movimenti sociali indipendenti e i sindacati, cosa che ha eroso progressivamente la loro base sociale e politica. Come spiega José Lastra, implementando il paradigma capitalista dello Stato nettamente dirigista, Evo ha contribuito a rafforzare la sua posizione all’interno del partito e dell’esecutivo ma allo stesso tempo ha alienato le comunità che in teoria doveva rappresentare. Oggi il risultato di questo schiacciamento della critica è che quando il malcontento popolare cresce perché emergono i limiti delle politiche “sviluppiste” dell’estrattivismo, le uniche opzioni possibili si trovano nella destra, in questa destra “revanchista”. Non c’è spazio politico alternativo per la sinistra, rimane solo la ricomposizione del vecchio blocco dominante che ha un volto golpista.

Non c’è rivoluzione senza democrazia

È necessario quindi rivendicare il ruolo della critica. Non stiamo parlando qui di un pensiero da biblioteca – o dalla “torre di avorio”. Parliamo di contestazioni che nascono dal basso e da dentro i processi; da coloro che sono destinati ad esercitare contropotere quando l’inerzia statale si separa dai propri interessi. Senza questo, semplicemente, non c’è rivoluzione possibile.

Tuttavia, in questi processi, se si tentava di denunciare la corruzione, il peso ogni volta maggiore dell’esercito in Venezuela, o se in Bolivia si segnalava la debolezza del modello estrattivista e le sue conseguenza sulle forme di vita comunitaria, si silenziano queste voci dicendo che stavano “facendo il gioco del nemico”. Uno strumento classico della burocrazia statale per schiacciare qualsiasi critica interna – o per impedire la crescita di qualche leader alternativo -. Ma dov’è il nemico quando nei nuovi governi si infiltrano gli interessi delle vecchie e nuove oligarchie? Così, la "rivoluzione" dovrebbe essere fatta sulla base del silenzio, della paralisi del pensiero e dell'obbedienza. Si, il nemico è terribile, ma senza critica interna i processi si raggrinziscono e non c’è possibilità di trasformazione radicale senza critica. Impedire la critica permette mantenere il potere da un centro, ma genera anche un movimento centripeto che espelle le persone e i movimenti affini a un altissimo costo per la rivoluzione. In questo contesto le rivoluzioni muoiono e la peggiore sconfitta è la decomposizione interna autoinflitta che spazza via ogni possibilità di cambiamento per molti anni. E poi arrivano i mostri.

Il popolo del Nicaragua ha messo i morti.

Il caso del Nicaragua è certamente sanguinoso. Siamo arrivati a vedere tentativi di boicottaggio a Madrid di incontri di attiviste femministe di questo paese. Vale a dire, persone che si considerano “di sinistra” hanno cercato di impedire di parlare a persone perseguitate da uno Stato. Durante le proteste di aprile dell’anno scorso, la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha documentato almeno 300 persone morte – le organizzazioni sociali nicaraguensi parlano anche di 400 – e più di 1.300 ferite a seguito della repressione delle manifestazioni. Tuttavia, la sinistra latinoamericana ha serrato i ranghi con la sua dichiarazione di appoggio alla “rivoluzione sandinista” di fronte al “colpo di stato” nella sua dichiarazione nell’ultimo Forum di San Paolo. Come se qualsiasi proteste popolare potesse chiamarsi “golpe” o come se i morti non valessero allo stesso modo a seconda di chi li uccide, e della supposta simpatia ideologica che dovrebbero farci. Non sono nostri morti?

Voglio fare un appello ad abbandonare la logica binaria. Alle persone che mi sono vicine direi che non dobbiamo essere d’accordo su tutto ma che ci sono scenari essenziali dove è possibile discutere senza violenza e settarismo. Perché in altre cose pensiamo alla stessa maniera e dobbiamo continuare a collaborare. Il nemico è pericoloso ed è urgente, qui e in America Latina, cercare scenari che aiutino a svelare i conflitti. Analizzare in profondità quello che succede senza apriorismi è il primo passo per cercare l’uscita del labirinto e per costruire insieme alternative radicali e democratiche per questo presente raso al suolo dal neoliberismo.

[1] https://www.elsaltodiario.com/bolivia/bolivia-la-profunda-convulsion-que-lleva-al-desastre-