Altro che crisi del dollaro: l'economia politica della sollevazione libanese (pt. 2)

11 / 11 / 2019

Dall'economia miliziana al clientelismo confessionale

Nella prima parte di questo articolo, si è visto come l’economia politica libanese sia caratterizzata da un’alta incidenza della rendita, finanziata dall’influsso di capitali stranieri in assenza di incisivi meccanismi di redistribuzione verso il basso. Come sottolineato tra gli altri da Reinaud Leenders, al di là della retorica con cui sono state ammantate, le politiche economiche libanesi sono state disegnate innanzitutto dalle complesse reti di relazioni tra potere politico e potere economico strutturatesi in primis nello stato sulla scorta dei cosiddetti Accordi di Taif, ovvero il controverso documento di riconciliazione nazionale firmato nel 1989 nell'omonima città saudita tramite cui sono stati fissati i presupposti per la ristrutturazione dello stato civile.

Oltre a decretare le condizioni per lo smantellamento delle milizie e a formalizzare il controllo siriano sul Libano, il punto-cardine degli Accordi è stato il ripristino del consociativismo confessionale, ovvero del rigido sistema di ripartizione dei poteri delle tre più alte cariche dello stato e dei seggi parlamentari tra le 17 comunità religiose legalmente riconosciute nel paese che ha regolato l'assetto istituzionale del Libano sin dall'indipendenza. In particolare, il ripristino si è articolato attraverso la rimodulazione della rappresentanza di cristiani e musulmani in parlamento da un rapporto di 6/5 a uno di 50:50, e attraverso la redistribuzione di molte delle prerogative esecutive e legislative precedentemente nelle mani della Presidenza della Repubblica (appannaggio esclusivo dei cristiani maroniti) in favore della premiership (appannaggio sunnita) e della Presidenza del Parlamento (appannaggio sciita).

Con il ripristino definitivo della vita civile nel 1992, i maggiori beneficiari della restaurazione di questo sistema sono state innanzitutto le maggiori milizie (PSP, Amal, Hezbollah, Kataeb, Marada, e Forze Libanesi e Movimento Patriottico Libero dalla dipartita siriana dal 2005) uscite vincitrici dal conflitto che, grazie alla loro dimensione comunitaria molto marcata (drusa per il PSP, sciita per Amal e Hezbollah, cristiano-maronita per Forze Libanesi, Kataeb, Movimento Patriottico Libero e Marada), hanno potuto agevolmente riconvertirsi in partiti politici e ricapitalizzare tutto il potere e l'influenza guadagnate nello stato civile. Questa ricapitalizzazione si è consumata innanzitutto attraverso la trasformazione della gestione dei servizi, delle aziende di stato e della pubblica amministrazione in strumenti di clientela.

Dalla fine della guerra, il numero di attivi nel pubblico impiego (forze armate, pubblica istruzione, pubblica amministrazione e aziende e agenzie di stato) è passato da 75.000 a 300.000 (+300%), ovvero un terzo della forza lavoro salariata, e almeno la metà si stima sia stata assunta secondo criteri clientelari. Allo stesso modo, diversi studi hanno sottolineato come la distribuzione geografica della spesa pubblica in salute, istruzione e servizi sociali si sia articolata secondo criteri confessionali conformemente all'appartenenza politica dei ministri di riferimento, piuttosto che secondo i bisogni concreti delle differenti località. La stessa spesa, dal canto suo, viene principalmente destinata agli stipendi, con importi riservati all'investimento in manutenzione e potenziamento ridotti all'osso.

Questo deliberato e strategico sotto-dimensionamento serve innanzitutto ad aumentare il 'valore di mercato' politico della facilitazione clientelare all'accesso ai servizi sociali (sussidi sanitari, scolastici) e amministrativi (ottenimento di licenze e allacci, facilitazione di procedure burocratiche) di base da parte delle forze confessionali. Soprattutto, consente di moltiplicarne il peso anche fuori dallo stato. Seppur con dimensioni e modalità di gestione diverse, infatti, tutte le maggiori forze confessionali libanesi sono dotate di una rete consolidata di servizi di welfare (ospedali, scuole, società di beneficienza), in buona parte tirati su nel corso della guerra, le cui prestazioni rappresentano uno dei pilastri portanti per la costruzione e soprattutto la riproduzione del loro consenso. Questo meccanismo viene ulteriormente corroborato dalla cessione diretta di denaro e beni di prima necessità verso le fasce più basse delle rispettive costituenti, che si tramutano invece nella concessione di appalti e licenze edilizie, o della gestione di porzioni di servizi pubblici privatizzati nel caso delle rispettive imprese e degli imprenditori organici.

Il secondo terreno di ricapitalizzazione è stato infatti quello dell'economia. Nel corso della guerra, la gestione di traffici illeciti (droga, armi, petrolio), il controllo di infrastrutture strategiche chiave (porti, aeroporto) e la gestione delle risorse nelle aree sotto il loro controllo hanno consentito alle milizie di accumulare ingentissime quantità di capitali, riciclati in imprese formali già sul finire della guerra. L'appropriazione dello spazio politico nello stato civile ha fatto sì che queste imprese, così come gli imprenditori della diaspora libanese legati alle ex milizie, potessero partecipare alle lucrative attività di ricostruzione prima, e ai progetti infrastrutturali e alle privatizzazioni poi.

In questo processo di appropriazione predatoria è stata tuttavia la 'contractor bourgeoisie' legata ai capitali del Golfo ad essersi accaparrata la fetta più grossa. Composta da imprenditori principalmente sunniti – Hariri in primis – riusciti a far fortuna nelle petromonarchie negli anni del boom petrolifero, già nel corso degli anni Ottanta questa piccola oligarchia era tornata a investire prepotentemente in patria soprattutto in attività bancarie e immobiliari, riuscendo a scalzare buona parte della precedente oligarchia di trader e banchieri ai vertici della piramide sociale. Con la fine del conflitto, la ristrutturazione del confessionalismo ha fatto sì che potessero andare a riempire lo spazio politico lasciato vuoto dalla guerra nella loro comunità, ottenendo così una corsia preferenziale per la premiership, e dunque per la gestione diretta delle politiche economiche del paese, plasmate in primis in funzione dei loro interessi economici diretti. Questo gli ha consentito altresì di compartecipare alla lottizzazione clientelare dell'apparato statale, e dunque di radicarsi come leader politici mutuando pratiche e strumenti dalle ex-milizie dentro e fuori l'arena politica.

Eccezion fatta per le brevi parentesi di Selim el-Hoss (1998-2000), Omar Karameh (ottobre 2004-aprile 2005) e Tammam Salam (2014-2016), tutti i primi ministri che si sono succeduti dal 1992 ad oggi sono stati 'contractor bourgeoise' di primissimo piano (Rafiq Hariri 1992-1996/2000-2004; Fouad Siniora, 2005-2009; Najib Miqati 2005/2011-2014; Saad Hariri, figlio di Rafiq, 2009-2011/2016-2019). L'accesso alla premiership ha garantito anche di mantenere un controllo continuativo sulla 'mano destra' dello stato, e in particolare sul Consiglio per lo Sviluppo e la Ricostruzione (CDR) e la Banca Centrale, le cui politiche attive – soprattutto nel caso della Banca Centrale, con il presidente Riad Salameh in carica ininterrottamente dal 1993 per intercessione di Hariri padre – hanno giocato un ruolo centrale nel garantire le condizioni necessarie alla continua creazione di rendita. La lista dei primi ministri, d'altronde, si sovrappone quasi perfettamente alla lista degli uomini più ricchi del Libano.

Nella classifica Forbes 2018, cinque delle sei posizioni più alte sono occupate dagli Hariri e dai Miqati, con un patrimonio netto rispettivamente di 6,2 e 5,5 miliardi di dollari, ovvero l'8% di tutta la ricchezza privata del paese. La disintermediazione della rappresentanza politica del potere economico è diventata, dal canto suo, uno dei tratti caratterizzanti della Seconda Repubblica. Ancora nel parlamento in carica, un quarto dei deputati è composto da imprenditori, la maggior parte dei quali con attività concentrate nei settori economici dominanti.

Il risvolto della medaglia di questa appropriazione del surplus economico da parte del potere politico è stata la predazione del mercato da parte di attori economici politicamente connessi. Uno studio del 2016 ha stimato che almeno il 43% dei capitali bancari libanesi è politicamente controllato. Allo stesso modo, gran parte delle maggiori holding del paese è posseduta o vanta solidi legami (politici, economici, familiari) con le élite politiche, così come i cartelli che detengono i monopoli o gli oligopoli sulle importazioni, con il pieno controllo di fatto sui prezzi anche di molti beni di prima necessità (prodotti farmaceutici, petrolio e combustibili fossili). Un esempio paradigmatico in tal senso è quello dei medicinali, i cui prezzi medi sono di almeno il 10-17% più alti dei paesi arabi vicini, e il cui mercato è per il 90% in mano a sole dodici aziende importatrici, con le prime cinque che da sole ne controllano la metà.

Questo ecosistema economico ha creato anche le condizioni affinché sub-monopoli informali e politicizzati riuscissero a imporsi a livello locale nella fornitura privata dei servizi infrastrutturali di base, a cominciare dalla 'mafia dei generatori', ovvero la galassia di fornitori che detiene il controllo della fornitura e degli allacci privati ai generatori di corrente per quartieri o municipalità, stabilendone arbitrariamente i prezzi, con ricarichi sui cittadini anche doppi o tripli a fianco delle bollette della fornitura del servizio statale.

Le stesse privatizzazioni sono state gestite per diventare innanzitutto strumenti per la creazione di rendita tramite cui rimpinguare le casse dei ministeri di riferimento per sostenere i costi del personale, oltre che delle – spesso amiche – aziende contraenti, con costi spropositati fatti interamente ricadere sulle spalle dei cittadini in cambio di servizi deficitari e scadenti. Nel caso della telefonia mobile, ad esempio, l'esternalizzazione del servizio da parte del Ministero delle Telecomunicazioni si è risolta nell'imposizione dall'alto di un regime di duopolio con le terze tariffe per i consumatori più alte della regione e tra le più alte al mondo, i cui surplus rappresentano la prima fonte di entrate non fiscali per le casse dello Stato.

A oliare il funzionamento della macchina è la corruzione endemica, che permea e orienta tutti gli aspetti della vita pubblica ed economica del paese, dall'assegnazione degli appalti e le elezioni, alla facilitazione delle pratiche burocratiche più ordinarie. Nel ranking di Transparency International il Libano è alla 138° posizione su 180 paesi.

Crolla un fragile equilibrio

Dal 2011, tuttavia, i meccanismi che hanno consentito il funzionamento politico di questo delicatissimo equilibrio tra economia di rendita ed economia del confessionalismo hanno iniziato ad incepparsi facendone esplodere le contraddizioni organiche.

Uno dei principali corollari della commistione tra rendita e politica è stato il mantenimento di una pressione fiscale sui patrimoni, le attività finanziarie e i dazi doganali pressoché nulla. Il grosso del gettito viene estratto invece dalle imposte indirette sui consumi e dalle imposte sui redditi da lavoro dipendente, ovvero dalle fasce medie e basse della popolazione.

Oltre a favorire la polarizzazione sociale e aumentare il peso delle disuguaglianze, questo sistema rende la tenuta dei conti pubblici libanesi – e dunque la possibilità di poter continuare a sostenere le massicce assunzioni clientelari – strettamente dipendente da un andamento dei consumi e da un afflusso di capitali stranieri sostenuti.

Con l'esplosione del debito agli inizi degli anni Duemila, la possibilità di continuare ad alimentare la spesa pubblica senza dover ricorrere a manovre 'lacrime e sangue' era stata garantita dall'elargizione periodica di aiuti economici da parte di istituzioni sovranazionali (FMI, AF) e soprattutto paesi terzi, in particolare dal Golfo. Nello specifico, oltre ad aver elargito i contributi più consistenti nei tre pacchetti di aiuti internazionali indirizzati al Libano nel 2001, 2002 e 2007 (2500 milioni di dollari totali, contro i 965 delle istituzioni sovranazionali, e i 770 e 1125 degli USA e dei paesi UE), i paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis, dal 1997 al 2008 sono più volte intervenuti in aiuto anche della Banca Centrale libanese immettendo i capitali necessari per scongiurare i rischi periodici di svalutazione ai quali il paese è stato esposto e abbassare gli interessi sul debito a carico dello stato, consentendo così all'economia di rendita di riprodursi.

Queste continue donazioni da parte delle petromonarchie erano state elargite come forma di sostegno indiretto ai governi amici di Rafiq Hariri prima e, dopo il suo assassinio nel 2005, della coalizione del '14 Marzo' capeggiata dal figlio Saad, in funzione di una più ampia strategia di contenimento dell'influenza iraniana nella regione, che in Libano ha notoriamente il suo proxy in Hezbollah, colonna portante insieme al Movimento Patriottico Libero e ad Amal della coalizione avversaria dell''8 Marzo'. Dal 2011, tuttavia, complice la contrazione del peso politico di Hariri e il parallelo consolidamento del gruppo '8 Marzo', la stessa strategia si è tradotta nella chiusura strategica dei cordoni della borsa (donazioni, sostegno alla Banca Centrale) e nell'adozione di una serie di iniziative economiche ostili, come il blocco dei visti turistici verso il Libano da parte di Emirati e Arabia Saudita, che rappresentano il pilastro portante delle entrate del settore turistico libanese.

Questo ha giocato un ruolo di primo piano nel crollo verticale dell'afflusso di capitali (e dollari) stranieri necessari a tenere in piedi il sistema economico libanese. Un'altra parte fondamentale è stata giocata dal crollo parallelo del prezzo del petrolio, che ha contratto sia gli investimenti diretti dal Golfo che l'afflusso di rimesse dalla diaspora, con il doppio effetto collaterale di bloccare ulteriormente il già statico mercato del lavoro nel settore privato, ed erodere uno dei maggiori ammortizzatori sociali indiretti del paese. Le ripercussioni negative sono state consistenti anche sul funzionamento dell'economia politica del confessionalismo.

Con la venuta meno dei salvagenti del Golfo, dal 2011 l'incidenza del debito sui conti pubblici libanesi è aumentata considerevolmente. Questo è andato a erodere innanzitutto le già magre risorse destinate alle opere di manutenzione e investimento infrastrutturale, che ad oggi ammontano a non più del 4% della spesa pubblica. A farne le spese sono soprattutto le regioni più povere del Libano periferico (Akkar, Nabatiyyeh, Hermel, Ersal), già fortemente penalizzate dalla canalizzazione Beirut-centrica e clientelare degli investimenti pubblici post-bellici. Le regioni a maggioranza sciita (Libano del Sud, Valle della Beqa'a) sono state ulteriormente penalizzate dall'inasprimento delle sanzioni USA sull'Iran, che stanno contraendo progressivamente una delle principali fonti di finanziamento del robusto sistema di welfare di Hezbollah.

Ad aumentare l'incidenza del peso della gestione clientelare dei servizi pubblici soprattutto sulle fasce più deboli, ha contribuito anche l'afflusso massiccio di rifugiati siriani, ad oggi stimati tra il milione e il milione e mezzo, su una popolazione locale di poco meno di cinque milioni, che ha ulteriormente messo sotto pressione il mercato immobiliare, i servizi elettrici, idrici, di gestione dei rifiuti. Quest'ultima, dal canto suo, nell'area di Beirut e del Monte Libano, in cui risiede circa la metà della popolazione nazionale, dal 2015 versa in uno stato emergenziale. Anche in questo caso, le responsabilità sono tutte politiche.

Dal 1997, il servizio di gestione per le due regioni è stato esternalizzato. Fino al 2015, la licenza di gestione è stata in mano a Sukleen, azienda legata alla famiglia Hariri, con tariffe sui consumatori ricaricate fino a quattro volte la media mondiale. Al momento della scadenza del contratto nel 2015, tuttavia, le élites confessionali non sono riuscite a trovare un accordo per nuove assegnazioni, portando alla paralisi il servizio di raccolta. Allo stesso tempo, la principale discarica della capitale ha raggiunto la saturazione, senza avere a disposizione nuovi siti di smaltimento. Il risultato è stato l'esplosione nel corso dell'estate di una crisi dei rifiuti ai limiti dell'emergenza sanitaria, solo in parte tamponata dalla riassegnazione della gestione del servizio a tre nuove aziende, rigorosamente politicamente connesse.

L'incidenza del debito ha messo fortemente sotto pressione anche il funzionamento politico della gestione clientelare del pubblico impiego, che negli scorsi anni è stato investito da massicce ondate di mobilitazioni. Uno dei capisaldi della sostenibilità economica delle assunzioni è stata la loro precarizzazione. Dal 1996 al 2017 almeno la metà degli impiegati tra pubblica istruzione, amministrazione centrale e aziende di stato è assunta come manodopera giornaliera, e dal 1996 al 2017 gli stipendi e le scale salariali sono rimaste congelate. Nel 2012, la gestione dei servizi di manutenzione e di riscossione della compagnia elettrica libanese è stata esternalizzata a tre compagnie private, legate rispettivamente a Miqati (TVA), Hariri (NUTEC) e Movimento Patriottico Libero (BUTEC). Questa lottizzazione politica ha fatto sì che, dopo tre anni di mobilitazione, tutti i giornalieri assunti da EDL siano stati temporaneamente riassorbiti. L'adeguamento delle scale salariali è arrivato invece alla fine del 2017, dopo cinque anni di scontro aperto tra lavoratori, élite confessionali e élite economiche sulle modalità tramite cui reperire i fondi per il loro finanziamento.

La crisi del secolo?

A favorire lo sblocco è stata l'urgenza di tenere in piedi la macchina del consenso a ridosso delle elezioni, tenutesi a maggio del 2018, che ha garantito i numeri affinché i desiderata del capitale rentieristico venissero in parte abdicati. Parte della manovra (che non ha comunque accolto molte rivendicazioni sociali dei lavoratori) è stata infatti finanziata aumentando le imposte sulle rendite e sulle speculazioni immobiliari. Il grosso della copertura è stato tuttavia garantito dall'aumento dell'IVA e di una serie di altre imposte indirette tra cui sigarette, carburanti, e servizi di telefonia, unite all'immissione massiccia di nuovi titoli di stato ed Eurobond, andando così a ingolfare ulteriormente la macchina del debito e a ricadere ancora una volta sulle spalle dei ceti più bassi. Sulle spalle dei ceti più bassi pende anche la spada di Damocle dell'austerity, e dalla scadenza dei contratti di affitto a prezzi calmierati in vigore dalla fine della guerra.

Fino alle elezioni del 2018, il Libano è stato periodicamente bloccato da lunghe crisi istituzionali. Questo ha messo la classe politica nelle condizioni di poter procrastinare sine die l'implementazione di misure 'lacrime e sangue' per risanare la situazione dei conti pubblici. Nell'aprile 2018, il Libano è riuscito ad ottenere un pacchetto di aiuti internazionali per 10 miliardi di dollari. Questi sono stati erogati sulla base di un pacchetto organico di riforme e progetti di sviluppo presentato dallo stesso governo libanese che, tra le varie misure, prevede la razionalizzazione della spesa pubblica, a cominciare dalla riduzione del deficit fiscale. Tuttavia, come dimostrato dall'orientamento della finanziaria 2020 che ha acceso la miccia della rivolta, il sospetto fondato è che questa riduzione vada a tradursi in ulteriori tagli e aumenti delle imposte indirette, e a ingrassare le tasche dei soliti noti attraverso ulteriori privatizzazioni e rentierizzazioni.

È questa la polveriera che, sullo sfondo di un rischio di default e d’inflazione incontrollata quanto mai concreto, la tassa su WhatsApp ha fatto esplodere, definendo al contempo l'orizzonte rivendicativo e le traiettorie sociali e geografiche della rivolta. È sempre questa la polveriera su cui si giocherà gran parte della partita sulla tenuta politica del 'nizam' nel prossimo futuro, indipendentemente dai risultati che questa sollevazione di massa riuscirà ad ottenere nel breve termine. La crisi del capitalismo libanese è infatti organica e, senza una riforma radicale della sua struttura economica, il rischio è che nel breve termine vengano irreparabilmente erosi anche quei 'salvagenti' comunitari rimasti ancora in piedi dentro e fuori dallo stato che, al netto della crisi evidente, ancora ne garantiscono la resilienza – e quella sì che sarebbe la crisi del secolo.