Afghanistan: il fallimento

La miopia e le lacune politico strategiche nella "ricostruzione" in Afghanistan e le responsabilità occidentali.

14 / 8 / 2021

Commentare quanto sta succedendo in Afghanistan nelle ultime settimane non è così semplice. Il disastro che si sta vivendo in questi giorni, in queste ore, nel paese è riconducibile ad una, ovvia, ma significativa parola: fallimento.

È ormai chiaro agli occhi di tutti, che si tratti di esperti, commentatori e semplici cittadini che seguono le notizie negli ultimi giorni, che lo sforzo della comunità internazionale, con Stati Uniti e Nato in prima fila, di ricostruire e stabilizzare l'Afghanistan è ampiamente fallito. La velocità con cui il nemico di sempre, i Talebani, stanno riconquistando province su province, con i capoluoghi annessi, ci parla esattamente di una vera e propria disfatta su tutta linea. 

È in primis un insuccesso politico, fatto emergere più e più volte da critici ed esperti in materia, che hanno da sempre sottolineato come il processo di costruzione dello stato afgano era lontano anni luce dagli obiettivi primari che si erano posti la comunità internazionale nel 2001. Invadere l’Afghanistan doveva servire ad abbattere il sanguinoso regime dei Talebani, che a loro volta erano usciti vincitori da una decina d'anni di guerra civile.

La sconfitta militare degli studenti del Corano da parte di una coalizione tecnologicamente e numericamente soverchiante venne salutata dai politici di tutto il mondo come una vittoria epocale, in cui le forze occidentali mettevano fine, di comune accordo, ad uno spietato regime di estremisti religiosi che violava i diritti umani e faceva della violenza, soprattutto contro le donne, il codice di comportamento civile. 

Fu esattamente in seguito alla sconfitta dei Talebani che iniziò il fallimento delle politiche di costruzione del “nuovo” Afghanistan: nelle cancellerie occidentali pensarono che bastasse garantire una sicurezza minima, inviare qualche miliardo di aiuti umanitari, mettere a capo di un governo provvisorio un amico, così da avere servita su un piatto d'argento la vittoria e la democratizzazione di un paese.

Invece, fu tutt’altro che così, anche perché gli strascichi violenti della guerra civile appena conclusa, mostravano tutti i segni di una società estremamente divisa e frastagliata, che con enormi difficoltà si sarebbe unita sotto una nuova bandiera.

Fu miopia? Fu il “mission accomplished”? Sta di fatto che liberato l'Afghanistan, non fu fatto l’Afghanistan. Le istituzioni che vennero create in una società profondamente tradizionale e legate a logiche politico/istituzionali connesse ai costumi locali, forse tra i più lontani dalle democrazie occidentali, vennero vissute come un'imposizione e come un tentativo di conquista che la popolazione non hai veramente mai digerito fino in fondo, creando altresì quel terreno fertile di malcontento dove i Talebani e tutti gli altri gruppi non fedeli al governo hanno sempre sguazzato ampiamente: quel terreno ideale che permette proprio in questi giorni ai Talebani di riguadagnare consenso politico, oltre che potere militare.

In seconda istanza, la disfatta degli Stati Uniti e della Nato in Afghanistan è sicuramente militare. Lo è nonostante le centinaia di miliardi spesi innanzitutto per mettere in atto una campagna di enormi proporzioni, durata vent’anni e che ha visto impiegati nel suo culmine circa 200.000 soldati contemporaneamente, provenienti da tutto il mondo. Ma parliamo di un vero e proprio fallimento soprattutto perché in tutti questi anni non si è riusciti a creare un esercito capace di rispondere autonomamente alle minacce interne ed esterne. 

L'iniziale euforia, dovuta alla repentina sconfitta del regime dei Talebani ad opera di una grossa campagna aerea e poche centinaia di uomini sul campo, si è subito scontrata con la resistenza armata, feroce e senza tregua, di alcune aree del paese. La contemporanea aggressione all'Iraq di Saddam distolse risorse ed attenzione dall'Afghanistan e dalla sua ricostruzione, permettendo ai Talebani e agli altri gruppi di riorganizzarsi, armarsi e soprattutto rappresentare un'alternativa politica proprio in quelle aree dove la neonata Repubblica Islamica dell’Afghanistan non riusciva ad imporre il suo controllo.

In seguito alla presa di coscienza, in primis statunitense, che il “problema Afghanistan” era più che mai attivo e tutt’altro che risolto, non servì a nulla spedire decine di migliaia di militari nelle aree più calde, mandati a conquistare la cima di qualche montagna o a difendere qualche sperduta base nei fondovalle. Campagne di bombardamenti senza sosta e attacchi con droni, con il solito enorme numero di vittime civili, definite “collaterali” dai comandi militari, non fecero altro che inimicarsi la popolazione civile ancora una volta unica vittima del conflitto. 

I fatti di questi giorni sono, invece, la riprova di quello che potremmo chiara il vero disastro, ossia l’incapacità nella costruzione di un esercito e di un corpo di polizia. Spesso accusati di corruzione e di favoritismi, i reparti addestrati e armati dalle tasse occidentali, si sono resi colpevoli di crimini e misfatti degni di miliziani non al soldo dello stato e dei suoi interessi. Il sistema clientelare basato su legami familiari, religiosi o anche tribali è stato ampiamente attraversato dalle forze di polizia che molto spesso si sono ritrovate ad essere viste al pari delle bande di criminali e non come dei difensori. Inoltre va detto, e ve ne sono le prove, che la fedeltà verso la Repubblica per molti militari e poliziotti era garantita dallo stipendio e non da un "amor di patria" più tipico degli eserciti e delle polizie europei e nordamericani.

Dal punto di vista economico il fallimento va considerato in una serie di nefaste coincidenze e scelte sbagliate da parte di chi doveva sostenere la nascita di un nuovo sistema economico. Per i primi anni post deposizione del regime talebano, l’economia è stata caratterizzata da un enorme invio di aiuti umanitari che avevano l'obiettivo di riparare i danni della guerra civile. Grande enfasi è sempre stata posta dalla coalizione nella ricostruzione delle infrastrutture e delle vie di comunicazione che avevano il compito di favorire lo sviluppo economico delle aree più remote e aiutare i produttori locali a vendere i prodotti agricoli nei mercati dei centri maggiori. Se questo era l'obiettivo, il risultato fu tutt’altro: ogni chilometro di strada doveva essere pesantemente difeso militarmente per garantire la sicurezza da chi invece vedeva nello sviluppo delle infrastrutture delle vie di comunicazione un pericolo per la propria autorità e per l'ingresso di idee, pratiche ed anche istituzioni giudicate nemiche ed invasori. 

Le principali città vennero di fatto collegate da una rete stradale, la cosiddetta Ring Road ma che la stessa coalizione giudicava troppo pericolosa, tanto da garantire quasi tutti gli spostamenti per via aerea. Di fatto quella strada, oggi, favorisce la velocità con cui i vari gruppi di Talebani si spostano tre le capitali provinciali.

Uno dei grandi obiettivi economici, forse addirittura il principale, fu quello di slegare l'economia afgana dalla produzione del papavero da oppio così da minare la principale fonte di sostentamento sia dei Talebani sia di altri gruppi armati che fanno del narcotraffico in Asia Centrale il loro punto forte. Inutile dire che tale operazione è ampiamente fallita e che la produzione del papavero da oppio è addirittura aumentata nel corso dei vent'anni di occupazione militare, soprattutto del sud dell’Afghanistan.

Nel susseguirsi di notizie e report sull’avanzata talebana verso i maggiori centri urbani e verso le capitali provinciali e regionali la maggior parte dei commentatori si è stupita della facilità con cui i gruppi di Talebani si sono impossessati appunto dei centri nevralgici. Non ci si dovrebbe invece sorprendere per il semplice motivo che le città di fatto rimanevano e alcune rimangono tuttora l’unico vero baluardo della Repubblica Islamica e delle sue istituzioni, visto che gran parte di tutti gli altri territori, dalle pianure del sud, alle montagne del nord e del centro Afghanistan sono da anni governate dai gruppi definiti ribelli ma in verità non sono altro che Talebani e signori locali con proprie milizie armate. È un duro colpo, soprattutto per chi ha sempre sostenuto l'iniziativa militare e politica in Afghanistan, vedere cadere  città come Lashkar Gah, Kandahar, Kunduz, Ghazni e Herat. 

Partendo proprio da Herat, merita una nota critica anche quello che fu l'area sotto controllo italiano e quello che ne resta ora. Spesso il giornalismo ha romanzato la presenza militare italiana in Afghanistan come una missione di pace, raffigurando il militare italiano in missione come un portatore di pace e di aiuti umanitari, colui o colei che il fucile lo imbracciava solo per necessità. Il film però è stato diverso, l'Italia in Afghanistan ha combattuto e bombardato, distrutto e ucciso, impiegando i reparti dell’èlite del nostro esercito e i mezzi di ultima generazione per garantirsi un vantaggio tattico non indifferente. L'Afghanistan è stato per anni una palestra e un poligono di tiro, lontano anni luce da quell'idea di soft power che aiuta i locali a costruire le scuole e i pozzi d’acqua. La realtà è stata ben diversa perché è stata guerra vera, con costi umani non indifferenti e con la spesa di oltre otto miliardi di euro. 

Non c'è stato niente di romantico nell'andare nell'ovest dell'Afghanistan, come non esiste niente di romantico nella guerra: una decisione andava presa forse vent'anni fa e andava presa al di fuori delle caserme o dei ministeri della difesa. La vera scelta era quella di andare in Afghanistan non per conquistare un paese e cercare di ricostruirlo manu militari, ma ascoltando tutti coloro che sostenevano che l’Afghanistan andasse ricostruito seguendo le necessità della gente, senza quell’arroganza tipica della politica occidentale che ha caratterizzato la politica internazionale degli ultimi settanta anni. Proprio come diceva Gino Strada, «non sono pacifista. Io sono contro la guerra perché la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».

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Pic Credit: Taliban fighters patrol inside the city of Ghazni, southwest of Kabul, Afghanistan, Thursday, Aug. 12, 2021. © Ap