A sette anni dalle rivolte di Gezi Park

La manifestazione di protesta per salvare il polmone verde di Istanbul attorno a piazza Taksim si trasformò in una protesta antigovernativa che durò mesi e vide scendere in piazza milioni di persone.

29 / 5 / 2020

Ci sono luoghi che nella storia dei movimenti rimangono leggendari, solo pronunciando il loro nome si può annusare un’aria di cambiamento, a volte rivoluzione, che pochi altri luoghi fisici nel mondo posseggono. Piazza Taksim, con Gezi Park accanto, è uno di quelli.

Per i movimenti di sinistra turchi, per i sindacati ma soprattutto per gli studenti quella centinaia di metri quadrati significano non solo un luogo “mitico” ma anche quel luogo che più da vicino ha rappresentato il punto più tangibile di una metamorfosi che si è dilagata a macchia d'olio.

In quella piazza, in cima alla collina di Pera, la storia turca si rincorre. Un luogo dove generazioni di militanti e manifestanti si sono scontrati contro i carri armati del potere che negli anni si è auto-costituito, in difesa di chissà quali valori. Morti, repressioni, arresti e carcere ne fanno solo da contorno, probabilmente questa è un’altra storia.

Gezi Park, nel maggio 2013, ha rappresentato forse un punto di svolta: il tavolo era saturo e gli attori che vi erano seduti attorno hanno giocato il tutto per tutto. Recep Tayyp Erdogan era già al poter da cinque anni e da ex sindaco conosceva bene le dinamiche politiche e sociali della metropoli adagiata su due continenti. Il progetto di rinnovamento e di rilancio della cultura ottomano-islamica, di cui il suo partito Akp si era fatto portatore, era ad un punto di svolta. Ad Erdogan serviva un monumento, un manufatto che rendesse tangibile il suo operato politico, il suo nuovo corso per l’idea della Nuova Turchia che aveva in mente.

Piazza Taksim, dal 1977 simbolo indiscusso della sinistra, istituzionale e rivoluzionaria, turca divenne il terreno di uno scontro asprissimo. Il nuovo progetto di riqualificazione urbana prevedeva l’abbattimento del parco di Gezi e la ricostruzione, al suo posto, di una vecchia caserma ottomana e di una moschea. 

Fin da subito, l’idea dell’abbattimento dell’area verde, l’unica sopravvissuta nel centro di Istanbul si scontrò con le resistenze degli abitanti ma il disegno politico-egemonico di Erdogan e del suo partito, non conobbe mediazione. Fu così che un piccolo gruppo di cittadini, definiti poi terroristi, si accampò nel parco e diede il via al momento più difficile del regno del sultano Erdogan sulla sua Nuova Turchia. 

Come da prassi per Piazza Taksim e i luoghi limitrofi, la repressione delle forze di polizia fu implacabile. Lacrimogeni, spray al peperoncino, cariche e morti divennero quotidiana fatalità: fedeli alla tradizione, le forze dell’ordine non risparmiarono nessuno, caricando, picchiando e arrestando centinaia di persone.

La Turchia bifronte di Recep Tayyip Erdogan si conferma, nel bene e nel male, enigmatica e sorprendente.

E sorpresa è stata espressa da molti osservatori quando una corte di Istanbul ha deciso nel febbraio - il 18 - del 2020, per il proscioglimento delle 16 persone a processo per le rivolte del 2013. Ma, nello stesso giorno, la procura spicca 695 mandati d'arresto per il fallito golpe di quattro anni fa, contro soldati in servizio e in congedo, ex agenti di polizia e dipendenti del ministero della Giustizia.

Assolto anche Osman Kavala, filantropo e attivista per i diritti umani, che sarebbe dovuto tornare in libertà dopo 3 anni passati in cella. Ma nel giorno stesso della sentenza, è stato emesso un nuovo mandato di cattura nei suoi confronti, questa volta per il tentativo di colpo di Stato del 2016: le sue speranze di riconquistare la libertà sono state stroncate nel giro di poche ore dal tribunale di Istanbul.

Le reazioni davanti alle rivolte di Gezi Park furono diverse e scomposte. Ci fu chi vide in quelle proteste la continuazione delle “Primavere Arabe” e la lotta per una società più giusta, altri la videro come il tentativo delle minoranze di rovesciare un governo democraticamente eletto e condizionare la politica regionale, già severamente in confusione dopo lo scoppio del conflitto in Siria. Per diversi mesi quel piccolo parco nel cuore di Istanbul rappresentò per molti non solo un’area di autonomia e di scelte dal basso ma anche un vero e proprio stimolo per il cambiamento, dal basso, di un regime corrotto e troppo compromesso sul piano degli interessi.