I palazzoni, alti e in cemento armato; il cielo mai limpido per via
dello smog; un traffico che trasforma le strade in un enorme flipper,
con biglie che schizzano impazzite da un angolo all'altro della città:
Teheran toglie il fiato. Soffoca. Così come soffoca l'idea di un Paese
in cui le donne sono obbligate a coprire il capo e le parti del corpo
che più tradiscono la femminilità, da quando, nel 1979, la rivoluzione
islamica ha sovvertito il potere occidentalista dello scià Reza Pahlavi.
Contrariamente
a quanto si possa pensare, però, la realtà della Repubblica Islamica va
ben oltre un chador nero, caratterizzata da un grande dinamismo del
sesso debole, nonostante le innegabili limitazioni. Il 65 percento
degli studenti ammessi alle università è, infatti, costituito da
ragazze; le stesse giovani donne che nei giorni della cosiddetta "onda
verde" sono scese in piazza, insieme ai loro coetanei uomini, per
manifestare contro il risultato delle elezioni presidenziali. E Neda
Agha-Soltan, la ventiseienne uccisa nel corso di una manifestazione da
un colpo sparato con tutta probabilità da un miliziano Basij, è
diventata simbolo, oltre che delle proteste contro il regime, anche di
un attivismo al femminile, molto spesso messo in secondo piano di
fronte agli stereotipi del roosari o del manto.
Faezeh, la politica e lo sport.
Per le donne che aspirano "ad essere coinvolte in molti settori della
vita pubblica e politica", in Iran, "ci sono tetti invisibili, ma
invalicabili", spiega Faezeh Hashemi Rafsanjani, figlia dell'ex
presidente Ali Akbar Rafsanjani ed esponente del fronte riformista che
ha sostenuto Mir Hossein Mousavi alle discusse presidenziali di giugno.
Faezeh è impegnata politicamente dai primi anni Novanta e, nelle scorse
settimane, si è guadagnata un breve arresto per il cognome che porta e
per essersi messa alla guida di alcune proteste di piazza.
"Gli
iraniani sono andati al voto pieni di entusiasmo e voglia di decidere
per il proprio futuro, ma, nonostante la maggioranze cercasse un
cambiamento, le loro speranze sono state deluse e un altro nome è
uscito fuori dalle urne".
E sempre lei, che nel 1991 ha fondato la IFWS,
Federazione Islamica Donne nello Sport, perché, a causa delle
restrizioni in tema di abbigliamento, per le atlete islamiche era
complicato "partecipare alle competizioni internazionali".
"Abbiamo
deciso, così, di affermare che lo sport è importante per gli uomini
quanto per le donne, anzi, di più per le donne, il cui corpo ha una
certa responsabilità". Nel giro di alcuni anni, l'associazione che ha
sede a Teheran, ma raccoglie 54 Paesi in cui si professa l'Islam, ha
organizzato 4 edizioni di giochi internazionali, più una serie di
tornei tra le nazioni, e ha portato le donne iraniane alle Olimpiadi di
Pechino, dove "hanno vinto in alcune discipline, come il tiro con
l'arco". Faezeh Hashemi ha il piglio deciso di chi combatte con
convinzione le proprie battaglie, ma non rinnega il suo mondo, le sue
tradizioni, il suo Paese. Nasconde, infatti, il capo e il corpo, minuto
e atletico, sotto un chador nero, da cui spuntano pantaloni bianchi e
scarpe da ginnastica.
L'islam non pone restrizioni in tema di sport,
anzi, prosegue, "consiglia fortemente alle donne praticarlo. Anche nei
testi sacri se ne parla". Il problema, il più del volte, è
rappresentato dagli uomini e dalle interpretazioni che fanno del Corano
e noi, conclude, "non dobbiamo mai smettere di fare pressione".
Con il naso all'insù. "La Sheherazade Media International è una società fondata nel 2002, che si occupa di produzione e distribuzione di documentari su scala internazionale".
A
parlare è Katayoon Shahabi, presidente e madre di questa creatura che
sforna prodotti in cui si parla della società iraniana, come Nose, iranian style (che affronta il tema della diffusione della rinoplastica tra i giovani), ma anche la questione dei rifugiati afgani in Iran (My little country) o delle donne palestinesi (Maria's Grotto).
È una mattina di giugno. Teheran è ancora scossa dai risultati delle
ultime elezioni e dalle intense manifestazioni che invadono le piazze.
"Questa volta la situazione mi sembra diversa, la gente sa cosa vuole e sembra determinata ad andare avanti", afferma.
"Quello
che possiamo fare noi è continuare a pensare al futuro e lavorare,
giorno per giorno". Lavorare in un settore del genere, in un ruolo che
solitamente spetta agli uomini, è complicato ovunque per le donne,
"ancora di più in Iran, dove ci sono spazi oltre i quali non si riesce
ad andare; progredire".
"Nei settori privati, non governativi", prosegue Katayoon, "la situazione è, tuttavia, meno difficile".
"Io
ho avuto modo di viaggiare molto all'estero per il mio lavoro e molti
si stupiscono che io viva qui e non abbia scelto di risiedere fuori. In
realtà, le donne da noi cercano di fare molto, in vari settori, anche
se non abbiamo modo di mostrarlo all'esterno".
Maral, il rock e la canzone per Neda. C'è, invece, chi per lavorare deve andare periodicamente fuori dal proprio Paese. Per poi ritornare.
"Naturalmente
io ho pensato di abbandonare l'Iran, ma non è quello che voglio",
esordisce Maral, ventiquattro anni, sopracciglia e naso all'occidentale
e un piercing, fatto in Turchia, tra il labbro inferiore e il mento.
Lei è una cantante di musica pop-rock che, nonostante il divieto di
suonare questo genere di musica, ha deciso di portare avanti la sua
passione. Ma con dei limiti.
"Se dovessi andarmene via da qui per il
mio lavoro non lo farei. Non perché ami particolarmente l'Iran, ma
perché qui c'è la mia famiglia e la mia famiglia è la cosa più
importante".
Il suo sogno le è costato un arresto e tre giorni di
detenzione, in una prigione vicino Karaj, poco fuori Teheran, per
essere stata sorpresa con gli altri componenti della band, The plastic wave, durante un concerto clandestino.
"Ci
hanno accusato di fare musica satanista e ci hanno portato via. Ma, in
quel momento, ho potuto capire quanto tengo a questo lavoro e quanto
sarei pronta a rischiare di nuovo".
Il rischio le piace. "Sono stata
due settimane a Kabul, lo scorso settembre, per suonare con una band
afgana, ma non ho avuto paura. È stata una nuova esperienza e anche se
non è un posto sicuro, è stato eccitante".
"A me piacere correre rischi", continua. E, infatti, si fa fotografare senza velo, jeans attillati e conottierina nera.
Non
ha paura neanche di mettersi contro il regime. Una delle canzoni
incisa, in farsi, la sua lingua, pochi giorni prima del voto del 12
giugno, s'intitola proprio Azadi, cioè Libertà. Un'altra, più
recente, è Neda, ed è uno struggente omaggio all'eroina di questa onda
verde, giovane come lei, che come lei studiava musica, prima di vedere
cancellare in un attimo i propri sogni.