Yes I know my way

Riflessioni da Napoli su rappresentanza politica e movimenti sociali tra Italia e spazio europeo.

15 / 1 / 2015

La fase politica che vive l'Europa, nel contesto delle attuali dinamiche globali, impone evidentemente una riflessione a tutti quelli che si preoccupano di animare movimenti sociali di opposizione e trasformazione dello stato di cose presenti. Una riflessione che non può non muoversi dalla preoccupazione con cui si va configurando – almeno nel discorso pubblico – la prospettiva di trasformazione dello spazio europeo sul tema della cittadinanza. Lo shock del 7 gennaio parigino rende possibili attacchi fortissimi alla libertà di movimento in Europa, che passano per ipotesi di ridiscussione dei parametri di Shengen e stretta dei dispositivi di sorveglianza e controllo alle frontiere interne ed esterne. Su questo terreno traggono linfa le opzioni della destra eversiva, dai nazionalisti francesi all'OPA che Matteo Salvini sta tentando nel campo della destra italiana, ricucendo attorno alla compagine leghista anche le organizzazioni più schiettamente neofasciste e proponendosi come leader di un partito della nazione. Una riflessione che, d'altra parte, guarda evidentemente con interesse ai nuovi spazi a sinistra che i movimenti sociali in Spagna e in Grecia hanno saputo aprire , coniugando – in modo complesso e mai definito una volta per tutte – la radicalità di una mobilitazione contro la crisi con l'ambizione a diventare opzione maggioritaria, capace di mettere in discussione, anche sul terreno istituzionale, il tappo antidemocratico dei governi di grosse-koalition.

Guardare a queste aperture vuol dire però intendere l'affermazione di Podemos e Syriza non come evento miracoloso che scompagina da un giorno all'altro la concatenazione di quanto avviene, ma come esito di un processo di durata più lunga, che trae solidità, capacità di sedimentare, nei percorsi di resistenza che da anni le donne e gli uomini di questi paesi hanno saputo costruire contro le misure di austerity e il drenaggio sempre più violento della ricchezza socialmente prodotta dal reddito alla rendita.

Con questo interesse materialstico per la durata, la processualità, dobbiamo saper interrogare anche l'anomalia italiana. Un paese, il nostro, che non è stato scosso, come gli altri territori del sud Europa, da grandi movimenti contro la crisi, duraturi, capaci di mettere in discussione i mantra della governance neoliberale. L'opposizione sociale, in Italia, langue ancora in un'estrema frammentazione, nella quale i molteplici focolai di resistenza non hanno ancora trovato forme efficaci di intreccio e contaminazione, all'altezza della sfida imposta dalla controparte. Fare i conti con questa debolezza, fino in fondo, ammettere l'inadeguatezza dei percorsi che oggi attraversiamo, vuol dire parlare-franco, senza concedere sconti ad un ottimismo (che troppo facilmente diventa autoesaltazione) che si accontenta dell'autoreferenzialità di opzioni tutte volte alla difesa della propria micro-identità a prescindere dai contesti. Parlare-franco, però, non può voler dire disfare il mondo – ignorare le condizioni determinate nelle quali agiamo – per renderlo più simile al mondo che vorremmo. Concretamente: guardare con interesse ai processi costituenti che si sono aperti ad altre latitudini non può significare un'inversione della temporalità necessaria ai movimenti sociali e correre subito alle conclusioni, sperando che la riproposizione di opzioni politiche che hanno preso corpo su territori incendiati da grandi cicli di mobilitazione possa supplire all'assenza di movimenti adeguati alla fase che stiamo attraversando. Pensiamo sia imprescindibile, oggi, il dibattito sul modo in cui i movimenti – nella crisi della rappresentanza – sanno farsi istituzione, ma pensiamo che esso, perché abbia senso, debba svolgersi esattamente in questa sequenza. Per piazza Syntagma e per Puerta del Sol passa la storia di Podemos e di Syriza, e lo fa in maniera obliqua, non lineare. Lo fa, cioè, senza proporsi come processo di sintesi che “rappresenta” i movimenti, ma come tentativo di far vacillare il decisionismo del neocorporativismo delle larghe intese a partire da forzature democratiche. Se si salta questo passaggio, purtroppo, si sceglia di abitare – dentro la crisi della rappresentanza – l'illusione che l'autonomia del politico basti da solo ad innescare processi di lotta efficaci. Una scelta che, tra l'altro, non giudichiamo a partire da pregiudizi ideologici, ma perché, concretamente, si è provata e riprovata negli ultimi tre anni e non ha funzionato. Non funziona, prima di tutto, perché non riesce da sola a risolvere la sfiducia che ingrossa le fila dell'astensionismo. Non funziona, soprattutto, perché ammettere la crisi della rappresentanza vuol dire sapere che l'eterodirezione dei processi decisionali, che scavalcano completamente ogni formalità elettorale o blandamente democratica, rende inutile ogni ipotesi di governo che non passa per una sua articolazione con dei movimenti moltitudinari che sappiano strappare la decisione allo stato di eccezione permanente con la quale si governano le vite delle donne e degli uomini d'Europa. Su questo nodo di è arenato anche il movimento 5 stelle, perché ad una grande capacità mediatica di dirigere il consenso non ha saputo trovare valore aggiunto che viene dalle comunità resistenti che, dal basso, dovrebbero eccedere le angustie della governance neoliberale, costringendo la controparte a continue rinegoziazioni, messe in discussione, aperture che non possono derivare unicamente dalla dialettica istituzionale.

Per questo l'ennesimo “cantiere della sinistra”, inteso come coordinamento di ceti politici che prova a farsi ipotesi di governo, non può interessarci. Non capiamo quale dovrebbe essere la base sociale che potrebbe dar forza a questo progetto, sostenerlo, dargli agibilità contro la facilità brutale con cui la troika si disfa dei governi (quando non può imporgli l'agenda) lungo il ricatto del debito.

La costruzione dell'alternativa (concetto tanto più interessante quanto più ci si sforza di pensarlo al plurale) passa per un lavoro molto più difficile, ma non sostituibile. Passa per l'interrogazione dei percorsi di lotta esistenti, per la capacità di attraversarli con umiltà, come parte delle comunità che pagano la crisi e che però resistono. Passa per l'apertura di discussioni pubbliche che sappiano sfidare il mantra del “there is no alternative”, con il quale vengono presentate come neutrali le scelte scellerate che distruggono le nostre vite e saccheggiano i nostri territori. Camminare domandando, solo questa è la strada che vogliamo percorrere.

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