Venezia e la banalità della corruzione

Capitalismo estrattivo tra finanza, grandi opere e “malaffare”, a partire dal sistema Mo.S.E. in Veneto.

4 / 12 / 2014

Due sentenze della Corte Suprema hanno contribuito negli ultimi anni a ridurre notevolmente il campo di applicazione penale del concetto di “corruzione” negli Stati Uniti. Si tratta di Citizen United vs. Fec del gennaio 2010 e della più recente McCutcheon vs. Fec del 2 aprile 2014. Come argomentato dal Giudice capo John Roberts in quest’ultimo pronunciamento: “Il diritto di partecipare alla democrazia attraverso contributi politici è protetto dal Primo Emendamento. Questo diritto non è assoluto. Il Congresso non può però porre limiti semplicemente per ridurre l’ammontare del denaro erogato alla politica, o per ridurre la partecipazione politica di alcuni al fine di accrescere l’influenza di altri. C’è solo un unico legittimo interesse governativo nella riduzione del finanziamento alle campagne elettorali. E questo sta nel prevenire la corruzione o l’apparire della corruzione” [in Lepore, 2014]. Ciò detto, il legislatore può però colpire un solo tipo di corruzione: “la corruzione del quid pro quo.” Se quindi non si dimostra, puntualmente, il nesso causale diretto e la correlazione fraudolenta tra specifico finanziamento e specifica decisione politico-amministrativa a favore dell’erogatore del contributo, il reato di corruzione non sussiste. Il gioco, in punta di diritto, è così presto fatto: queste due ultime sentenze, consolidando la giurisprudenza consuetudinaria in un processo in atto a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno definitivamente tolto ogni limite ai finanziamenti, diretti o indiretti, destinati ai politici e alle loro macchine partitico-elettorali da parte di grandi e piccole corporation, in qualunque forma e con qualunque mezzo [Lessig, 2011; Rossi, 2014] .

È questo il riconoscimento formale di un vero e proprio processo di “costituzionalizzazione della corruzione” che dagli Stati Uniti d’America ha investito la struttura del diritto di gran parte dell’emisfero nord-occidentale del mondo globalizzato, consegnando un enorme potere di condizionamento della decisione politica alla forza economica dell’impresa capitalistica [Teachout, 2014].

In Italia questo processo può essere raccontato e indagato a partire da un caso paradigmatico, che origina alla metà degli anni Ottanta, attraversa indenne la stagione di Tangentopoli ed emerge nelle sue reali dimensioni a partire dalle inchieste giudiziarie degli ultimi due anni: il sistema legato alla realizzazione del progetto Mo.S.E. e alle attività del Consorzio Venezia Nuova (CVN), e la sua progressiva estensione alle “grandi opere” infrastrutturali nella regione del Veneto [Amadori, Andolfatto, Dianese, 2014].

Costituzionalizzazione della corruzione

Per la giustizia americana il diritto costituzionale alla libertà d’espressione motiva l’esercizio del diretto potere delle corporation sugli organi legislativi ed esecutivi. Così è stata – con un involontario effetto comico – la prevenzione del “rischio d’infiltrazioni mafiose negli appalti” a giustificare nel dibattito parlamentare italiano la scelta di creare la mostruosità giuridica del “concessionario unico” a conclusione di un lungo dibattito apertosi all’indomani dell’alluvione del novembre 1966. Con l’approvazione nel 1984 della seconda (e ultima) Legge Speciale per la salvaguardia di Venezia si riconosceva infatti il “preminente interesse nazionale” rappresentato dalla tutela della città e della sua Laguna. Ma nello stesso momento il legislatore decideva che gran parte delle risorse, all’uopo destinate dallo Stato, dovessero essere affidate a un unico concessionario, successivamente identificato nel Consorzio Venezia Nuova. La ripartizione istituzionale degli stanziamenti era ed è gestita dal cosiddetto Comitatone ovvero dal “Comitato interministeriale per la programmazione e il controllo degli interventi finalizzati alla salvaguardia fisica e socio-economica di Venezia”; mentre il CVN avrebbe dovuto essere formalmente diretto e controllato dalla struttura periferica del Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Infrastrutture), cioè dal Magistrato alle Acque [Bettin, 1991].

Con quel voto veniva in realtà consegnato – senza alcuna gara d’appalto – a un soggetto di diritto privato il monopolio di studi e ricerche, progettazione e realizzazione, manutenzione e gestione di tutte le opere per la salvaguardia. Il CVN è infatti un pool di imprese costituito ad hoc, inizialmente con una composizione mista che vedeva il protagonismo delle società delle allora partecipazioni statali (gruppo IRI) e di quelle legate al gruppo FIAT; poi, seguendo le cangianti geografie del potere imprenditoriale, risulta oggi composto dai soli privati colossi nazionali del cemento (Mazzi, Condotte, Fincosit, Astaldi e Cooperative Costruttori) guidati dalla padovana Mantovani SpA (famiglia Chiarotto), che ne ha acquisito il controllo a partire dal 2004.

In tal modo, l’atto di nascita legislativo del “concessionario unico” e la successiva convenzione, stipulata nel 1991 tra Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova, sottraeva a qualsiasi trasparente procedura a evidenza pubblica l’affidamento di progetti e lavori, e strappava a qualsiasi reale verifica e controllo successivi un’enorme quantità di risorse pubbliche, destinate a Venezia dalla legislazione speciale ed erogate anno per anno dalle leggi Finanziarie e successivamente dalla Legge Obiettivo, risorse che risultavano nei fatti a esclusiva disposizione della struttura direttiva del solo Consorzio.

Si è valutato come, in un trentennio, sia stato di circa 9 miliardi di euro (di cui quasi 6 per il solo progetto delle dighe mobili alle bocche di porto) l’ammontare complessivo dei fondi gestiti dal CVN. E, ben prima che ci arrivasse la Magistratura, abbiamo provato a calcolare quanto di questo sia effettivamente stato speso per i cantieri delle opere, dal momento che al Consorzio è tuttora riconosciuto dallo Stato un 12 per cento di “spese generali di gestione” e che i lavori svolti sono pagati sulla base di uno speciale tabellario, mediamente più oneroso del 35 per cento rispetto ai prezzi di mercato del settore, stabilito dal Magistrato alle Acque di Venezia. Questa istituzione - i cui due ultimi presidenti Piva e Cuccioletta risulterebbero letteralmente “a libro paga” del CVN, avrebbero cioè ricevuto un regolare ma illegale “stipendio” annuo nell’ordine di centinaia di migliaia di euro da parte del Consorzio - meriterebbe un capitolo di approfondimento a parte: parliamo del braccio operativo in Laguna del ministero per le Infrastrutture, che avrebbe dovuto dirigere e controllare il CVN, ma ne risultava invece totalmente asservito.

Secondo i nostri calcoli, dunque, circa la metà delle risorse destinate alla salvaguardia di Venezia sono state in realtà a disposizione del “sistema”, finalizzate con mezzi leciti e illeciti alla costruzione del consenso e alla velocizzazione delle procedure, per un’opera mai sottoposta a una seria valutazione ambientale e a un’effettiva comparazione con le possibili alternative.

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EuroNomade