Venezia che resiste, in migliaia contro le grandi navi

Un passo importante per riprendersi il diritto a fare la storia della città

26 / 9 / 2016

Sulle ali dell'entusiasmo saremmo tentati di definire la giornata di oggi come “storica”, dopo avere visto le migliaia di persone sulle rive  - oltre 3000 le presenze nel picco massimo -  dopo le decine e decine di barche di abitanti, dopo le centinaia di partecipanti all'assemblea pubblica del 15 settembre in Pescheria a due passi da Rialto, dopo il tripudio di bandiere no navi ai balconi di tutti i Sestieri. 

Eppure, passata questa festa granda che è stata vera festa di città (se per città intendiamo la capacità degli abitanti di un luogo di costruire forme peculiari di sentire e agire in comune), dobbiamo resistere alla tentazione della celebrazione e rilanciare immediatamente, a partire da una riflessione che travalica il tema delle grandi navi. Ciò che sembra affiorare dalle pastoie di questo tempo veneziano segnato dallo spopolamento, dalla corruzione delle grandi opere, dal turismo di massa, dall'estrazione di profitto a danno di un corpo urbano morente, è la sensazione che la città stia tentando di riprendersi il diritto a fare la propria storia.

Non ci “imbarchiamo” in improvvisate analisi politiche, forse conta lo shock della vittoria della destra, forse pesa la deflagrazione della sinistra istituzionale, sia del PD che dei partitini alla sua sinistra, forse il venire meno dei vecchi riferimenti ha innescato nuove energie, forse è solo il tempo giusto. Sta di fatto che a Venezia è tornata la voglia di manifestare, di testimoniare la propria esistenza contro l'idea dell'estinzione, di incontrarsi per strada per discutere collettivamente delle tante urgenze da affrontare. Nuove associazioni si formano per scrivere collettivamente un'agenda politica diversa, per ricucire un incontro tra generazioni, oppure per salvare importanti istituzioni culturali pubbliche. Questi nuovi soggetti si confrontano con il tessuto associazionistico storico, ma anche con i movimenti, i centri sociali e le occupazioni abitative. Le Municipalità, sotto l'attacco centralizzatore della giunta, appaiono nella la luce rara di un'istituzione in cui il meccanismo della delega non si tramuta in immediata estraneità, ma in intreccio di destini con i residenti che hanno scelto i propri rappresentanti.

Qualcosa del genere non accadeva a Venezia da molto tempo, di certo non accadeva quattro o cinque anni fa, quando il Comitato No Grandi Navi muoveva i suoi primi passi. Ma dopo la giornata di oggi è possibile aggiornare positivamente il bilancio del Comitato: è riuscito a coinvolgere strati sempre più ampi e trasversali di cittadinanza, ha indicato, oltre al suo no fondativo, una serie di alternative possibili per salvaguardare contemporaneamente salute e lavoro, è diventato un laboratorio di produzione di conoscenza indipendente (studi sull'indotto delle navi e sul loro impatto economico-sociale, rilevazioni dell'inquinamento dell'aria, libri bianchi e appuntamenti di approfondimento), è riuscito a esprimere radicalità tramite la pratica del blocco, con i “barchini” oppure con i suoi tuffi, è riuscito a trasformare la propria lotta in uno dei simboli mondiali della salvaguardia di Venezia, è riuscito a costruire legami importanti con le altre battaglie per i beni comuni che punteggiano il nostro paese: oggi, ad esempio, tutte le Zattere hanno espresso la propria solidarietà a Nicoletta Dosio, attivista No Tav che disobbedisce agli arresti domiciliari. I No Navi hanno di fatto cancellato, con le proteste e i ricorsi, lo scavo del Canale Contorta, hanno ritardato, questa la novità di giornata, le navi da crociera con la sola potenza della musica e della partecipazione di massa. Insomma il Comitato ha contribuito a creare il clima di partecipazione spontanea che sembra oggi emergere come dato in grande crescita, si conferma come importante spazio di aggregazione trasversale e volano per tutte le esperienze che si battono per un nuovo diritto alla città.

Il Comitato è convinto che oggi sia possibile vincere la battaglia per l'estromissione delle gigantesche crociere dalla laguna. Se si legge attentamente la lista di obbiettivi raggiunti, abbozzati alcune righe sopra, si conviene che molto è cambiato da quando i No Navi sono scesi in acqua la prima volta. Certo, tanto resta ancora da fare, ma i nostri avversari, l'Autorità Portuale, le multinazionali delle crociere che ora detengono gran parte della VTP (la società di gestione della Marittima, quasi totalmente privatizzata) e il sindaco padroncino non hanno una direzione chiara, prendono tempo presentando maldestri progetti di scavi, bocciati dalle valutazioni di impatto ambientale, sparano i soliti proclami a mezzo stampa, ma puntano ad una sola cosa: il mantenimento dello status quo. E' dunque un momento propizio per far sì che la nostra voce venga ascoltata, mettendo prima di tutto in guardia il governo contro l'adesione all'ipotesi di portare le grandi navi a Marghera, ipotesi che evidentemente prevederebbe scavi dannosissimi e inquinanti e non estrometterebbe le grandi navi dalla laguna.

Ma cosa significa oggi, a Venezia, fare la storia? Significa rimettere in moto processi sociali di partecipazione collettiva che facciano argine alla privatizzazione, al primato della rendita sulla produzione, all'impoverimento, al turismo di massa, allo spopolamento, al taglio del welfare, in una parola, alla ricetta neoliberale applicata alle politiche urbane, una ricetta che vede nel mercato l'unico modello di sviluppo e nell'individuo imprenditore di sé, in perenne competizione con i suoi “pari”, il cittadino ideale: individualizzato, magari impoverito, sicuramente innocuo.

Si comincia con la volontà degli abitanti di vivere come protagonisti del destino del luogo che si trovano ad abitare, non come fastidiose ed isolate comparse in balia dei piani delle multinazionali del turismo e del lusso, dei partiti a tutti i livelli, delle istituzioni di governo regionale con le loro inadeguate politiche residenziali, degli imprenditori con la concessione unica, delle banche e della finanza, dei baroni universitari, delle “mitiche” categorie, della Chiesa immobiliarista e forse la lista potrebbe continuare.

E' dunque in questo processo di riappropriazione della città che cambia la narrazione della Venezia che muore, che si abbatte lo stereotipo del parco a tema, della cartolina. La riappropriazione è fisica, nelle proteste, nelle assemblee in strada. Nelle manifestazioni i nostri corpi ritornano visibili come corpi collettivi, torniamo, sebbene temporaneamente, a governare i flussi turistici, da cui troppo spesso siamo governati. In terra e in acqua rivendichiamo la peculiarità di questo spazio metropolitano che da oltre mille anni è sinonimo di Venezia. La grande nave da crociera si ferma di fronte a decine di barchini, un'assemblea pubblica spezza, in un tratto di calle o in un mercato pubblico, l'inerzia del flusso turistico in cui l'abitante è costretto a farsi trasportare, sparendo, divenendo turista egli stesso, tappezzeria umana immortalata da milioni di selfie-stick, in milioni di foto che ritraggono tutte la stessa Venezia. In questa contesa per lo spazio, che va riconquistato con i nostri corpi, riconosciamo anche un tentativo di rivoluzionare lo spazio dell'immaginario. L'immagine di Venezia città-museo, città Disneyland, città morta, pur con la sua trita banalità, non ha esaurito la sua egemonia. Il percorso di uso comune dei luoghi pubblici, in cui l'incontro di corpi e delle singolarità è fondamentale, è parallelamente un processo di decolonizzazione del nostro immaginario, non più monopolizzato alle immagini dominanti della città. Quello della Venezia che muore, ammettiamolo, è un discorso ambiguo: premessa della denuncia, ma allo stesso tempo rinforzo dell'egemonia neolibaerale. E' infatti un discorso che "vende bene", che piace ai media, che esotizza il residente, che spinge il turista a venire a visitare, prima che sia troppo tardi, queste splendide rovine tra terra e acqua.

Oggi, in questa nuova ondata di partecipazione sociale, di cui il Comitato è parte, vediamo la possibilità di aprire un cantiere costituente, ovvero di modificare concretamente la direzione della nostra città. Riuscire ad ottenere l'estromissione delle grandi navi dalla laguna significherebbe dare un enorme slancio anche a tutte le altre istanze di cui siamo portatori, dalla residenzialità all'ambiente, dalle politiche culturali alla restituzione dell'Arsenale alla città.

C'è uno spazio aperto, uno spazio che questa volta va inteso in senso metaforico, un vuoto politico che noi movimenti, associazioni, abitanti, dobbiamo presidiare con forza. Uno spazio che dovremmo strutturare collettivamente, in grado di sconfiggere l'attuale governo cittadino, ma anche in grado di resistere di fronte a tentativi di strumentalizzazione, di recupero all'interno di logiche da politica “di palazzo” o di occupazione da parte di opzioni populiste o identitarie.

Venezia non tornerà più quella di una volta, non torneranno i vecchi residenti, gli operai di Porto Marghera e tanto meno il Doge. Poco male, non è la velocità dello scafo ad essere dirimente, ma la quantità di onde che produce, non possiamo conservare sotto una cupola di vetro le tradizioni e palazzi di questa città, perchè qualcuno ci farà pagare il biglietto: “guardare, ma non toccare”. Di questo enorme patrimonio culturale va rivendicato l'uso e va rinnovato il senso. La contesa non è tra globale e locale, lo prova il fatto che la grande corruzione del M.o.S.E. ha radici venetissime e piazza la questione morale molto più a nord di Roma ladrona, nel cuore di cartongesso del Nord Est produttivo. Come governare, in forma alternativa al presente, i flussi globali di capitale che incessantemente attraversano Venezia, gonfiando i conti in banca di molti privati (dalle multinazionali fino al piccolo proprietario che trasforma la sua casa in B&B, dopo essersi stabilito in terraferma) e impoverendo drammaticamente il tessuto sociale della città con le sue forme di vita in comune? Come spendere l'enorme capitale simbolico collettivo della Serenissima? Questa è la sfida dei prossimi anni, stiamo costruendo le premesse per poterla affrontare, non era scontato. Dobbiamo fare in modo che questa spinta non si esaurisca, dobbiamo evitare di firmare deleghe in bianco a vecchi e nuovi protagonisti della politica istituzionale cittadina. Dobbiamo evitare di riproporre una modellistica politica che si rivela inefficace e grottesca nei suoi tentavi di esportazione: “Facciamo come in Spagna! Come in Grecia! Come a Barcellona! Come a Napoli!”. Da tutte queste esperienze possiamo imparare qualcosa, da nessuna possiamo estrarre una formula pronta per la nostra città. Per cambiare la rotta della città, dobbiamo modificare quella delle grandi navi. Fuori dalla Laguna, una volta per tutte!

Qui sotto il video riassuntivo della giornata a cura di Sherwood.it