Quando abbiamo visto le immagini degli sbarchi a Lampedusa, insieme
all’indignazione per un decennio di politiche che in questo paese ancora
riescono a trasformare l’arrivo di qualche migliaio di persone in un
esodo biblico, il nostro sguardo è immediatamente andato alle piazze del
Maghreb e dell’Egitto. Mai come in questo momento possiamo guardare
agli approdi della frontiera Sud spogliandoci della retorica della
disperazione. Non si è trattato di una semplice scelta forzata ma
dell’affermazione del diritto di scegliere. Come hanno scritto Mezzadra e
Chignola proprio ieri su queste pagine, ciò che sta accadendo parla di
“uno straordinario processo di soggettivazione” di un intreccio tra “il
desiderio di libertà che spinge moltitudini immense allo scontro con il
potere e le pratiche di mobilità che sfidano i dispositivi europei di
controllo delle migrazioni nel Mediterraneo”. Quelle migliaia di
giovani, ribaltando l’assetto politico sociale di quell’area, hanno
fatto saltare anche i controlli alla frontiera in uscita e reso
praticabile la mobilità di chi in queste settimane è arrivato sulle
nostre coste.
Ciò che sta avvenendo parla di un cambiamento profondo dentro la crisi,
che possiamo riconoscere anche qui, nel cuore dell’Europa. Il diritto di
scelta di migliaia di giovani, che si esprime sovvertendo l’ordine
imposto dai poteri del Rais o sfidando i confini europei, affermando la
volontà di restare qui, dove sono approdati, o ancora quella di varcare
le gabbie della mobilità interna all’Europa, non è più una evocazione,
ma è il nostro ordine del giorno. Come facciamo a far diventare questa
sponda lanciata da una parte all’altra del Mediterraneo anche la nostra
sfida? Proviamoci: sfidando insieme ai giovani tunisini le tentazioni
del Governo di ricacciarli indietro o di rinchiuderli. Proviamo insieme a
loro a forzare le gabbie interne all’Europa che vorrebbero impedirgli
di raggiungere Parigi o Berlino, imponendo ancora confini anche
all’interno di questo continente (vedi regolamenti Schengen e Dublino).
Si tratta di una imperdibile occasione per noi tutti.
Durante il Meeting di Marghera (cs Rivolta 22/23
gennaio) ci siamo chiesti se davvero quella dell’immigrazione sia una
questione che riguarda i soli migranti o se invece non sia un nodo
inaggirabile per tutti: per la verità non avevamo dubbi e non c’è
occasione più vera di quella toccata con mano in questi giorni, a
Lampedusa o alla Stazione di Bologna, per provare a trasformare la loro
sfida nella nostra sfida.
Abbiamo bisogno di ripartire insieme. Gli interrogativi aperti sono
veri, i terreni su cui sperimentarli sono molti e questo momento ci
impone di non banalizzarli come fossero qualcosa di già visto: come
diamo corpo alle battaglie contro i CIE evitando che le rivolte interne
si traducano in espulsioni? Come possiamo affrontare il nodo
dell’irregolarità e del lavoro schiavistico? Come possiamo opporci al
test di lingua e all’accordo di integrazione trasformando quella per
l’apprendimento in una battaglia sul welfare? Cosa vuol dire sciopero
oggi, come possiamo costruire vertenze sul lavoro che sappiano tenere
insieme la specificità dei migranti e le rivendicazioni di tutti? Come
possiamo affermare il diritto alla mobilità, ad un diritto d’asilo
europeo per esempio? Come si affronta il terreno della negazione della
cittadinanza se non dentro il tumulto?
Ci siamo chiesti insomma cosa potesse unirci invece che dividerci, per
evitare di affaticarci con l’ossessione di marcare la specificità e non
invece spenderci per ricercare il comune.
Non ce ne sarebbe bisogno se ritenessimo di poter affrontare ognuno
nella propria condizione l’attacco che dentro la crisi ci viene
proposto. Perché quando Marchionne decreta la fine del contratto
collettivo nazionale, la Gelmini impone la riforma della formazione e
Maroni dichiara guerra ai migranti, in realtà, è di un modello di
società intera che stanno parlando. Non basterà mettere in fila le
rivendicazioni dei migranti a quelle degli studenti, quelle degli operai
metalmeccanici a quelle delle donne, per costruire una alternativa a
questo modello. Certo, la condizione di ognuno di noi è diversa. Se non
vi fossero differenze, se bastasse aggredire una questione per risolvere
tutte le altre, se potessimo ragionare per classi senza capire che oggi
il mondo è ben più complesso, non avremmo neppure avuto il bisogno di
affrontare insieme questa sfida. Ma sappiamo, perché lo sperimentiamo
sulla nostra pelle, che non esiste un ricatto meno importante degli
altri e che proprio ricercando il comune abbiamo scoperto che la
richiesta di reddito non è poi così incompatibile con le rivendicazioni
del lavoro, che welfare pubblico non vuol dire statale, che quella per
la democrazia è una battaglia che lega beni comuni, lavoro, conoscenza,
cittadinanza, che tra noi e Piazza Tahrir non c’è un mare, ma ritroviamo
invece lo stesso desiderio di trasformare la realtà.
Spesso abbiamo giustamente sottolineato il ricatto
impareggiabile che preme sulla vita dei migranti. Ma davvero quel
ricatto è così lontano da quello che quotidianamente deve affrontare chi
non ha bisogno del titolo di soggiorno per restare? E’ stato forse
poco importante per tutti noi il ricatto con cui Marchionne ha strappato
il sì di Mirafiori?
Per questo ci incontriamo a Reggio Emilia, perché non abbiamo bisogno di
un pensiero né tanto meno di una organizzazione che intervengano su
questo o quell’altro “settore”, ma ci serve invece un progetto comune,
abbiamo bisogno di ibridarci e di confrontarci per scrivere insieme un
nuovo statuto della cittadinanza, per tutti, per disegnare insieme
l’orizzonte a cui guardare e costruire i singoli passi che servono per
raggiungerlo. Le occasioni non mancano: la prima è quella che ci viene
proposta in questi giorni dai migranti arrivati dalla Tunisia, guardando
poi al Primo Marzo, perché l’una e l’altra siano pezzi di questo comune
da costruire insieme: uniti contro la crisi.
* Progetto Melting Pot Europa
** Ricercatore precario
Foto di Melissa Cecchini @Rimini