Una minaccia chiamata democrazia

La forza della coalizione contro l'imminenza del disastro

13 / 5 / 2012

Mentre Repubblica consacra buona parte della sua apertura domenicale al pericolo terrorismo, De Benedetti pensa alle cose serie. Con un editoriale sul Sole 24 Ore chiarisce le paure che ormai segnano una parte consistente delle élite europee: la virata deflattiva imposta dalle politiche di austerity ha probabilmente raggiunto un punto di non ritorno. In queste ore Tsipras, il leader di Syriza, parla di un accordo tra Neo Dimokratia, Pasok e Dimar, ma Dimar ha già smentito. Un fatto è certo: non sono gli elettori greci a decidere il governo, ma le compatibilità di bilancio imposte dalla Troika. E anche un altro fatto è davvero certo: anche se Papoulias dovesse riuscire ad imporre l'accordo tra i partiti del rigore, la Grecia uscirà dall'Eurozona. Questa certezza spaventa mortalmente De Benedetti e con lui Amato, e molti altri editorialisti del Sole.

Proprio Amato, sempre sul Sole 24 Ore di oggi (domenica 13 maggio), indica alcuni scenari possibili, qualora la Grecia fosse effettivamente sbattuta fuori dall'Eurozona. Tra i più verosimili, c'è quello che insiste sull'interesse che Russia, Cina o Turchia potrebbero avere nel garantire sostegno economico alla Grecia alternativo agli aiuti concessi dalla Troika. Sostegno che imporrebbe una contropartita inequivocabile: il saccheggio della penisola ellenica (saccheggio già largamente in corso) da parte di una nuova linea geo-strategica. L'effetto domino poi, lo stesso di cui parla George Soros, determinerebbe non solo l'indebolimento degli istituti di credito di mezzo mondo, ma soprattutto, con la fuga dei capitali verso i bund tedeschi o, peggio, lontano dall'Eurozona, il possibile default di Spagna e Italia, paesi che non possono essere salvati né con l'esile firewall (EFSF) predisposto dall'Unione e dal Fmi né dalle timide politiche espansive di Draghi (acquisto sul mercato secondario dei titoli di Stato).

Il grido disperato dei neo-keynesiani non accenna a quietarsi, ma la Deutsche Bank e i cristiano-democratici tedeschi sembrano non avere orecchie per sentire. Cosa manca al riformismo occidentale per imporre una battuta d'arresto alla violenza neoliberale? Perché ciò che è stato possibile con Roosevelt nel '33 sembra oggi impossibile? Siamo destinati alla catastrofe bellica, come paventa Krugman nel suo j'accuse contro il delirio deflattivo, o il nostro futuro può ancora essere scritto?

La differenza con la Grande Depressione è una sola: la minaccia. Minaccia proletaria, dal '17 sovietico al '26 inglese, alla ripresa delle lotte in America, agli inizi degli anni '30. Oggi questa minaccia si chiama democrazia «insorgente» o «tumultuaria». Parliamo di una democrazia che non ha più nulla a che fare con la modernità, che non trova sollievo nelle scadenze elettorali, che si esprime nella potenza della rete, nello stile biopolitico della militanza e nella dimensione orizzontale e policentrica della decisione politica. Il «vero stato di eccezione», direbbe Benjamin (che non è Schmitt), lo spazio di reversibilità tra regole e fatti. La democrazia che fa impazzire Scalfari, quella che non si riduce in partito, pur non facendo a meno delle istituzioni. Pensiamo alla Spagna: in queste ore migliaia di persone riconquistano la piazza, nonostante il tracollo elettorale della sinistra socialista. Una minaccia vera, che non ha bisogno di proiettili per spaventare (quelli non spaventano nessuno, semmai attizzano gli eserciti e chiudono spazi di libertà per tutti), ma che pensa, con Jefferson, che ogni generazione merita la sua costituzione (e anche le sue forme di organizzazione). E oggi di costituzione europea abbiamo bisogno, una costituente sociale transnazionale che bagni l'Europa nel mediterraneo e provi a fare in pezzi la malinconia protestante della Merkel e dei suoi soci.

La democrazia oggi può e deve presentarsi come nuova minaccia proletaria. Stiamo parlando dei nuovi poveri, di una forza-lavoro qualificata, e sempre immersa in una fitta trama cooperativa, umiliata dal mercato del lavoro. Poveri sono i metalmeccanici violentati da Marchionne, poveri sono gli studenti e i precari della ricerca, poveri sono le partite Iva e i lavoratori della conoscenza: non è detto che tra questi mondi emergano solidi i ponti della relazione, ma è solo lo spirito della coalizione che può salvare ciascuno dal disastro imminente. In Italia la Fiom questa cosa l'ha capita, in Spagna lo sciopero generale è stato sorprendente e non mancano segnali positivi in Inghilterra: è ancora troppo poco o lo è a maggior ragione se l'Ig Metal scambia aumenti salariali del 7% con l'abbandono della zavorra ellenica. Ma è da qui si parte, dalla necessità della coalizione, tra nuove e vecchie figure proletarie, del networking europeo, ostile ad ogni ripiegamento identitario e territoriale.

Adorno diceva che la «libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta». Oggi la libertà per esser tale ha bisogno di uno sforzo in più: oltre la sottrazione, l'eccedenza deve saper creare.