Una Comune nei giorni nostri: il Kurdistan tra teoria e pratica

22 / 3 / 2021

A 150 anni dalla fondazione della Comune di Parigi, facciamo il punto sull’esperienza contemporanea che più incarna i valori e le prospettive di quella istituzione rivoluzionaria: il confederalismo democratico del Rojava. La necessità di focalizzarci oggi su una serie di aspetti di poiesis e praxis legati a questa esperienza, che da tre anni resiste agli incessanti attacchi militari della Turchia, va di pari passo con la ricerca collettiva di soluzioni alla crisi formale e sostanziale dell’intero impianto dello Stato moderno, che la gestione politica e istituzionale della pandemia sta facendo emergere in maniera ancora più significativa.

Introduzione

Nel suo programma fondato nel 1978, il Pkk esprimeva la volontà e l’obiettivo di creare uno stato indipendente chiamato Kurdistan. Ma con il tempo questo obiettivo è cambiato perché sono cambiate le condizioni sul campo. Nel 2005, la leadership del Pkk affermò che la volontà di creare uno Stato-Nazione era a tutti gli effetti un ostacolo alla libertà. L’obiettivo primario dell’organizzazione cambiò radicalmente: non più la creazione di uno Stato ma di una confederazione di autonomie locali a democrazia diretta, cioè amministrate attraverso consigli popolari delle comunità locali, capace di porre le basi dell’autodeterminazione dei popoli del Kurdistan e di un nuovo sistema di vita comune. “Disegnare e morire per i confini” dice Salih Muslim, membro del direttivo del Pyd (Partito dell’Unione Democratica) “è una malattia europea del diciannovesimo e ventesimo secolo. Il sistema dei consigli è il modello per il futuro”.

La volontà di questo articolo è quella di analizzare il cambiamento di prospettiva del principale attore del movimento di liberazione curdo, focalizzandosi su due concetti principali: il confederalismo democratico e la democrazia radicale, illustrando le loro potenzialità nel conseguimento della vera democrazia. A tale proposito, si comprenderà come la forma di autogoverno del confederalismo democratico sia un tentativo concreto di sperimentare, nel Ventunesimo secolo, la tradizione politica nata in seno agli eventi della Comune di Parigi del 1871. Infatti, tenteremo di evidenziare come la democrazia curda si inserisca – al pari dell’evento comunardo – nel tentativo di spezzare il dispositivo sovrano, per aprire l’agire politico a nuove forme di esercizio democratico alternative alla modernità capitalista.

La tradizione del consiliarismo

Fu in seguito agli studi di Murray Bookchin che Abdullah Öcalan, membro fondatore e presidente del Pkk, iniziò il dibattito sull’autonomia democratica e sul confederalismo democratico tra i curdi[1]. Bookchin differenziò tra due idee di politica, il modello greco e il modello romano, che diedero vita a due differenti immaginari di politica e comprensione del “Governo”. Il modello greco, abbracciato da Bookchin stesso, mette le sue basi sulla partecipazione popolare e comunitaria in tutti gli ambiti della politica, mentre nel modello romano il centralismo e la forma di Stato sono le caratteristiche principali, rigettate dal ragionamento del pensatore nordamericano. Il modello romano è rigettato perché statalista e centralista, a differenza di quello greco che basa il suo essere nella partecipazione attiva della cittadinanza attiva.

Seguendo il pensiero di Bookchin si evince che sarà proprio il modello da lui rifiutato, quello romano, a diventare dominante nella società moderna e post-moderna, caratterizzando il pensiero dei costituzionalisti francesi e americani del diciottesimo secolo. Il modello greco esiste invece come controcorrente culturale e politica, e trova la sua principale espressione nella Comune di Parigi del 1871, nei consigli della prima fase della Rivoluzione Russa del 1917 e durante la Rivoluzione Spagnola del 1936-39. 

In Italia, abbiamo avuto nei primi anni Venti in Antonio Gramsci uno dei massimi teorici del ruolo dei consigli[2]. Gramsci pensava infatti ai consigli di fabbrica come strumento della costruzione del socialismo attraverso il controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Com’è noto, il socialismo italiano esercitava già da decenni forme di contro-potere consiliare nelle campagne della Val Padana sotto forma di controllo di classe nel collocamento (il padrone per assumere qualcuno doveva rivolgersi al sindacato) e nell’imponibile di mano d'opera (ogni proprietario doveva impiegare un numero di braccianti proporzionale alla terra posseduta). Tra le diverse cause, il fascismo si affermò in Italia anche perché era il paese in cui la borghesia e lo Stato, per mantenere il loro potere, dovettero distruggere la spinta proletaria verso la creazione di un nascente contro-potere consiliare dal basso. Un ulteriore esempio è avvenuto durante la Resistenza, quando il dirigente comunista Eugenio Curiel teorizzò che le strutture di base dei Cln (Comitati di Liberazione Nazionale) dovessero diventare organizzazioni consiliari in cui si esprimesse il protagonismo delle masse popolari e si mantenesse l'unità antifascista anche dopo la fine della guerra[3].

Queste “parole d'ordine” tornarono d'attualità fin dalla fine degli anni Sessanta e per tutti i Settanta, oltre che essere agitate dai movimenti, erano affermate, formalmente a parole, anche dal Pci. Ma ciò che si ebbe, in realtà, fu la burocratizzazione di tutte le strutture di base, ovvero delle rappresentanze sindacali, studentesche e circoscrizionali che avrebbero dovuto esprimere il protagonismo popolare. L'esempio italiano è utile per comprendere come sia potuta andare perduta una lunga tradizione teorica e pratica di auto-organizzazione consiliare, nel momento in cui si incrociano la repressione dall'alto, la burocratizzazione di partiti e sindacati, la spinta alla ricerca di una carriera politica di potere e la ristrutturazione capitalistica delle forme di produzione e consumo.

Il progetto politico del Pkk, del confederalismo democratico e dell’autonomia democratica risiede quindi in un’importante tradizione di pensiero politico rivoluzionario, supportato anche da una pratica di queste idee. Il tema dei consigli viene trattato ampiamente da Darrow Sehecter, Professore di Teoria Critica e Storia Moderna all’Università del Sussex, nei suoi studi del movimento comunista, facendo ampi riferimenti a Rosa Luxembourg, Antonio Gramsci e Anton Pannekcek[4]. La teoria dei consigli ha dunque una lunga storia, che continua oggi in Kurdistan sotto l’ombrello del Koma Civakên Kurdistan, (l’Associazione delle Comunità del Kurdistan, KCK) coordinate in Turchia KCD (Congresso della Società Democratica) e in Siria nel Tev-Dem (Movimento della società democratica).

La svolta del Pkk

Nonostante sia comunemente catalogato come un’organizzazione armata che persegue la tattica della guerriglia, il Pkk non deve essere catalogato solo in termini militari, ma deve essere invece visto come un’organizzazione politica che promuove l’uso della violenza solo quando non vi sono altre alternative praticabili. Quando il Pkk fu fondato come partito politico nel 1978 esprimeva la classica struttura organizzativa partitica tipicamente comunista, infatti, leggendo i primi documenti prodotti dal partito, si possono leggere i due principali obiettivi che l’organizzazione si era data: il primo era di una progressiva realizzazione del diritto di autodeterminazione del popolo curdo, e il secondo invece di una riorganizzazione politica ed ideologica dei curdi stessi. La capacità di trasformare questi obiettivi “primordiali” per qualsiasi movimento di liberazione è emersa con forza negli anni 2000, quando gli intrecci e lo sviluppo teorico portarono il Pkk a parlare di “democrazia radicale”, e sostanzialmente di tre progetti intrecciati: la repubblica democratica, l’autonomia democratica e il confederalismo democratico, ognuno dei quali intende agire come un dispositivo strategico nel modo in cui le richieste del popolo curdo sono ridefinite e riorganizzate.

Il progetto della repubblica democratica ha come obiettivo principale la dissociazione della democrazia dalla teoria e dalla pratica del nazionalismo. Concretamente si tratta della proposta di una nuova idea di cittadinanza non più definita in termini di etnicità o religione, ma piuttosto viene in termini di diritti civili e di partecipazione alla vita pubblica. Questo primo paradigma era volto all'azione sul piano dello Stato, estraneo invece ai concetti di autonomia democratica e confederalismo democratico, che sono invece forme di organizzazione politica alternative allo Stato. Prevedono infatti processi che mettono al centro del discorso politico la volontà popolare e le politiche emancipatorie, che hanno nella connettività tra le varie realtà un punto focale. Questo punto è basato sul ripensamento della separazione fra Stato, Potere e Politica e il tentativo di operare sconnessioni tra questi concetti spesso mostrati come inscindibilmente collegati. 

Il concetto di autonomia democratica non si riferisce ad una forma di sotto-sovranità garantita dalle istituzioni all’interno di uno stato sovrano, con il conseguente trasferimento di funzioni e responsabilità a istituzioni che vanno a formare una specie di “sotto-stato”, ma si pone invece come base di  una nuova forma di organizzazione politica fondata sull'autogoverno, anziché sulla relazione gerarchica che sottomette il popolo allo Stato.

Cemil Batik, membro fondatore del Pkk, distingue attentamente il concetto di “autonomia” da “autonomia democratica”, perché la prima prevede che qualsiasi tipo di autonomia abbia lo Stato-Nazione come base di partenza, mentre l’autonomia democratica è basata, appunto, sul principio del confederalismo democratico. Tale regime politico si riferisce ad un’organizzazione societaria che può essere caratterizzata come un sistema bottom-up di auto-amministrazione in cui il principio alla base di tutto è l’autogoverno delle comunità. In altre parole, si può affermare che l’autonomia democratica riguarda l’abilità e la capacità di avere, o riconquistare, il controllo sulle istituzioni politiche, sociali ed economiche, mentre il confederalismo democratico si riferisce all’abilità di decidere ed amministrare. L’obiettivo non è quello di ri-declinare il paradigma della sovranità moderna, ma di sviluppare una società democratica attraverso un auto-governo del popolo per mezzo della democrazia radicale.

Il progetto del Pkk riguardo la democrazia radicale e, quindi, dello sviluppo dell’autonomia democratica si scontra con tre grandi problemi: la separazione del potere dal popolo, la separazione di un popolo da un altro e la separazione di potere e politica.

All’inizio dell’epoca moderna la democrazia veniva considerata il governo di tutti su tutto. Ora invece l’idea di democrazia è vista più come la intendevano Toni Negri e Michael Hardt, cioè come “il governo di funzionari, i quali sono tenuti a rispondere e possono essere rimossi dalla maggioranza del popolo che ne detiene la competenza”[5]. Hannah Arendt argomenta che il governo rappresentativo è di fatto diventato un’oligarchia non nell’accezione di un governo di pochi, ma in quella di un governo dove pochi governano supponendo che lo facciano nell’interesse di tutti, cosicché la maggior parte dei cittadini si senta rappresentato, dove la rappresentanza è quindi una delega[6]. Infatti, sempre secondo Negri e Hardt, la rappresentanza ha una sua natura duale in quanto connette e separa. Questa rappresentanza è duale per il fatto che, non solo implica una connessione fra rappresentante e rappresentato, ma anche comprende una disconnessione fra governante e governato, in quanto il secondo cede il potere al primo e automaticamente ne viene così separato. La neutralizzazione del monopolio del potere sovrano avviene, quindi, con una costruzione di democrazia dal basso. 

Ed è proprio questo tipo di relazione che è criticata da Salih Muslim del Pyd (Partito dell'unità democratica, interfaccia siriano del Pkk e quindi avanguardia della rivoluzione in Rojava)[7]. Muslim, infatti, argomenta che la relazione tra le persone del Medio Oriente e lo Stato negli ultimi decenni è stata concettualizzata e praticata in termini di attivismo statale e passività dei popoli, mentre il modello del confederalismo democratico è basato su una cittadinanza attiva, con un popolo consapevole  della propria capacità di agire e di decidere, discutere problemi e di trovare soluzioni dal popolo e per il popolo. Sono della stessa opinione anche Cemil Batik e Duran Kalkan, membri del direttivo del Pkk, i quali argomentano che il cambio di paradigma include anche un cambio dalla costruzione dello Stato (State-building) alla costruzione di una società (Society-building) e quindi dallo sviluppo di capacità sociali di autogoverno invece della mera presa del potere nelle istituzioni liberal-democratiche.

Dove sta la vera novità? In questo contesto la rappresentanza non separa il popolo dal potere, ma si inserisce nella trasformazione della dimensione politica da pubblica a privata; tale cambiamento viene esemplificato attraverso il diritto al voto: l’urna elettorale rappresenta la capacità di fare una scelta. Essa non è più punto di inizio e di fine del coinvolgimento del cittadino nella vita politica, come è nelle democrazie rappresentative, ma momento decisionale all'interno di un percorso fatto di partecipazione attiva attraverso le assemblee, i comitati, le cooperative, ecc. “La libertà è libertà di agire come cittadino e questo significa partecipare, essere ascoltato e dibattere (..)” attraverso queste parole Hanna Arendt - già sopracitata - esalta la capacità di potenziare il popolo nel suo essere cittadino attraverso la creazione di uno spazio pubblico[8].

Arriviamo così alla “council democracy”, il tesoro della tradizione rivoluzionaria, ossia quello spazio pubblico nato storicamente per prendere decisioni collettive. L’autonomia democratica e il confederalismo democratico si confrontano anche con il problema che Zygmunt Bauman chiama separazione del potere dalla politica nella società moderna[9].

Se nello Stato-nazione il potere viene definito come “abilità nel fare le cose” e la politica come “abilità nel decidere in che direzione andare” li troviamo nel confederalismo democratico come stati separati. Ma, se non c’è abilità di fare le cose non può essere assunta alcuna responsabilità, quindi, partendo da ciò, possiamo delineare l’autonomia democratica come una capacità di controllo, mentre il confederalismo democratico riguarda l’abilità a decidere il bene comune. Questo comporta che autonomia democratica e confederalismo democratico cercano di mantenere la promessa di riconnettere il potere alla politica e la vita quotidiana alla politica, ma lo fanno in un contesto diverso, che non sia quello dello stato-nazione, ovvero in una forma assembleare nella quale i singoli e le comunità si confederano attorno ai principi cardine dell’autogoverno.

Le idee di autonomia democratica e confederalismo democratico pongono quindi una volontà, quella di superare le forme esistenti della politica, per costruire un nuovo tipo di coinvolgimento basato su forme alternative di partecipazione, avendo ben presente l’obiettivo finale di trasformare concretamente l’esistente. 

Nella sua opera sull’idea di democrazia radicale, Chantal Mouffe crea una forte opposizione tra le idee di “esodo” e di “coinvolgimento”[10]. Con “esodo” l’autrice si riferisce ad un rigetto e a una fuga dallo Stato. L'obiettivo principale di questa fuoriuscita dallo Stato è lo sviluppo di una sfera pubblica non strettamente collegata al dispositivo sovrano, ma basata su un nuovo soggetto, la democrazia radicale, che pone le sue radici nella costruzione e nella sperimentazione di forme diverse di rappresentanza e di modello democratico, ovvero rivalutando la forma politica del consiliarismo. Infatti, i consigli sono le fondamenta di un sistema politico che inverano l’esercizio democratico nella vita quotidiana, al fine di rendere inutile le istituzioni dello Stato moderno. In opposizione a ciò, Mouffe, distingue il “coinvolgimento”, cioè l’idea e la pratica di lavorare all’interno delle istituzioni dello Stato-Nazione per disarticolarle e renderle inefficienti.

L'elaborazione teorica del movimento di liberazione curdo ci consente di superare questa dicotomia, perché la trasformazione in senso democratico degli Stati esistenti non è posta in contrasto con la creazione delle strutture consiliari di auto-governo dal basso, ma piuttosto è situata al loro servizio. In tal modo si può pensare ad una rivoluzione depurata da ogni allucinazione messianica, da ogni “attesa dell'ora X”, una rivoluzione che si fa ora per ora, giorno per giorno, capace di essere al tempo stesso graduale e radicale nel suo diventare - in un contesto di guerra continua - realtà storica concreta.

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Note:

[1] Cfr.: M. Bookchin, Libertarian Municipalism: an overview, in Green Perspectives, October 1991; A. Öcalan, Prison Notes, June 18, 2008; Id., Writings Volume II: The PKK and the Kurdish Question in the 21st Century, London, Transmedia, 2011; Id., Democratic Confederalism, London, Transmedia, 2001. In bibliografia secondaria si veda anche: A. Marcus, Blood and Belief: the PKK and the Kurdish Fight for Independence, New York & London, New York University Press, 2007; M. Kucukozer, Peasant rebellions in the age of globalization: The EZLN in Mexico and the PKK in Turkey, New York, City University of New York, 2010; Ismet G. Imset, The PKK: a report on separatist violence in Turkey (1973-1992), Ankara, Turkish Daily News, 1992

[2] Cfr.: A. Gramsci, Democrazia operaia, in “L'ordine nuovo”, 21 giugno 1919. Il geografo radicale David Harvey inoltre ricorda come l'intellettuale sardo esortasse la sua organizzazione politica a stimolare una democrazia di base non solo nei luoghi di lavoro, ma anche nei quartieri urbani: “E’ in relazione a questo che guardo alle forme di organizzazione di Antonio Gramsci. Lui era molto interessato ai consigli di fabbrica. Seguiva la linea marxista secondo cui l’organizzazione di fabbrica è cruciale nella lotta. Ma poi esortava la gente a organizzarsi anche nei quartieri. Così, secondo il pensiero di Gramsci, potevano ottenere una situazione migliore per tutta la classe operaia, non solo per quella organizzata nelle fabbriche, ecc. Comprese persone come i disoccupati, i lavoratori precari e tutte le persone che hai citato, e che non erano al lavoro nei settori industriali tradizionali. Gramsci proponeva che questi due tipi di metodi organizzativi si intrecciassero per rappresentare veramente il proletariato.” (Intervista a D. Harvey di Emanuele Vince, consultabile a questo link per uno studio più sistematico del rapporto fra movimenti urbani e democrazia di base cfr. D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi e Occupy Wall Street, Milano, Il Saggiatore, 2013).

[3] E. Curiel, Scritti 1935-1945, 2 voll., Roma Editori Riuniti, 1973.

[4] Cfr.: D. Schecter, Critical theory in the twenty-first century. Critical theory and contemporary society, Bloomsbury Academic, London, 2013.

[5] Cfr.: T. Negri, M. Hardt, Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004; T. Negri, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma, 2016.

[6] Cfr.: H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino, 2006.

[7] The People’s Rule: An Interview With Saleh Muslim, Part I, 27 febbraio 2014, consultabile al link: http://carnegie-mec.org/diwan/54675 

[8] Cfr.: H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit.

[9] Cfr.: Z. Bauman, Liquid Times. Living in an Age of Uncertainty, Cambridge, Polity Press, 2007.

[10] Cfr.: C. Mouffe, Hegemony, Radical Democracy, and the Political, edited by James Martin, London, Routledge, 2013.

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** Pic Credit: 10 febbraio 2018 – manifestazione delle donne del Rojava in appoggio dei combattenti della popolazione di AfrinMauricio Lima/The New York Times