Un quartiere e la contaminazione: quella da polveri, e tra le persone

1 / 9 / 2012

C’è un vocabolo, nella lingua italiana, la contaminazione che assume una duplicità di significati, se volgiamo lo sguardo alle vicende che si dipanano in questi giorni nel quartiere Tamburi, quello che si trova a duecento metri dal siderurgico più grande d’Europa, l’Ilva di Taranto. Contaminazione, come quella radioattiva, con connotati decisamente negativi: avvelenamento delle falde acquifere, della catena alimentare, dell’intero ecosistema, delle vie respiratorie per i suoi abitanti. Quella da polveri di minerale, che si depositano ovunque, sulle strade, sui tetti, entrano nelle case, nei negozi, nelle scuole. Un fenomeno, questo, lungo cinquant’anni. E poi invece, c’è la contaminazione tra persone, che diventa, invece,un fenomeno positivo e vitale nelle “giornate di Taranto”.

In migliaia scendono in strada giovedì 30 Agosto. Un corteo notturno in concomitanza con la diretta della trasmissione Piazza Pulita, in onda su La7. Un lunghissimo serpentone di corpi e colori inonda l’arteria principale del quartiere. Ci sono mamme, bambini, giovani studenti, e uomini adulti, in larga parte operai, quelli che sono la forza che muove l’acciaio, a due passi da lì, in quello stabilimento che sembra un inferno a cielo aperto. Ognuno con le proprie storie da raccontare, marchiato a vita dai segni della malattia e della sofferenza. Nella leggerezza dei loro sguardi, si intravede, però, tutta la dignità di un popolo per tanto tempo dimenticato, che ora chiede riscatto, sfuggendo dal ricatto salute-lavoro, in cui da troppo tempo, ormai, la città di Taranto è sprofondata. E che lo fa, contaminandosi gli uni con gli altri, mescolando linguaggi e codici diversi, riuscendo a minare la stessa integrità del modello di sviluppo tramandato e fissato dalla tradizione industriale italiana in mezzo secolo di storia. Un fenomeno, questo, che infatti rompe l’ordine del discorso di sistema, ibridando invece, e contaminando le stesse forme.

L’aria intanto è pesante, densa di rabbia e tensione. E non potrebbe essere altrimenti per gli abitanti dei Tamburi, dove la gente si incontra per strada, al mercato, e ogni giorno si racconta sempre le stesse cose. Parla di morti, del lavoro che uccide, delle malattie dovute a quello che respirano, che bevono, che mangiano. Dove non è vero però che da qui, tutti sperano un giorno o l’altro di andarsene, perché questa è una comunità vera, fatta di persone che si sostengono ed aiutano nella quotidianità, costruendo a loro modo anche welfare dal basso. Sperano invece, che sia quel mostro marrone, dello stesso colore della ruggine ad andar via prima o poi via, un giorno, o l’altro, anche remoto. Quello si lo sperano. Perché fino ad allora la loro vita sarà per sempre legata ad una roulette russa.

Mentre sullo sfondo le ciminiere continuano a sputare fuoco, polveri e veleni, come non hanno mai smesso di fare, nemmeno in questi giorni, mentre i parchi minerali continuano ad essere a cielo aperto, e su uno di quei dei tanti palazzi, a cui i fumi dell'Ilva ha cambiato il colore, facendolo diventare quasi nero, appare una targa, testimonianza dell’ennesimo morto di neoplasia polmonare. Alle 19.30, l’apecar si rimette in cammino, intraprendendo il suo percorso di dignità e di riscatto. Per una terra vessata e sfruttata, che ora chiede il conto. Allo stato, alla famiglia Riva, alla rappresentanza politica e sindacale, a chi è stato artefice e complice del disastro ambientale più grave che l’Italia meridionale ricordi.

“Tamburi lotta con noi” è il grido di una scia tumultuosa di mani al cielo. Il quartiere risponde calorosamente all’appello, perchè sa da che parte stare. Dall’unica possibile, quella dei liberi e pensanti. Il corteo intanto avanza lentamente, e per i cittadini di Taranto è come sognare ad occhi parti: le saracinesche dei negozi si abbassano lentamente. Dai balconi delle case spuntano lenzuola bianche. La massa diviene moltitudine consapevole ed organizzata, e si fa a poco a poco demos. Oggi la sua dinamicità brilla più del minerale che si deposita sui balconi.

È un’onda che sale, sempre più alta, è un susseguirsi di voci, sguardi e sorrisi. Un quartiere, che è proletario storicamente, abitato prevalentemente da operai e pescatori, diventa il palco perfetto dove praticare percorsi di democrazia diretta e partecipata. Luogo assunto a simbolo dell’agorà di Taranto, dove si riscrive una nuova storia.

Taranto sembra essere finalmente unita. Quella frattura sociale tra lavoro e salute, tra cittadini ed operai, quella frattura, divisione, che è stata per questa città, anche naturale, con due mari, due isole, due città, città vecchia e città nuova, che ne ha fatto la città più divisa d’Italia, oggi la si sta provando a ricomporre. Pur con tutte le contraddizioni che inevitabilmente vicende complesse come questa comportano. Ma non è forse la difficoltà con cui i fiori riescono a crescere nel deserto, a rendere quei frutti unici e rari?

Ed è proprio la magia della combinazione di varie sfumature, che permette di dare un segnale forte di discontinuità, rispetto ad un passato che è stato invece fosco e subalterno. Mentre dipenderà proprio dalla capacità di questa terra, - che oggi lo Stato scopre essere strategica- e da quella dei suoi cittadini, - che importanti invece non lo sono mai stati - di riuscire a mettere in discussione i propri corpi e le proprie esistenze, per potersi porre come paradigma di come si costruiscono nuove forme di democrazia in Italia, nel 2012. 

Non per dire banalmente, “facciamo come a Taranto”, come i sempre vivi profeti delle lotte costruite dietro una cattedra, stanno già teorizzando. Ma perché Taranto, come lo è stata negli anni scorsi, un’altra esperienza, molto vicina geograficamente, ma non solo, a noi, quella che ha portato poi alla chiusura della discarica di Chiaiano, possa fungere da modello, di come ripartendo dal locale, dai quartieri e dalle piazze, si possa, riuscendo a far sintesi, cominciare davvero a costruire un modello altro di sviluppo. Quel “pensare globale agire locale”, che è il primo insegnamento che si apprende se si decide di percorrere le strade strette e tortuose, dei movimenti. Di quelli reali.