L’Italia non è un Paese per rifugiati.
E’ quanto ha stabilito il Tribunale Amministrativo di Frankfurt Am Main
il 2 aprile 2013 a proposito della vicenda di un giovane afgano di 24
anni che, dopo quattro mesi in Grecia, il 14 dicembre 2010 è giunto in
nave nel nostro paese.
Nell’ospedale di Lecce, dove è stato ricoverato qualche ora, ha ricevuto
la visita di un paio di poliziotti, che parlando un inglese
approssimato, senza l’ausilio di alcun mediatore, gli hanno preso le
impronte digitali. Pare che nessuno dei poliziotti e tanto meno lui,
abbia pronunciato la parola “asilo”.
Il 25 gennaio 2011, dopo un viaggio con tappe Roma, Parigi e arrivo
finale a Francoforte, con relativo fermo da parte della polizia tedesca,
l’Italia ha concesso il permesso di riammissione nel proprio
territorio. Le autorità tedesche hanno autorizzato il rinvio verso
l’Italia in applicazione del regolamento Dublino, ma il giovane afgano
ha presentato ricorso contro la rinvio in Italia aggiungendo al suo
dossier un certificato medico psichiatrico che attesta la sofferenza di
uno stato post traumatico.
La rilevazione delle impronte, si legge nel dossier, non sono una prova della presentazione di domanda d’asilo e tanto meno il documento sgrammaticato della “Questura in Lecce (Otranto)”.
Infatti la domanda d’asilo è tale quando l’autorità riceve una richiesta
scritta dall’interessato e tale richiesta è protocollata. Niente di
tutto ciò è stato fatto.
Le autorità tedesche respingono dunque il rinvio in Italia del giovane
ritenendo inadeguato il Bel Paese alla presa in carico del ragazzo.
Le stesse autorità italiane riconoscono di non avere una visione d’insieme sulle capacità effettive del sistema di accoglienza.
Il sistema di accoglienza italiano è tortuoso e segmentato: prevede la
presa in carico dei richiedenti in centri di accoglienza chiamati CARA
per una permanenza di 20 giorni durante i quali avviene
l’identificazione. In tutto il paese ci sono 9 CARA gestiti da privati
scelti dalle prefetture secondo una procedura di scelta con domanda
scritta. Esistono inoltre dei centri, non per richiedenti asilo, ma che
li accolgono ugualmente, chiamati CDA.
Successivamente, passati i 35 giorni, il richiedente è preso in carico
dallo SPRAR, il sistema di protezione per i domandanti asilo e i
rifugiati. Tali centri sono gestiti dai comuni, dalle province, e da
organizzazioni private che ricevono una sovvenzione su richiesta
scritta.
Tutte queste strutture sarebbero in fase di miglioramento se ci fossero i
fondi. Attualmente sono paragonabili a gironi danteschi in cui
sovraffollamento, promiscuità sono i fenomeni meno gravi.
Nel
frattempo il richiedente asilo si perde nei meandri di una burocrazia
tortuosa capace di creare incertezze, tante ansie e momenti di “limbo”
istituzionale nei quali intervengono in modo naif diverse strutture,
comprese quelle religiose.
Spesso durante questi periodi non sono coperti dall’assistenza sanitaria
e il disagio che ne consegue è notevole, tanto da fare scaturire un
pronunciamento di tale gravità da parte del tribunale tedesco.
L’Italia non è un Paese per rifugiati.