Trento - Rinchiudere, espellere, allontanare: lessico dell'accoglienza?

di Chiara Pasquato dell'assemblea richiedenti asilo

20 / 11 / 2012

A Trento, ancora oggi, 13 richiedenti asilo o rifugiati sono rinchiusi in carcere in seguito agli scontri tra nordafricani e africani subsahariani avvenuti il 22 luglio nella centralissima Piazza Dante.

13 ragazzi incensurati, da 4 mesi in carcere in attesa di giudizio per le accuse di rissa e resistenza a pubblico ufficiale. 13 ragazzi a cui si sta negando la possibilità di rimettersi in gioco nel percorso di costruzione del proprio futuro.

Non si tratta forse di una condanna politica emessa prima dello svolgimento del processo come punizione esemplare per mostrare ai cittadini infuriati che le istituzioni locali si muovono e affrontano "efficacemente" i problemi di ordine pubblico?

Peccato che così facendo assistiamo allo spettacolo di un sistema politico e di una (in)giustizia che creano una reazione a catena: non affrontano i problemi socio-politici alla base di eventi come quelli di luglio in Piazza Dante, ma ne creano di nuovi contribuendo alla formazione di un sistema sociale basato sull'ingiustizia e sull'occultamento della complessità del reale, per non doverlo affrontare in tutte le sue sfaccettature.

E allora si crea la sofferenza di 8 persone che hanno accettato di patteggiare non perché colpevoli ma perché ormai disilluse dalla giustizia italiana e non più in grado di sostenere la permanenza in carcere, senza potersi mettere in contatto con i famigliari, per chi li ha, per rassicurarli sulla loro salute. Già, perché il diritto a telefonare è applicabile solo a chi dimostra l'associazione tra il destinatario della telefonata e un'utenza telefonica, cosa alquanto complicata per chi ha famiglia in un Paese straniero.

Si arriva così alla sofferenza di 8 persone, uscite dal carcere senza famigliari pronti ad ospitarle, che non possono stare né transitare per Trento grazie all'altra efficace (in termini mediatici) manovra della Questura che è il foglio di via triennale dal territorio comunale, senza un lavoro e quindi un salario per pagarsi un affitto e senza una casa perché la Provincia ha deciso, subito dopo la carcerazione, a luglio, di espellere tutti gli arrestati dagli alloggi in cui erano ospitati per il progetto di accoglienza Emergenza Nordafrica (22 sui 24 arrestati sono richiedenti asilo), prima che venisse emessa una qualsiasi condanna (ma la nostra Costituzione cosa dice in merito?).

Ora questi ragazzi sono qua, in Trentino, ospitati da due famiglie che hanno messo a disposizione casa, tempo, risorse materiali e affettive, ma che non ce la possono fare da sole.

Qual è allora la loro prospettiva?

La vita in strada, in altre città d'Italia, perché con il permesso umanitario non si può lavorare all'estero. Ma sì, esternalizziamo il problema, ci penserà qualcun altro.

Non è finita. Torniamo all'altra grande sofferenza: quella dei 14 ragazzi in carcere, di cui 13 incensurati, di cui 12 richiedenti asilo. In 12 hanno assistito alla prima udienza del processo che li vede coinvolti come imputati, il 7 novembre, e hanno dovuto subire un'altra, grandissima, ingiustizia e umiliazione: essere trattati come schiavi.

Il Potere conosce le immagini più efficaci per manifestarsi. Questa volta ne ha scelta una terribile e che rimanda a reminiscenze del passato coloniale: la “scena” di un piccolo esercito di agenti di polizia penitenziaria che scortano 12 ragazzi ammanettati e legati tra loro da una catena (magari il termine tecnico non sarà questo) e lasciati così per tutta la durata dell'udienza (più di due ore), come schiavi di un sistema che sa solo sfruttare le persone e che se ne lava le mani quando emergono delle problematiche (di cui si sapeva, ma che la politica trentina ha fatto sempre finta di non vedere!).

La prossima udienza sarà il 18 dicembre e poi ce ne saranno altre... E questi ragazzi devono continuare a stare in carcere in attesa della fine del processo? Perché? Sono davvero così pericolosi?

Ma chi, istituzioni, giudici, poliziotti, “cittadini” subito pronti a condannare al carcere a vita (“buttate via le chiavi” diceva un commento ad uno degli articoli apparsi nel quotidiano locale “L'Adige” sui “fatti” di Piazza Dante), conosce queste persone? Chi si è preso il disturbo di raccogliere ed ascoltare la loro voce, le loro storie di vita? Chi ha provato a superare le cornici culturali del proprio piccolo mondo per entrare in contatto le loro?

Allora, accogliente società italiana e trentina in particolare, la smettiamo di voler nascondere la testa sotto la sabbia per far finta di vivere in un' “isola felice”?

Le isole felici non esistono da nessuna parte, una città più giusta, solidale ed equa la si può costruire ovunque, se si smette di pensare che con la crisi non c'è spazio per gli altri, che eliminando il problema lo si risolve, che rinchiudendo, espellendo ed allontanando delle persone si garantisce la pace sociale.

Ma poi, quale pace sociale? È più preoccupante vivere in una società che nasconde i problemi, che in una che con coraggio li affronta, vivendoli fino in fondo, accettando la complessità e le sue mille facce.

Ricordo ancora la risposta di un poliziotto, in Piazza Dante, il pomeriggio del 21 luglio, quando già c'erano le avvisaglie di quanto sarebbe successo (ripeto, si sapeva del rischio e non si è fatto niente). Gli avevo domandato, ingenuamente e provocatoriamente insieme, se erano previsti interventi strutturati per affrontare le problematiche legate alla convivenza conflittuale in Piazza Dante (“Perché la Provincia non lavora con la Questura, con il privato sociale, con le realtà confessionali, per creare equipe multispecializzate di educatori di strada, mediatori del conflitto/interculturali e con la formazione della polizia in questo senso, organizzando iniziative di dialogo tra le parti in causa per la promozione di percorsi attivi di partecipazione alla vita sociale?”).

Mi aveva risposto: “Noi il nostro lavoro lo facciamo”. Cosa di preciso? “Pattugliamo”.

Già, esattamente quello che serve per affrontare la complessità e creare una società di giustizia e garanzia del diritto ad una vita dignitosa per tutti.