Tra volti, voci, storie e pensieri operai. Dall’Ilva all’agorà

27 / 8 / 2012


Se non ci fossero stati il loro coraggio e la loro dignità, probabilmente, il flusso degli eventi di questo torrido agosto in terra ionica, avrebbe seguito un corso diverso. Sono gli operai Ilva, che insieme a precari, professionisti, attivisti di spazi sociali, compongono il comitato lavoratori cittadini liberi e pensanti.

Quei lavoratori e lavoratrici, che insieme alle loro famiglie non solo portano impresso il marchio dello sviluppo capitalistico, quello del massimo profitto ad ogni costo, sui propri corpi. Ma che sono soprattutto coloro che hanno pagato il prezzo più alto, per la più grande e tumultuosa trasformazione ambientale italiana, che dal secondo dopoguerra in poi, l’Italia meridionale ricordi. Quella carne viva e quelle teste pensanti, sono stati ora anche tra i massimi protagonisti delle giornate di Taranto. Dapprima sfuggendo ai ricatti, a quel tacito consenso che regnava sulla loro pelle, a quell’assunto basato sul fatto che la salute (non solo degli operai), fosse il prezzo da pagare per lo sviluppo industriale del Paese. Poi, ponendosi come soggetto partecipe e costituente di una possibile alternativa. Di nuove forme di democrazia. Costituendosi in agorà. Le agorà di Taranto, che sono nomadi: oceaniche e partecipate assemblee sia nel cuore della città, che nel quartiere “dove i morti camminano”, quello attaccato al siderurgico, l’oramai fin troppo tristemente noto quartiere Tamburi. Come fecero i nostri antenati greci duemila anni fa, costruendo i luoghi della democrazia per antonomasia, le sedi delle assemblee dei cittadini che vi si riunivano per discutere i problemi della comunità, e decidere collegialmente sulle leggi da approvare, e far rispettare. Allo stesso modo, qui ci si pone l’ambizione di provare ogni giorno a costruire istituzioni del comune, intese come un nuovo processo di legittimazione sociale che passi orizzontalmente per i movimenti, e che verticalmente sappia imporre invece nuove condizioni normative, nuovi diritti per la vita e i suoi bisogni. Che sappiano fare i conti con la fine delle sinistre e con la crisi della rappresentanza politica e sindacale tradizionale. Che sappiano rifondare la politica a Taranto e fornire una nuova immaginazione istituzionale.

Giovedi’ 23 Agosto l’agorà è davanti alla portineria D del siderurgico, incontra i lavoratori all’uscita dello stabilimento, provando a raccontare e far raccontare quelle esperienze quotidiane, quelle storie di una dura condizione di vita. Provando a darevoce agli operai. A quei volti, a quei nomi che in quella fabbrica sono ricondotti solo alle matricole di appartenenza, e alle mansioni svolte.

Non numeri, appunto, ma persone, identità che assumono nuova forma e significato attraverso le loro storie. Si prova, intanto, incontrando i lavoratori fuori dalla fabbrica, a costruire una coscienza ambientale operaia, basandola sull’esperienza fisica della nocività. Quella formazione, che a Taranto è stata sempre ostacolata da una grande mistificazione culturale e politica che dura ormai da decenni. Da quell’inganno fondato sul ricatto al quale la città ha sempre sottostato, da quella scelta orribile tra la vita e la morte, solo un po’ più lenta.

Escono in massa alla fine del primo turno. Provengono quasi tutti dall’area a caldo, quella sotto sequestro, dalla cokeria, dagli altiforni, dall’agglomerato. Guardano a testa bassa, quasi con imbarazzo, la presenza dello striscione simbolo delle giornate di Taranto, appeso alla cancellata, “ si ai diritti, no ai ricatti. Salute, ambiente, reddito, occupazione”. Ma in pochi minuti si capisce che qualcosa, più di qualcosa è cambiata dopo le giornate di Taranto, dopo l’irruzione dell’apecar nella piazza dei confederali. Molti si fermano, in centinaia ascoltano in religioso e compiaciuto silenzio gli interventi. Qualcuno va via, magari esausto dopo otto ore e più, in quell’inferno. In quello stesso luogo dove la maggior parte degli operai fino a qualche settimana, sperava solo di non perdere il lavoro, ora la percezione invece è totalmente, o quasi, rovesciata. Ora si spera di non doversi ammalare e di non dover vedere ammalarsi i propri figli. Lo urlano al microfono aperto dell’agorà, davanti alla portineria d, mentre capi e capetti li “ascoltano” dall’interno. Qualche vigilante alla porta li provoca, qualche operaio viene addirittura minacciato mentre esce dalla fabbrica con il volantino del comitato tra le mani. Nonostante il clima di intimidazione, invece, si fermano in tanti, ascoltano, qualcuno di loro interviene, nonostante la stanchezza di fine turno e la voglia di tornare a casa. Le storie sono tutte differenti, le situazioni, i vissuti e le scelte di ciascuno di loro, anche. Offrendo un quadro, una diversa rappresentazione antropologica di un mondo, quello operaio, spesso chiuso in una lettura stereotipata. Che da queste parti, viene raccontato, a volte, ancora con quella categoria di trent’anni fa: il metal mezzadro, con quell’invenzione giornalistica di Walter Tobagi che in un reportage del 1979, scoprì un mondo, quello degli operai che a Taranto non avevano mai smesso di fare i contadini. I nostri nonni, che la notte allo stabilimento, la mattina seguente a coltivare la terra nei paesini della provincia. Ora tutto questo non c’è più. Gli operai, nella borsetta d’ordinanza non hanno più il “pane e fichi”, ma l’iphone e l’ipad, e molti di loro, grazie alla rottura nell’immaginario provocata dall’apecar, dopo anni di apatia e rassegnazione, ora desiderano pian piano essere interpreti di una più generale battaglia culturale contro il sapere/potere dominante e allo stesso tempo per una nuova soggettività operaia. Cominciando a considerare la stessa fabbrica come un terreno cruciale della lotta politica tra capitale, e salute. Chiedendo allo stesso tempo un intervento urgente, ampio e complessivo, che riguardi le questioni di un territorio devastato da decenni di politica industriale, e di una cittadinanza avvelenata nella catena alimentare, che allo stato dell’arte attuale non possiede nemmeno un osservatorio epidemiologico permanente.

Perché l’apecar di Taranto possa ricongiungersi con vicende come quella dell’ambientalismo operaio di un altro disastro ambientale italiano, quello dell’area petrolchimica di Porto Marghera. Per aprire un nuovo capitolo nella storia delle lotte contro la nocività. Dopo quella stagione apertasi negli anni novanta con il processo per le morti e i danni biologici subiti dagli operai del petrolchimico di Venezia. In quell’esperienza decisivi furono il ruolo della medicina militante, quello degli esperti attivisti (non solo medici, ma anche ingegneri e avvocati), nel fornire supporto alle denunce operaie, decisivi nel dare vita alle inchieste giudiziarie prima, e alla successiva bonifica dell’area, poi.

Nella vertenza Taranto, dovrà essere considerata di grande importanza la soggettività femminile e non solo nella battaglia per il riconoscimento del danno. Un ruolo, quello della soggettività femminile, che è stato importantissimo in tutti i movimenti per la “giustizia ambientale”; in Campania, ad esempio, nelle lotte dei cittadini campani contro la discarica di Chiaiano e l’inceneritore di Acerra essa ha esercitato una forza dirompente. Ma qui, invece davanti alla portineria d, di fronte ad un altro mostro, oltre l’acciaieria più grande d’Europa, la discarica per rifiuti speciali Italcave, si capisce comunque che dovrà essere anche e soprattutto una soggettività operaia organizzata impegnata nella lotta contro le nocività, il punto cardine della vertenza socio-ambientale di Taranto. Perché sono loro il corpo vivo di questa lotta. Coloro che rischiano di più, mettendo in gioco tutto, il proprio lavoro, la stessa esistenza. Perché questa è la vicenda più complessa e drammatica che “la classe operaia”, - mi perdonino certi operaisti - subisce sulla propria pelle negli ultimi cinquant’anni.

Ha ragione Francesco Tinelli, quando in http://www.globalproject.info/it/in_movimento/dove-il-fondo-non-esiste/12095 scrive, a proposito della nomina anuovo ras dell’azienda di Bruno Ferrante, ex Prefetto di Milano, attualmente consigliere ancora in carica del ministro dell’interno che – “sembra di essere tornati agli anni ’50 in cui Stato e fabbriche erano la stessa cosa a difesa dell’ordine costituito”. Allora il potere padronale riorganizzò il rapporto di lavoro mirando alla totale spoliticizzazione della vita di fabbrica. Scoppiarono però allo stesso modo aspre lotte. Oggetto del contendere, terreno di scontro tra operai e padroni, era la difesa dell’uso e del prezzo della forza lavoro. Mentre vigeva intanto ancora il contratto di lavoro fascista, gli operai resistevano attraverso vari strumenti di lotta, dallo sciopero, alla «non collaborazione» organizzata all’interno del luogo di produzione. Ebbero allora origine le prime vere lotte sindacali, quelle organizzate che portarono gli operai a scioperare per la paga, per l’orario, per i cottimi.

E contro di essi, contro “i nemici della quiete produttiva”, si scatenerà il padronato. istituendo un corpo di sorveglianti, in maggioranza ex carabinieri. Oltre naturalmente all’azione repressiva che mise in campo il ministero dell’interno, allora retto da Mario Scelba, attraverso la celere. Furono inoltre licenziati centinaia e centinaia di attivisti comunisti per spezzare i legami tra l’organizzazione del partito nella fabbrica e la massa operaia. Ha scritto comunque Mario Tronti che “la tragedia che in quegli anni vissero i quadri comunisti aveva due aspetti, la perdita del posto e quindi anche della possibilità di combattere il padrone in una grande fabbrica, e la crescita dei dubbi sulla politica del partito”. Resta da comprendere effettivamente quanto a Taranto “la classe operaia”, sia oggi in grado, di assumere l’iniziativa di una lotta direttamente politica all’interno del luogo di produzione, che non sia una semplice lotta salariale organizzata. Ma che possa inserirsi in una reale prospettiva di battaglie contro il “sistema”, mettendo in crisi lo stesso meccanismo di sviluppo capitalistico.

Resta da capire anche, se la Fiom sceglierà di collocarsi su quella linea intelligente inaugurata qualche anno fa da Maurizio Landini, quella dell’altro modello di sviluppo, dell’alternativa possibile, o se a Taranto cadrà nel classico scontro tra strategia riformista e tattica rivoluzionaria in cui cadde il Pci negli anni’50. La restituzione delle tessere sindacali da parte di molti operai all’interno di quello stabilimento, dovrebbero essere un campanello d’allarme. Perciò la Fiom scelga da che parte stare. Se con chi pretende diritti. O se con chi impone i ricatti.

In fondo, qui a Taranto, si tratterebbe di fare come a Mirafiori e Pomigliano. Di far rispettare gli accordi sindacali scaturiti dalle lotte degli anni ’69-70. Quel che resta dello Statuto dei Lavoratori, che per gli operai una volta aveva lo stesso valore della Costituzione, perché quella era la loro Carta dei Diritti. Perché lì dentro ci sono anche le conquiste che nascevano dalle rivendicazioni per migliorare la qualità dell’ambiente di lavoro, e soprattutto il rispetto della salute, dentro e fuori la fabbrica. Come dire dall’Ilva all’agorà, appunto.

giornalista e attivista dell'ArchoTawer