Teste di casco

Violenza poliziesca e violenza sessuale

13 / 12 / 2013


Nella giornata del 12 dicembre scorso - data evocativa di misfatti statuali mai del tutto chiariti dopo quasi mezzo secolo - la cronaca contribuisce a togliere di mezzo qualche ambiguità maturata nella lettura dei comportamenti delle nostre forze antisommossa nelle recenti manifestazioni di piazza. Dopo il “bel gesto” di solidarietà messo in scena a Torino e Genova davanti al “movimento dei forconi”, togliendosi i caschi su esplicito invito dei manifestanti e lasciandosi andare a qualche abbraccio cameratesco - con ciò contribuendo in parte a chiarificare la matrice politica del movimento stesso - il nostro esercito da guerra interna è tornato alle sue consolidate abitudini di servizio di ordine pubblico caricando a freddo gli studenti in lotta a Milano e a Roma, con corollario di caroselli delle camionette nei cortili de La Sapienza, per l’occasione messi cortesemente a disposizione della Celere dal rettore Frati, che di andare in pensione non ne vuol sapere (a proposito: cosa ne è dell’inchiesta giudiziaria per aver favorito il figlio cardiologo in Università?).

Casco bene allacciato e manganello saldamente impugnato per il consueto rito che richiede sangue, punti di sutura, arresti. Niente di nuovo, tutto confermato. Un punto di novità, nella sua indubbia originalità, lo segna invece il segretario nazionale del sindacato di Polizia Coisp (indipendente – leggasi estrema destra) Franco Maccari. Personaggio che va inquadrato storicamente: da quando imperversava in tutte le televisioni del Paese all’indomani del G8 di Genova 2001 per spiegare che le forze di Polizia avevano agito nel massimo rispetto della legalità, che nelle caserme e nelle camere di sicurezza tutti i diritti dei fermati erano stati rispettati, che Carlo Giuliani era solo un piccolo delinquente che aveva avuto quello che si meritava, fino a quando inscenava un’indegna manifestazione, supportato da un manipolo di fascisti Doc, sotto le finestre del luogo di lavoro di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, in occasione della esecuzione della condanna (peraltro assai modesta) dei quattro poliziotti torturatori responsabili del suo assassinio.

Esperto di denunce e querele aveva trovato il modo di denunciarla per abbandono ingiustificato del posto di lavoro e manifestazione non autorizzata. Mentre aspettiamo con ansia che denunci i suoi colleghi di Torino e Genova per violata consegna supera ora se stesso denunciando la studentessa ventenne immortalata durate la manifestazione contro la Tav, a Susa nel novembre scorso, mentre le sue labbra si posano sulla visiera di un celerino. La denuncia è per oltraggio a pubblico ufficiale e violenza sessuale. Verrebbe da ridere, ma è meglio non farlo considerando che il carteggio è già sul tavolo di uno dei sostituti del procuratore Caselli, uno privo di senso dell’umorismo, che vede violenza organizzata ovunque. Meglio restare seri e, senza ricordare troppo i manganelli appoggiati ai genitali e i piercing ai capezzoli strappati con le pinze nella caserma di Bolzaneto, rimandarlo alle riflessioni dei movimenti in ordine alla recrudescenza della violenza contro il genere femminile.

L’idiozia di Maccari ci fornisce però anche l’occasione per tornare su quel blocco inscalfibile di contraddizioni, che ha le sue radici proprio nel 2001, costituito dalla perdurante mancanza di riferimenti certi in ordine all’uso della forza da parte delle nostre quattro forze di polizia in servizio di ordine pubblico, sulle regole d’ingaggio, sull’utilizzo delle armi, sulla riconoscibilità del personale operante attraverso numeri o sigle sulle divise, sulla mancata introduzione nel nostro ordinamento penale del reato di tortura. Contraddizioni che ci riguardano direttamente e attengono alla nostra determinazione a risolverle. A beneficio del segretario del Coisp resta l’ipotesi della coincidenza tra l’oggetto che riempie il casco del celerino della Val di Susa e la parte più intima del corpo del celerino stesso. Ma probabilmente per Maccari è un ragionamento troppo complesso.