Tendenze economiche e ricomposizione soggettiva: la sindemia come spartiacque? Intervista ad Andrea Fumagalli verso il G20 della finanza

7 / 7 / 2021

Ai margini del dibattito “next generation of social struggles: verso il G20 della finanza”, tenutosi a Sherwood Festival, Lorenzo Feltrin ha intervistato l’economista e attivista Andrea Fumagalli sulla fase economica e le tendenze che stiamo vivendo come movimenti sociali, a pochi giorni dalle mobilitazioni contro il G20 a Venezia.

Abbiamo visto due grandi spartiacque storici negli ultimi 15 anni: il primo è stata la crisi finanziaria del 2008, e ora la crisi pandemica nella quale siamo ancora immersi. In questo arco di tempo, quali sono state le tendenze che secondo te sono più degne di nota?

Credo che la crisi del 2007-2008 abbia evidenziato come quel processo di finanziarizzazione che doveva garantire una certa stabilità basata su un ordine economico - che possiamo riassumere con la supremazia dei mercati finanziari, con la capacità dei mercati finanziari di mettere in atto attività redistributive, peggiorando la redistribuzione del reddito ma al contempo dando linfa a nuove forme del processo di accumulazione – sia collassato. La crisi del 2007-2008 ha segnato quindi uno stop verso questa tendenza delle sorti progressive della globalizzazione e della finanziarizzazione. Ma già prima queste tendenze erano messe in crisi. Ad esempio, inutile dirlo, quest’anno è il ventennale del G8 di Genova e di tutto il movimento alter-global che ha caratterizzato quegli anni.

In Europa si è cercato di rispondere alla crisi con politiche di austerity e attraverso l’imposizione e l’accelerazione di processi di sfruttamento del lavoro, di smantellamento del welfare pubblico, di politiche fiscali regressive. Non hanno dato però i risultati sperati. Per questo si è tentato di porre rimedio con politiche monetarie espansive. Ha iniziato la Federal Reserve con l’elezione di Obama nel 2008, e poi, con un certo ritardo, anche la Banca Centrale Europea sotto la direzione di Draghi. Nel 2010-2011, dopo la crisi dei debiti sovrani e dopo che i tentativi di opposizione, rappresentati soprattutto dalla Grecia, sono stati zittiti, si è proceduto a politiche monetarie espansive per fare in modo che i mercati finanziari, in grado quindi di recuperare ingenti liquidità, potessero recuperare il loro ruolo di dispensatori di risorse sulla base delle gerarchie economiche dell’epoca.

Questo è stato un passaggio importante perché ha favorito nuovi meccanismi nei processi di accumulazione e di creazione di profitto. È nato e si è sviluppato quello che oggi chiamiamo “capitalismo delle piattaforme”, di cui nel 2007-2008 ancora non si parlava. C’era stato si un processo di innovazione tecnologica molto forte, ma lo sviluppo di queste nuove tecnologie, legate ai logaritmi, alle industrie dei big data e alle forme di comunicazione, ovvero il fenomeno per cui la vita viene messa direttamente a valore e non tramite l’attività lavorativa del capitalismo cognitivo, è stato evidenziato da questa crisi.

La situazione pandemica, che preferirei chiamare sindemica in quanto è correlata ai meccanismi di sfruttamento delle risorse e di espropriazione che il capitalismo grazie alle piattaforme è in grado di fare in maniera sempre più pervasiva, ha fatto capire che questo sviluppo, basato sul ruolo primario della finanza, non era sufficientemente adeguato per quelle che erano le esigenze dei settori trainanti dell’accumulazione capitalistica globale. Qui assistiamo ad una nuova svolta nella politica economica. Mentre la crisi del 2007-2008 ha fatto seguire una politica monetaria espansiva, l’uscita dalla crisi pandemica può essere caratterizzata da una ripresa della politica espansiva di tipo fiscale. Esattamente l’opposto delle politiche di austerity del 2008, che hanno stabilizzato un rapporto di potere tra capitale e lavoro e tra fasce della popolazione ricche e fasce della popolazione meno abbienti.

Ora bisogna vedere cosa succederà. Consideriamo il piano di Biden, che è stato approvato qualche giorno fa, di 1200 miliardi di dollari per la ripresa dell’economia statunitense, o il piano Next Generation Europe e i vari Piani Nazionali di Resilienza e di Ripresa che stanno per essere approvati al Parlamento Europeo. Tutti questi provvedimenti dovrebbero favorire una politica fiscale espansiva che però ha delle connotazioni completamente diverse da quella che i libri di testo economici definiscono come politica fiscale espansiva, ovvero un intervento di spesa pubblica statale, di finanziamento degli investimenti e di sostegno al reddito. Il Recovery Plan e il PNRR segnano una svolta della politica finanziaria espansiva: lo Stato, e in questo caso l’Europa, ricorre ai mercati finanziari per finanziari piani di investimento pubblico, ma lascia la gestione e la governance di questi investimenti alle imprese private e soprattutto alle grandi corporation, che si sono arricchite proprio grazie alla situazione pandemica.

Oggi le cinque società maggiormente capitalizzate della borsa di Wall Street (note sotto l’acronimo GAFAM), hanno ormai una capacità di condizionamento e di organizzazione delle tipologie lavorative di portata inusuale nella storia del capitalismo, da Adam Smith ad oggi. Queste società hanno usufruito di politiche fiscali nei confronti dei redditi di impresa molto favorevoli, e adesso possono usufruire degli investimenti pubblici che vanno a finanziare i processi di accumulazione privata. Il PNRR italiano e anche degli altri paesi europei, è caratterizzato da una filosofia dell’intervento pubblico che va sotto il nome di New Public Management. Significa applicare i criteri dell’efficientismo privato e liberale alla gestione di soldi pubblici. Non è niente di nuovo; la regola del capitalismo è sempre stata: quando ci sono dei guadagni e dei profitti questi vengono capitalizzati, quando ci sono delle perdite queste vengono socializzate.

Sei stato molto chiaro nel delineare le condizioni oggettive non particolarmente favorevoli in cui ci troviamo. So però che sei sempre, per impostazione, molto attento anche al versante soggettivo, in particolare sul fronte delle lotte che si contrappongono a queste tendenze all’aumento delle disuguaglianze economiche e quindi anche sociali. Dallo spartiacque della crisi finanziaria del 2007-2008 abbiamo visto emergere i movimenti di Occupy, abbiamo visto una serie di lotte sul posto di lavoro qui in Italia (logistica, rider, ma non solo). Abbiamo assistito inoltre ad un riaffermarsi delle lotte sul tema della riproduzione: da un lato ci sono state le lotte della popolazione surplus in tantissimi Paesi, dall’Africa, all’America Latina, dall’altro lato vi è stata una forte spinta da parte dei movimenti climatici e transfemministi. Quali sono le connessioni tra queste mobilitazioni, e come queste possono essere ampliate in modo da uscire dalla crisi in cui ci troviamo?

Penso che la situazione in cui ci troviamo sia caratterizzata da un’elevatissima complessità, anche dal punto di vista dell’espressione delle diverse ed eterogenee soggettività che si muovono a livello globale. C’è un paradosso che stiamo vivendo: la globalizzazione è stata ritenuta in grado di creare omogeneizzazione nell’organizzazione dello sfruttamento del capitale del lavoro. Per questo le modalità di lavoro in Italia (lavoro dei migranti, delle donne, della logistica, ma anche quello più tradizionalmente inteso delle fabbriche manifatturiere) diventavano non molto dissimili dalle condizioni di lavoro in Sud America, nei Paesi “di nuova industrializzazione” (Cina, India, Russia). Il livello di omogeneizzazione delle condizioni di sfruttamento ha dato origine a un’eterogeneità delle soggettività.

Penso che questo sia un punto problematico; è necessario un processo di ricomposizione. Se i movimenti post cristi 2008-2009, pensiamo a Occupy Wall Street, al movimento degli Indignados, ai movimenti del Nord Africa, dalla Tunisia all’Egitto, hanno tentato di ricomporre all’interno di un quadro rivolte e lotte contro le condizioni che vivevano in quel momento, oggi ci troviamo davanti agli albori di nuove forme di conflitto. Queste nuove forme di conflitto sono più particolareggiate, più specifiche, e non interessano solo la sfera del lavoro ma la vita nella sua complessità: i movimenti per i diritti civili, LGBTQ, i movimenti transfemministi, che non sono solo lotte per i diritti civili ma anche di revendicazione e di autodeterminazione economica. Pensiamo inoltre a quello che sta succedendo in Cile negli ultimi tempi, che ha a che fare anche con le modalità di governance, pensiamo alle lotte che hanno interessato i Gilet Jaunes in Francia, i movimenti della logistica in Italia, e altri movimenti che si muovono sul discorso del diritto al reddito e del basic income che si sono sviluppati negli Stati Uniti, in Canada e anche in Europa.

Siamo in una fase embrionale, in quanto ci sono una serie di soggettività in lotta che necessitano di una ricomposizione; il problema è che il soggetto rivoluzionario è un soggetto differenziato e molteplice. Oggi un elemento comune, pur nelle diversità delle forme di espressione e di partenza di condizione (dal lavoro migrante, al lavoro cognitivo ipersfruttato, alle lotte degli indigeni), è la lotta per un nuovo tipo di welfare. Welfare non nel senso anglosassone del termine, ma nel senso latinoamericano, ovvero il bien estar, lo stare bene, che significa essere padroni della propria vita e avere diritto alla scelta. I movimenti transfemministi sono all’avanguardia in questo senso, perché quando parlano di reddito di autodeterminazione intendono creare le possibilità per cui ogni donna, in primis, ma anche ogni uomo, possa autodeterminarsi sulla base della propria soggettività e della ricchezza che ognuno di noi ha nell’agire. È una lotta contro l’individualismo comportamentale, che riconosce le persone all’interno di una sfera solidale-cooperativa.

Oggi il capitalismo delle piattaforme, che è il modello di organizzazione e di estrazione di valore dominante a tutte le latitudini del globo, sfrutta la cooperazione sociale e la nostra compartecipazione. I soldi che fanno Amazon, Google, etc, sono basati sul fatto che noi siamo i primi produttori del loro valore. Si ritorna un po’ al discorso che si faceva al tempo del May Day, per cui la precarietà non è una condizione da “sfigato”, ma è una condizione di ricchezza. Il precario deve farsi valere e riconquistare gli strumenti perché questa sua potenzialità possa liberamente esprimersi. Le lotte sul welfare sono la frontiera su cui noi dovremmo agire. Qui si apre però la domanda: qual è il modello di welfare che permette di autodeterminare le nostre scelte e di bien estar? È indicativo, ad esempio, che nelle ultime mobilitazioni cilene ha fatto colpo lo slogan “Non è depressione, è capitalismo”. Ci fanno pensare che il Covid, la pandemia, ci porti all’individualismo e alla depressione, perché vogliono distoglierci dal fatto che questa situazione è figlia del modello di sviluppo oggi dominante, e che non viene messa in discussione.