Taranto - Lottare è amore

“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.” ("Le città invisibili" di Italo Calvino)

4 / 12 / 2012

Queste riflessioni nascono dalla mente di un tarantino emigrato ed è una premessa, temo, fondamentale. Nascono mentre penso alle discussioni che ormai tutti i giorni faccio con chi non essendo di Taranto mi chiede cosa stia realmente accadendo in quel luogo, fino a pochi mesi fa, quasi sconosciuto. Perché è difficile, nella crisi che viviamo, trovare una soluzione al ricatto del salario che stritola una città. E allora, sia i meglio informati che i meno, giungono tutti ad una conclusione forse ovvia, forse auspicabile, forse quasi reale: serve un compromesso che permetta di salvaguardare i posti di lavoro e che consenta, a quel mostro sputa fuoco e veleno che è l’ILVA, di inquinare meno. Questo è forse anche quello che il governo dei tecnici prova a fare, cioè, scavalcando la magistratura, prova con la politica a mediare tra gli interessi del gruppo Riva, quelli dello Stato che non può permettersi di perdere la più grande industria siderurgica d’Europa e infine, prova a salvaguardare la faccia e ad illudere i cittadini di Taranto che tutto si risolverà e che si può produrre acciaio senza inquinare (ci credo poco!). sarebbe il quadro ideale per mettere tutto a posto e ritornare lì dove ci si era lasciati il 26 luglio, barattare un po’ di salute in cambio dei grandi interessi dell’acciaio, assicurando un tozzo di pane, neanche insipido, ma abbastanza goloso nell’affamato e senza futuro sud d’Italia. Credo sia questa la strada che si sta provando a battere.

Il problema che mi pongo però ogni volta che la discussione arriva a questo punto è forse anche semplice e un po’ banale: ora che l’Ilva ha buttato giù la maschera e non è più quell’istituzione salvifica ed inattaccabile che si credeva fino a qualche mese fa, ora che anche lo Stato ha chiaramente scelto da che parte stare e chi tutelare, ora che anche chi lavora in fabbrica si rende conto di quanto invece sia indigesto e salato quel meraviglioso pane che arriva ogni 27 del mese, cosa voglio? O meglio, ora che sto lottando, cosa desidero? Dove voglio arrivare?

E allora, quella mediazione auspicabile dai più salta perché ora che posso partecipare anche io al futuro di questa città, voglio conquistare ciò che di meglio esiste, cioè quello che desidero. E non desidero che il paesaggio offra ancora quelle ciminiere sullo sfondo e non desidero neanche che tanti amici, tanti fratelli e tanti parenti varchino tutti i giorni per 8 ore quei cancelli. E non desidero che “scendano” per i turni di notte. Ma soprattutto non voglio una città industriale. Perché se dobbiamo essere noi a scegliere, Taranto deve essere quello che desideriamo, e non credo che ce ne sia uno solo dei suoi abitanti che vorrebbe che questa terra sia il più grande polo industriale d’Italia.

Se quindi questa grande industria negli ultimi 60 anni ci ha distrutti, ci ha tolto tutto, tra cui la libertà di decidere il nostro destino, perché dovrei auspicare un compromesso? Perchè così chi ha acceso un mutuo possa pagarlo interamente per poi poter morire in pace nella sua casa dopo 2 mesi di pensione? Perché magari con qualche accortezza in più ci si ammalerà un po’ meno e magari verrà costruito un bel polo oncologico (ovviamente privato dopo le dichiarazioni di Monti degli ultimi giorni)? Per aspettare altri 60 anni sperando che qualcosa migliori, che si viva un po’ meglio? No, mi dispiace, troppo poco.

E allora vi dico io la città che desidero. Vorrei una città meno incarognita, meno prevaricatrice, meno difficile, dove per viverci non devi per forza fare la scorza dura ed imparare ad arrangiarti ed accontentarti sempre, anche delle piccole cose. Voglio una città che non ti costringa a 18 anni a fare i bagagli e a non rimpiangere mai di averli fatti.

Desidero una città frizzante come il suo mare, dove siano i suoi cittadini ad essere la parte propulsiva e non che siano le poche rovine di una Magna Grecia ormai dimenticata che rimembrino ai meno distratti i fasti di una volta. Vorrei una città che esprime cultura, dove ci siano i teatri pieni e i concerti, dove l’università sia emancipazione e non un titolo cartaceo da avere. Desidero una città in cui la socialità sia sana, sia possibilità di crescita e di miglioramento per tutti. Desidero una città che viva del suo mare, delle sue bellezze, del suo museo archeologico, della sua terra un tempo fertile, ma soprattutto della voglia della sua gente di riconquistare la dignità che è stata calpestata. E soprattutto voglio che paghi chi ci impedisce questo. E allora vorrei prendermi i soldi che la famiglia Riva ha fatto sulla nostra pelle, per bonificare quei chilometri di merda, con gli operai che ieri producevano acciaio, che inizino a smontare bullone dopo bullone quella fabbrica di morte . Vorrei che quel denaro che hanno accumulato distruggendo Taranto, torni indietro, così da decidere noi che fare della nostra terra.

E allora quando decido di lottare devo ambire a realizzare i mei desideri, non posso e non devo accontentarmi. Accettare il compromesso al ribasso che il decreto legge “salva-Ilva”del Governo significa perdere, significa smettere di lottare e non provare a costruire la città che desidero. Voglio invece scegliere il meglio per la mia terra e per la sua gente, come fanno gli abitanti della Valle Di Susa. E ora mi è più familiare la loro rabbia, la loro determinazione, ora la comprendo meglio, perché è anche la mia ed è quella dei fratelli e delle sorelle che mi sono accanto in questa lotta. Loro più di me, che a Taranto hanno deciso di restarci, per scelta o per imposizione. Ed è a loro che rivolgo le ultime righe di questo sfogo, perché ho capito che cosa significa lottare: ed è realizzare i propri sogni ed i propri desideri.

Lottare è amore, per se stessi, per la propria comunità, per la propria terra. E’ questo folle sentimento che ci terrà sempre stretti in prima linea per cercare di invertire il futuro che qualcun’ altro vuole scrivere al posto nostro.