Taranto 27 settembre. Vista da lontano

29 / 9 / 2012

Una delle espressioni più in voga tra i ragazzini alle prese con le prime delusioni d’amore, è un vecchio adagio, pare anonimo, secondo cui il vero amore è quello non corrisposto. Ognuno di noi ama e odia quello che può, quando odio e amore sono inesprimibili, repressi, diventano al massimo silenzio o rancore, dolore in ogni caso. Spesso è una questione di adattamento, di appartenenza magari ad una comunità, una volta ad una classe, ad un gruppo, ad una famiglia. Conosco tantissimi tarantini che hanno lasciato la propria città, la propria terra, una parte della storia della loro vita. Io sono uno di loro, ne conosco tanti, tantissimi, come le ragioni che gli hanno spinti ad andare via. Qualcuno ha mollato per sfuggire ai propri errori o a delle delusioni, qualcuno ha “voluto cambiare vita”, moltissimi sono andati via per cercare fortuna, alla vecchia maniera per intenderci. Io che vivo “fuori” da pochi anni quando ho potuto ne ho accolti tanti e diversi. Qualcuno effettivamente si è sistemato, gente che lavora, che ha fatto famiglia o ci sta provando, altri che hanno mollato quasi subito, altri invece sono ancora alla “ricerca”. Dopo tutto siamo una comunità nella comunità, poco omogenea di fatto. Come tra i Due mari, anche fuori i tarantini si conoscono tutti ma non sempre si frequentano, nella città dove vivo adesso siamo veramente tanti, ovunque, ci conosciamo ma appunto non siamo tutti amici. Negli ospedali, nelle scuole, nei negozi del centro, nelle caserme, nei tribunali da una parte e dall’altra dei banchi, nelle cooperative, un po’ dappertutto. E’ una storia questa che non finirà mai di stupirmi. Credo che questa sensazione sia avvertita diffusamente da tutti i fuorisede che da anni ormai vivono ad esempio a Roma, ma anche nelle altre principali città del nord, penso ad esempio a Milano, Padova, Torino, soprattutto Bologna, vero e proprio porto sicuro per vite in tempesta.

Ai tempi del liceo purtroppo ci facevamo poche domande, oggi sono passati più di 10 anni dalla maturità e mi rendo conto di cosa eravamo. In città l’università era un miraggio, i più poveri o i più “sfigati” finivano a Lecce o a Bari, tutti gli altri subito via verso il nord. Soprattutto i “figli di” o “i figli dei”: -Mio padre ha fatto medicina a Roma e ci vado anche io, mia mamma ha studiato a Parma, mio fratello sta a Perugia, e così via. Tantissimi. Io sono andato via piuttosto tardi rispetto agli altri, ma quando ho deciso di andar via anche io l’ho fatto per motivi di studio, poi qui mi sono trovato bene, tra alti e bassi e credo che ci rimarrò come minimo per molto tempo. Il fatto di avere più possibilità per guardare avanti non è un dato da sottovalutare, sicuramente è più forte rispetto ad ogni “saudage”. Certo pensando alla mia città e guardandomi intorno in questi anni, ho acquisito alcune consapevolezze che sono state condivise, non solo tra i fuorisede, ma anche tra la gente delle città in cui adesso vivo e viviamo. Gli “aperitivi alla diossina” fatti in contemporanea praticamente in tutta Italia con dibattiti e proiezioni, l’interruzione a Bologna del reclutamento propagandistico di giovani ingegneri all’interno della facoltà, le contestazioni sotto il ministero quando ancora c’era la Prestigiacomo. Giornate a fare striscioni e ad accendere fumogeni nelle quali spesso ci tiravamo dietro i nostri coinquilini e i nostri amici, magari gente di Trento o Reggio Emilia. Eravamo così pochi e ci sentivamo così piccoli quando questo “sistema Ilva” sembrava un muro d’acciaio insuperabile. Per questo guardare oggi una grande/piccola città che è vero si divide, ma soprattutto finalmente si interroga su quello che le accade intorno, mi mozza il fiato e mi fa bollire il sangue.

“Non c’è spazio per proposte al ribasso da parte dell’Ilva circa gli interventi da svolgere e le somme da stanziare. I beni in gioco, salute, vita e ambiente e anche il diritto a un lavoro dignitoso e non pregiudizievole per la salute di alcun essere umano, lavoratore compreso, non ammettono mercanteggiamento”. Così recita una parte del documento depositato in Cancelleria dal Gip Todisco che risponde alla proposta tanto ridicola quanto significativa che ha fatto l’azienda per continuare a produrre bluffando sull’ambientalizzazione. Oggi la Todisco, una donna che di mestiere fa il magistrato, per qualcuno è un’ estremista incosciente, per altri invece è un’eroina, addirittura quasi un totem per gli ambientalisti tout court che, per usare una metafora calcistica, in un momento così delicato della partita più importante della storia della città degli ultimi 70 anni, praticamente sembrano delegare all’arbitro il compito di far vincere la propria squadra del cuore, e per l’arbitro hanno deciso di tifare. Un modo di pensare pericoloso, coerente con la storia recente più mediocre di questa parte di Paese, quella secondo cui “prima o poi qualcuno arriva a farci giustizia, a sistemare le cose”. Il principio stesso che ha portato a Taranto quel tipo di industria negli anni ‘60, il principio stesso che ha rafforzato la criminalità organizzata e ci ha portato fino al fenomeno Giancarlo Cito. Credo sia proprio questo pensiero che ci ha rovinati e ha portato Taranto ad essere la città che è, ovvero una città di operai, marinai disoccupati, gente che si arrangia, qualche fortunato di famiglia e tanti emigrati. I pensatori progressisti più eleganti hanno in pratica definito questa composizione come “monocultura dell’acciaio”, un’espressione che probabilmente nasconde considerazioni molto più complesse. Quando ero uno studente ed ero in grado di organizzare il mio tempo, insieme ad altri compagni caricavamo le auto e si tornava a Taranto anche per un giorno, per non perdere certi appuntamenti. Quello di oggi era proprio uno di quegli appuntamenti da non perdere ma il lavoro, il precariato, rendono sempre più difficile coltivare così grandi speranze e desideri, soprattutto a distanza.

La città è divisa, gli uni contro gli altri, per semplificare, c’è chi mette al primo posto la produzione e chi la salute, anche se le sfumature tra le due parti sono tantissime. Di certo però bisogna rifiutare il discorso che qualcuno vuole far passare, cioè che siamo e sono tutti uguali, che gli operai sono tutti uguali, tutti allo stesso modo vittime, del padrone e del salario. Una solfa da II internazionale operaia in salsa jonica, tanto per capirci. Non è uguale chi nell’azienda ha coltivato fino a poco tempo fa l’orticello della propria tranquillità quando non dei propri interessi, rispetto ha chi ha subìto mobbing, minacce e solitudine per tanti anni. Non solo gli operai, ma anche i cittadini non sono tutti uguali, quello che ha detto e scritto la Todisco non viene dal nulla. Qualcuno, anche noi nel nostro piccolo, l’avevamo detto molto prima, e molto prime di questo che adesso è un casino, avevamo provato anche a fare qualcosa perché tutto questo emergesse finalmente. Ormai è chiaro che il momento, questo momento è nostro e va riempito col nostro agire e le nostre pratiche, guardando al futuro sicuramente ma senza dimenticare il passato, i percorsi seguiti, i silenzi e gli uomini che hanno portato alla degenerazione una intera città e i suoi abitanti. Quindi che ci si metta tutti in fila dietro al treruote, chi ha sbagliato si ricreda pure, ma di questi tempi anche la solidarietà non è in svendita. Qualunque sarà la Taranto del futuro, non deve poter essere né quella dei Riva, degli Archinà, dei Ferrante e dei Clini, né quella della Nato e della Marina Militare, il treruote lo sa.