Dal Laboratorio Insurgencia di Napoli

Sunrise

Riflessioni intorno e dopo il 14 dicembre

30 / 12 / 2010

1. La mobilitazione dello scorso 14 dicembre a Roma si presenta davanti a noi come un’esplosione sociale, un principio di insorgenza reale nel paese che finalmente ci può portare ad individuare in maniera più compiuta e definita l’avvio di un processo di resistenza contro la crisi.

Dopo le mobilitazioni dell’autunno del mondo del lavoro, utili più per “rappresentare” nella definizione classica della categoria intesa come testimonianza, l’esistenza di un’opposizione alle politiche di austerità, piuttosto che essere motore del conflitto, la mobilitazione degli studenti degli ultimi mesi ha messo in moto quelle micce che finalmente sono scoppiate il 14 dicembre nel giorno del voto di sfiducia al governo.

Si è palesata in piazza la rabbia di una generazione. La composizione di chi era in piazza il 14 dicembre ci parla dell’elemento generazionale come tratto caratterizzante. Esso si esprime sia nella radicalità, sia nella composizione reale della piazza - soprattutto Piazza del Popolo – sia intesa in termini sociologici. Un segmento generazionale si ribella ad un esistenza vista come un continuo processo di sottrazione. La precarietà diffusa ed immanente, l’assenza di welfare, l’espulsione dal mondo della formazione, l’inadeguatezza del presente rispetto alle aspirazioni soggettive, sono elementi di comune in quello spaccato sociale che si è espresso in piazza il 14 dicembre ma che vive in tutto il paese.

Quando intendiamo l’elemento generazionale stiamo ben attenti ad intendere la composizione sociale di questa esplosione di movimento legata esclusivamente alla componente studentesca.

Si, c’erano tanti, tantissimi studenti, come le recenti mobilitazioni contro il DDL Gelmini hanno dimostrato, ma senza dubbio la geografia di quello spaccato sociale trova cittadinanza nel mondo della precarietà diffusa, in quella legata al lavoro immateriale e cognitivo, piuttosto che in quella inserita nel mondo del lavoro in anfratti residuali sotto il ricatto del lavoro nero ed occasionale. Senza dubbio pienamente postfordista.

Una generazione che si ribella non sta solo nelle scuole e negli atenei, ma vive le metropoli, subisce quotidianamente la trasformazione del mercato del lavoro, insomma quella parte del paese che da anni evochiamo e che finalmente si è palesata. Questo tipo di composizione, che come detto assume in sé l’elemento generazionale come caratterizzante, ci dice anche che la spinta propulsiva verso il conflitto sociale probabilmente arriva in maniera relativa dal mondo del cognitariato in formazione legato al mondo dell’accademia, quel mondo che si accontenta di far salire Bersani sui tetti e risulta marginale nella composizione sociale del 14 dicembre.

Siamo davanti alla prima vera apparizione di una forma di conflitto sociale aperto contro la crisi, contro le politiche di austerità, contro quelle ricette sempre uguali del capitalismo globale ed imperiale. Siamo certi che non serve nessuna apologesi di ciò che il 14 dicembre ha rappresentato, ma serve piuttosto interrogarsi intorno a quello che rappresenta quella piazza per il presente ed il futuro del conflitto sociale nel paese.

Non sappiamo se siamo all’alba di un nuovo movimento, ma senza dubbio benediciamo laicamente quest’alba.

Per anni abbiamo ascoltato e talvolta ribadito come i processi di governance globale e macroregionale avrebbero messo i genitori contro i figli, le nuove generazioni impossibilitate a produrre un miglioramento delle condizioni materiali di vita rispetto alle generazioni precedenti, frutto di una rottura delle garanzie sociali nel paese e di stravolgimenti delle condizioni socio economiche dovute alla ristrutturazione dei mercati globali e del mercato del lavoro che avrebbe prodotto conflitti. Mentre la parte più giovane del paese si ribella non è certo la sola che subisce la crisi. Quel processo di sottrazione costante, nella vita, nel reddito, negli affetti, nel tempo libero, nella possibilità di scelta del proprio futuro caratterizza la ribellione di una generazione. Intanto le generazioni precedenti, “i genitori” fanno i conti con la distruzione definitiva delle conquiste sociali dei cicli di lotta degli anni ’60 e ’70, fanno i conti con la progressiva espulsione dal mercato del lavoro inteso in senso classico e fordista e con lo smantellamento di quel welfare state che ha garantito in questi anni la sopravvivenza delle generazioni più giovani agendo una funzione di ammortizzatore sociale. Davanti alla crisi non ci possono essere mediazioni che tengono. Non possono esserci perché non esiste nessuna “soft” governance per applicare le politiche di austerità necessarie a garantire la rendita e le banche. Siamo nel pieno dell’era della “hard” governance tratto caratterizzante della gestione globale della crisi.

2. Questo spaccato ci consegna un primo dato : quello della necessità di costruire percorsi di ricomposizione sociale, intesa in termini generazionali che diventa al tempo stesso ricomposizione di classe. Se i giovani si ribellano aprono spazi nella società nuovi in cui i frammenti della moltitudine possono provare a costruire una dimensione di comune. L’eccedenza prodotta da un segmento generazionale può generalizzarsi nella società per osmosi agevolando i processi ricompositivi.

Abbiamo bisogno oggi di costruire un ponte generazionale davanti alla crisi in cui, senza dubbio, una parte ha già battuto il primo colpo. Ed è proprio questa la funzione che le realtà autorganizzate, soprattutto i centri sociali, particolarmente capaci di intercettare i bi/sogni delle generazioni più giovani, devono provare a svolgere. Agevolare i processi provando a costruire ponti, che significano reti sociali, contaminazione tra generazioni in lotta contro la crisi, avvio di percorsi ricompositivi capaci di leggere e stare pianamente in movimento senza nessun tipo di pretesa di imbrigliarlo ed addomesticarlo nel nome della produzione di “rappresentanza”. Un ponte generazionale che dovrebbe costruire relazioni all’intero di dinamiche di conflitto sociale tra generazioni diverse. La presenza alla manifestazione del 14 dicembre dei comitati di Chiaiano e de L’Aquila ha significato in termini sostanziali e magari non numerici, questo tipo di passaggio. La partecipazione e la condivisione delle pratiche e degli obiettivi, nonché dello stesso percorso del 14 dicembre, da parte dei comitati territoriali ci consegna un primo ponte che immediatamente si è costruito nelle lotte.

La composizione di esperienze come i comitati territoriali vive in larga parte di cittadini non più giovanissimi disposti però a connettersi con le giovani generazioni in rivolta davanti alla crisi.

È una disponibilità, una connessione che ci da una grande forza evocativa e ci indica ad esempio nelle sanzioni dal basso alla sede della Protezione Civile con le uova ma anche con le vetrine spaccate una strada di ricomposizione possibile a partire da istanze concrete che si intrecciano.

La crisi non la vogliono pagare nemmeno loro…non solo i giovani.

Il terreno della ricomposizione è un terreno che ci pone nel lavoro politico immediatamente dopo le manifestazioni del 14 dicembre, in cerca di quelle micce capaci di essere “adeguate” per far ripartire il conflitto in quella parte di società ancora passiva davanti al baratro.

Questo tema non può riportarci alla discussione intorno al mondo del lavoro cosiddetto classico – in dicotomia con la definizione di atipico per indicare il precariato giovanile – ed alle sue centrali organizzative. La discussione sulla forma sindacale, sulla incapacità di avere il necessario dinamismo davanti alla crisi, la scelta di campo di quelle stesse centrali che oggi più che mai non possono navigare nell’ambiguità, ci sembra quanto mai attuale.

In Italia esiste il sindacato meno lungimirante d’Europa, incapace di proclamare lo sciopero generale e lontanissimo da quella generazione che si ribella. Una scelta, quella della Cgil di Susanna Camusso che già dai primi mesi del suo mandato appare chiara e testimonia un’ulteriore arretramento del principale sindacato italiano rispetto agli ultimi anni. La crisi incombe, o si è contro la crisi e possibilmente uniti, oppure si resta in una dimensione di compatibilità con la gestione delle politiche di austerità. Zone grigie non possono esserci. Ebbene ci pare proprio che la linea decisa dalla Camusso sia quella della compatibilità con le politiche di austerità, sia quella della salvaguardia dell’esercizio di lobbing che ha caratterizzato il sindacalismo in questo paese negli ultimi decenni, lasciando spazio alla politica dei sacrifici e del “rimbocchiamoci le maniche”.

Se affrontiamo la discussione sul 14 dicembre a partire dalla caratterizzazione di una generazione in rivolta e definiamo la necessità di agire percorsi di ricomposizione sociale e generazionale contro la crisi non possiamo non partire dal dato dell’inadeguatezza e dell’insufficienza delle centrali sindacali in questo paese.

Stesso discorso va inteso per i partiti del cosiddetto centrosinistra, i quali più che l’alternativa oggi sono la faccia un po’ meno grottesca e criminale dell’attuale governo. In sostanza, l’appello ai sacrifici, l’appello al “rimboccarsi le maniche”, del Partito Democratico cela dietro slogan talvolta pallidi e sterili una verità inconfutabile : davanti alla crisi non ci sono alternative se non quelle antisistemiche capaci di rinnovare la società e coraggiose di intraprendere nuove sperimentazioni.

Il Pd non ci sembra nè coraggioso né capace di rinnovare, si colloca nello stesso quadro di compatibilità dei governi globali.

3. Il dato delle pratiche senza dubbio non può non attraversare la riflessione intorno all’alba del 14 dicembre. Anche qui siamo certi che l’amore per l’estetica dello scontro appartenga a tempi passati e troppo spesso diventi il feticcio delle liturgie novecentesche di analisi politiche lontane dal presente. Ma partiamo dal dato che sebbene sui territori negli ultimi anni ci sono state espressioni di conflitto sociale ascrivibili alle pratiche di disobbedienza sociale diffusa, anche radicale come le lotte ambientali campane c’hanno insegnato, queste pratiche non si affermavano in questa dimensione, con questi numeri e con questa condivisione, da anni.

Chiunque sia stato alle manifestazioni del 14 dicembre a Roma sa bene che tutto quello che è avvenuto quel giorno vivesse di grandissima condivisione delle centinaia di migliaia di persone che erano in piazza. Dal book block alle vetrine in frantumi della sede della Protezione Civile, dai sacchetti di monnezza tirati a Palazzo Grazioli alla volontà di arrivare prima sotto al Senato e poi in Via del Corso da Piazza del Popolo, tutto è stato vissuto in piena sintonia dalla piazza.

L’immagine che ci pare condensare questa visione ci sembra quella degli applausi di tutta Piazza del Popolo a chi rispondeva alle cariche della polizia. Si voleva assediare Montecitorio, si è detto ed annunciato e ci siamo trovati oltre 100 mila persone disposte a farlo.

Dopo anni di mobilitazioni nazionali in cui si è provato a far pesare la composizione delle piazze, i numeri, la capacità evocativa, oggi siamo forse davanti a delle pratiche adeguate alla fase che viviamo nel paese. Già perché talvolta sembriamo avere una difficoltà, forse comprensibile, ad indignarci per il degrado civico, politico ed etico che viviamo in questo paese. Siamo davanti ad un presidente del consiglio mafioso, criminale, che ha instaurato la difesa di una cricca di affaristi amici suoi, che compra apertamente e pubblicamente i voti di consenso al suo governo…e ci pare finalmente che la piazza del 14 dicembre abbia dato una risposta congrua.

E’ l’articolazione dell’odio che si esprime dopo il voto di fiducia a Berlusconi.

D’altronde l’emergenza democratica nel paese ha già vissuto l’apparire e scomparire di fenomeni sociali e movimenti negli ultimi anni. Dai meet up al popolo viola, fenomeni interessanti per il carico di denuncia e di allarme che portavano ma incapaci di produrre scossoni tanto da finire con l’assopirsi o l’abbandonare la scena, così come incapaci di produrre alternativa. Crisi, corruzione, connivenza con i poteri criminali, restrizione della democrazia, aggressione al territorio ed all’ambiente, smantellamento del welfare, dismissione di interi settori della produzione, precarietà…austerità, ci pare che oggi il livello dello scontro si sia un pochino riequilibrato.

Abbiamo provato come realtà autorganizzate a lanciare un’idea, quella della sfiducia dal basso, abbiamo agito il conflitto organizzato che ha rappresentato una parzialità di quel corteo. Si è prodotta un’eccedenza ed ha scelto le sue pratiche. Non ci siamo trovati davanti a poche decine di fulminati, ma a migliaia di persone che non sono scappate e che volevano andare sotto i palazzi del potere. Un’eccedenza che fortunatamente ha scavalcato le aspettative.

Il compito delle realtà autorganizzate è quello di interpretare i conflitti e costruire condivisione nelle pratiche.

La Fiom sbaglia a pensare che le pratiche espresse il 14 dicembre a Roma siano frutto di minoranze ed appartengano ad una marginalità. La stessa Fiom, che a differenza della Cgil non è ascrivibile a quella dimensione di compatibilità con la gestione delle politiche di austerità, ha la capacità di comprendere la necessità di stare uniti contro la crisi ed è per questo che dovrebbe interrogarsi rispetto alla composizione sociale delle manifestazioni romane, intorno a quel processo di condivisione delle pratiche che c’è stato.

Noi veniamo dalle esperienze dei centri sociali, crediamo nella disobbedienza sociale come pratica collettiva e condivisa, pensiamo che la radicalità delle pratiche debba essere commisurata alla riproducibilità moltitudinaria delle stesse.

Il 14 dicembre ci siamo trovati nel nostro mare quindi lasciamo le polemiche sulle pratiche ad altri.

Resta il dato, che soprattutto nel mondo delle scuole e delle università chi oggi prende le distanze da quelle pratiche farebbe bene a misurarsi con la capacità mitopoietica delle stesse proprio nella parte più giovane di una generazione in rivolta. Anche in quel campo, nei movimenti studenteschi, c’è chi ha scelto di non essere compatibile con la crisi e dovrà spiegare al movimento, tra gli studenti le sue prese di posizione sulle pratiche.

Resta il dato che quell’esplosione sociale è un’epifania del nuovo e non un funerale del movimento studentesco come magari Maroni si augura. La nuova genesi però dipenderà dalla capacità dei processi di movimento di riuscire a condividere pratiche e contenuti seguendo un processo ricompositivo, tenendo presente che nulla si ripete mai uguale a se stesso, né tantomeno nulla si ripete mai uguale per forza, e che le pratiche devono tenere sempre conto della dimensione moltitudinaria dell’agire.

4. Davanti all’alba di una nuova fase però siamo certi che ci sia bisogno di una cornice politica in grado di interpretare i conflitti, costruire reti, connessioni, che stia in movimento e non si eregga a rappresentante di esso mantenendo la sua caratteristica nell’incompatibilità davanti alla crisi.

La rete Uniti contro la crisi fino ad ora è stato sostanzialmente un ambito di relazioni tra strutture più o meno organizzate, alcune molto grandi come la Fiom che ha sempre mantenuto la sua autonomia, ed altre molto più piccole. L’intuizione di Uniti contro la crisi sta nella sua definizione letterale : costruire percorsi di ricomposizione davanti alla crisi incompatibili con le politiche di austerità e capace di costruire alternativa dal basso….in pratica uniti – contro – la - crisi.

È Uniti contro la crisi che ha avuto l’intuizione della costruzione del 14 dicembre e sempre le realtà, tra cui anche noi, che ne hanno preso parte a lanciare l’idea dell’assedio dei palazzi e dell’utilizzo di simboli come il book block, i sacchetti di monnezza napoletani, i caschetti gialli degli aquilani, il rifiuto dei divieti.

Oggi senza dubbio è aperta la riflessione su cosa può essere lo spazio politico di Uniti contro la crisi. Senza dubbio esiste la necessità di un ambito relazionale tra diversi, talvolta diversissimi, che si caratterizzano per la scelta di essere incompatibili con il governo della crisi e che scelgono la strada dell’unità e della ricomposizione. Un ambito tra diversi, senza nessuna pretesa di costruzione di omogeneità, perchè resteranno tante le cose che ci separano e le letture che non ci accomunano, ma in questa fase cogliamo tutti la necessità di percorsi ricompositivi davanti ad un attacco epocale ed aggressivo.

Ma quell’ambito deve vivere innanzitutto di contenuti e di capacità di costruire alternativa.

Per noi il 14 dicembre è Uniti contro la crisi, caratterizza lo spazio politico, dal primo minuto all’ultimo, dagli studenti al precariato giovanile, dai comitati di L’Aquila e Chiaiano agli operai della Fiom, dagli occupanti casa ai centri sociali, dai sacchetti di monnezza agli scontri di Piazza del Popolo. È Uniti contro la crisi perché è il protagonismo sociale che si afferma, è la capacità di costruire quei ponti generazionali e sociali di cui sopra, è la volontà e l’irriducibilità davanti a chi vorrebbe farci pagare la crisi in termini economici, sociali ed ambientali. Uniti tra diversi, contro la crisi e senza spazio di ambiguità, non omogenei ma con la volontà di costruire alternativa comune.

Le aspettative e le ambizioni devono essere all’altezza della fase e della sfida.

5. La costruzione di alternativa è l’ultima parte del nostro ragionamento.

Se il 14 dicembre è un’alba di una nuova fase bisogna chiedersi ovviamente per andare dove.

Le resistenze che si sono prodotte in questi anni davanti alle varie crisi che hanno colpito il mondo, le macroregioni come l’Europa, o singoli stati come la Grecia o l’Argentina alcuni anni fa, hanno prodotto movimenti diversi con prospettive diverse.

L’esplosione sociale del 14 dicembre deve necessariamente essere in grado di costruire alternativa davanti alla crisi, altrimenti…c’e’ solo il “no future” !

Le vicende greche ci raccontano come una cartina di tornasole l’importanza della capacità di costruire alternativa. Dal governo Karamanlis a quello Papandreu non è cambiato assolutamente nulla, anzi le politiche si austerità si sono via via andate facendo più dure ed il prezzo della crisi è diventato sempre più salato. Le manifestazioni greche fanno impazzire gli amanti dell’estetica dello scontro per il livello di radicalità delle piazze. C’e’ da dire che nonostante quasi tre anni di conflitto sociale altissimo, di alcuni morti nelle strade come Alexis, di una interminabile scia di scioperi e blocchi del paese nulla è stato costruito in termini di alternativa. Un’alternativa che non può essere il comunismo novecentesco.

La risposta greca alla crisi resta sostanzialmente il no future. Resistenza per resistenza, scontro per scontro, ma il capitalismo continua a vincere. Altro che smash capitalism !

Risposte diverse vanno ricercate nelle costruzione di modelli di alternativa che partano dal basso, dalla necessità di costruire una dimensione del comune nella società. Il pensiero va alle vicende argentine di qualche anno fa, alle esperienze delle fabbriche a bajo control obrero, l’esperienza dei piqueteros così simili ai disoccupati organizzati napoletani, piuttosto che ai tanti esperimenti di welfare autogestito dai club dei barrios con le monete alternative a sistemi solidaristici su base territoriale capaci di essere modello di sistema contro la crisi.
Ogni storia è diversa dall’altra e non si ripete mai uguale a se stessa come abbiamo già detto.
I movimenti devono trovare la strada delle alternative commisurandosi al territorio in cui sono ed in cui vivono.
Non avremo mai la Fiat autogestita…e da un certo punto di vista diciamo:…”meno male !”

Ma alla Grecia preferiamo l’Argentina !

D’altronde rivendichiamo di essere tra i portatori di una rottura delle subalternità tra i nord e sud del mondo che nel nostro paese vive come elemento caratterizzante della crisi. Una suDalternità che vuol dire rottura della subalternità degli ultimi 150 anni del meridione al Nord italiano e allo stesso tempo capacità di costruire alternativa proprio dal Sud e dai Sud del mondo.

Questo per dire che senza dubbio oggi tra le diverse necessità esiste quella di ragionare intorno alle vie d’uscita dalla crisi in forma alternativa alla politiche di austerità che garantiscono la rendita e le banche. Bisogna ritrovare i modelli e per farlo c’è bisogno di avere una grande capacità di mettersi in discussione di produrre un legame simbiotico tra il ragionamento politico e conseguente prefigurazione di alternativa e lavoro politico e prassi.
La ricerca del comune, anche qui, oggi più che mai è necessaria.

Ci fermiamo qua…anche perché siamo solo all’alba e ci vogliamo guastare il sole che sorge.

I compagni e le compagne del Laboratorio Insurgencia

Napoli 30 dicembre 2010

* foto di logo di Ferdinando Kaiser