Sulle lotte nella logistica. Appunti per un sindacalismo conflittuale

30 / 11 / 2018

Per la rubrica «La maledizione di Adamo», dedicata al tema del “lavoro” nelle sue articolazioni contemporanee, pubblichiamo un articolo di Lorenzo Cini, Center on Social Movement Studies [COSMOS], Scuola Normale Superiore di Pisa).

Una nuova sfida da raccogliere

Le piattaforme digitali sono diventate centrali nell’organizzazione della produzione e del lavoro contemporaneo.[1] Esse costituiscono l’infrastruttura dell’attuale modello di business attraverso cui il valore viene creato, catturato e distribuito. Dentro questo modello, il settore della logistica, con la sua capacità di ridurre lo spazio ed il tempo della circolazione del capitale, gioca un ruolo fondamentale. In un tipo di capitalismo a bassi livelli di crescita come l’attuale, in cui la profittabilità è perseguita attraverso la velocità di circolazione delle merci e l’incremento del numero dei loro scambi piuttosto che attraverso l’incremento della loro produzione, il settore che organizza questo processo, la logistica, diventa centrale. Non è per nulla un caso il fatto che le maggiori innovazioni e trasformazioni tecnologiche degli ultimi anni siano avvenute in questo settore. Mentre a livello politico e sindacale – in Italia come nel resto del mondo – si sono manifestate molte e autorevoli voci sulle “magnifiche sorti e progressive” che questo processo comporterebbe, poco o nulla si sa di come questa trasformazione sia stata recepita, e soprattutto sfidata, proprio da uno dei principali attori coinvolti, i lavoratori. Eppure – e per fortuna – dopo decenni di declino, nuove e più radicali mobilitazioni di lavoratori sembrano in ascesa anche e soprattutto nei paesi capitalisti avanzati, specialmente e precisamente nei settori più innovativi della logistica.

Gli autisti di Uber, i ciclo-fattorini di Foodora e Deliveroo, i fattorini e magazzinieri di Amazon, TNT, e Leroy Merlin si sono infatti mobilitati negli ultimi anni per chiedere migliori condizioni di lavoro e di vita. Queste lotte mettono esplicitamente in discussione non solo l’idea sulle magnifiche sorti e progressive di cui sopra, ma anche e soprattutto specifiche credenze “scientifiche” che sono comunemente associate a questi lavori. La prima credenza ha a che fare con la natura stessa di questi lavori, che sono considerati all’avanguardia dell’attuale processo di innovazione tecnologica. I processi di innovazione tecnologica e, più estesamente, organizzativa sono infatti creduti aumentare il controllo manageriale e aziendale sui lavoratori e, quindi, potenzialmente limitare le possibilità di organizzazione e azione collettiva.[2] La seconda credenza ha a che fare con la composizione politica di questa forza lavoro, con tassi quasi completamente assenti di sindacalizzazione tradizionale. I lavoratori non sindacalizzati sono infatti ritenuti essere politicamente apatici, incapaci di organizzarsi e di intraprendere qualsiasi forma di lotta collettiva.[3]

Tuttavia, il nuovo ciclo di mobilitazioni sociali che si è prepotentemente manifestato in Europa negli ultimi sette anni ha precisamente riguardato questi lavoratori. Le nuove lotte, occorse nelle punte più avanzate della logistica, hanno infatti mostrato tratti innovativi in termini sia di organizzazione che di azione, coadiuvati dal supporto di sindacati di base conflittuali oppure direttamente dalla creazione di collettivi autonomi di lavoratori. In breve, le due credenze sopra riportate sembrano essere state ampiamente sconfessate da queste mobilitazioni. Capire come e perché questi lavoratori siano riusciti a organizzarsi e controbattere con nuove forme di lotta all’offensiva capitalista, sfidandola nel suo terreno favorito, quello dell’innovazione tecnologica, rappresenta un atto di comprensione fondamentale per chi - come noi - crede nella possibilità di un rilancio della lotta di classe nel ciclo capitalista contemporaneo. Gli appunti che formano questo articolo sono il frutto di un lavoro di inchiesta militante che chi scrive ha intrapreso, insieme ad altri compagni e colleghi, nei mesi passati tra Torino, Milano, Piacenza e Bologna, intervistando e partecipando alle mobilitazioni dei lavoratori della logistica e della consegna di cibo.

Oltre la produzione. Sulla centralità della logistica nel capitalismo contemporaneo

Marx notava che il lavoro vivo creasse valore, mentre la circolazione del capitale lo realizzasse, sottolineando così l’interdipendenza tra i processi di valorizzazione, realizzazione e distribuzione dentro il circuito del capitale.[4] Se il plusvalore è creato nella sfera produttiva, è soltanto attraverso la distribuzione e la vendita delle merci che il plusvalore può essere effettivamente realizzato. In questo senso, l’incapacità di vendere la merce, sia essa dovuta ad un consumo insufficiente o a blocchi e resistenze nella catena di fornitura, significa che il valore non può concretizzarsi. Le leggi di competizione obbligano costantemente il capitale a diminuire il tempo di circolazione delle merci (tempo di turnover), dal momento che durante questo tempo il plusvalore non può essere convertito in profitto. Se l’ammontare del plusvalore che può essere accumulato dal capitale è dipendente dal tempo di turnover, allora l’efficienza logistica è una determinante critica per la profittabilità capitalistica. Prendendo la definizione marxiana di capitale come valore in movimento, ogni blocco e rallentamento della circolazione significa una perdita netta di valore, perché il capitale che è congelato o non in movimento non è più capitale. Come David Harvey ha recentemente sottolineato, “ogni fallimento nel mantenere una certa velocità di circolazione del capitale attraverso le varie fasi della produzione, realizzazione e distribuzione genererà difficoltà”[5] e crisi capitaliste.

In un passaggio dei Grundrisse (1857) spesso citato, dove si descrive la capacità intrinseca del capitale di superare barriere e ostacoli di ogni sorta nel suo incessante processo di circolazione, Marx si sofferma sulla centralità che in questo processo assumerebbero le infrastrutture dello scambio:

più la produzione viene a poggiarsi sul valore di scambio, da qui sullo scambio, più importanti le condizioni fisiche dello scambio – i mezzi di comunicazione e di trasporto – diventano per i costi di circolazione. Il capitale per sua natura va oltre ogni barriera spaziale. Così la creazione delle condizioni fisiche dello scambio – dei mezzi di comunicazione e di trasporto – l’annichilimento dello spazio per mezzo del tempo – diventa una necessità straordinaria per esso [il capitale].[6]

Storicamente – e come differentemente inteso dalle interpretazioni marxiste ortodosse – l’importanza relativa dei diversi processi o “momenti” del circuito del capitale, come Marx li ha chiamati (valorizzazione, realizzazione, consumo, e distribuzione), è cambiata con il variare delle circostanze.[7] Mentre il processo di lavoro che Marx aveva magistralmente descritto nel I volume del Capitale era caratterizzato dalla spazialità chiusa degli operai di fabbrica, la cui cooperazione strutturata e comandata dal capitale generava per esso plusvalore e profitti, nella fase attuale dello sviluppo capitalista, le merci non sono più soltanto prodotte negli spazi fisici della produzione ma anche, e soprattutto, attraverso lo “spazio logistico”.[8] La produzione e la distribuzione sono organizzate come un sistema disperso ma coordinato, dove le merci sono confezionate e prodotte su vaste distanze, attraverso confini nazionali multipli, e in virtù di infrastrutture sociali e tecnologiche complesse, dove il processo di valorizzazione occorre in catene globali del valore, spalmate in una geografia politica ed economica altamente diseguale.[9] Ad esempio, lo sviluppo dell’e-commerce dipende oggi dalla creazione ed utilizzo di infrastrutture logistiche globali, che provvedono al trasporto delle merci attraverso oceani, strade e ferrovie e tra città, stati e zone economiche speciali (come i porti).[10]

Queste catene del valore globali funzionano secondo un modello di produzione e distribuzione "snello", basato su inventari di magazzino quasi nulli, in cui gli stock vengono riforniti solo quando sono necessari o Just-in-Time (JIT). È su questa specificità del ciclo capitalista contemporaneo che si basa la centralità che sembra aver assunto oggi il processo di distribuzione e, all’interno di esso, del settore (che qui definiamo in senso lato) della logistica. Se, d’altra parte, – riprendendo e riattualizzando la lezione del Marx dei Grundrisse – le infrastrutture tecnologiche e sociali dello scambio diventano cruciali in una società sempre più basata sul valore di scambio, allora blocchi e sabotaggi di quelle infrastrutture permettono di sferrare un colpo decisivo all’organizzazione capitalista. Con in mente queste coordinate teoriche, guardiamo quindi alle nuove lotte che si stanno sviluppando nella logistica, ipotizzando una loro centralità strategica, consapevoli però del fatto – per dirla con Tronti[11] o più recentemente con Hardt e Negri[12] – che soltanto la forza e la diffusione del conflitto ne determinano la reale potenza politica.

All’alba di un nuovo ciclo di lotte?

Dalla seconda metà del 2011, si è manifestata in Italia un’ondata di lotte dei lavoratori della logistica che ha coinvolto varie aziende del settore, tra cui anche diverse multinazionali, quali TNT, DHL, GLS, IKEA, Granarolo, e Leroy Merlin. Dalla fine del 2015, si è parallelamente sviluppato a livello europeo (Belgio, Francia, Germania, UK e Spagna, oltre alla stessa Italia) un altro ciclo di mobilitazioni che ha coinvolto i lavoratori della consegna di cibo, i ciclo-fattorini di varie multinazionali del settore, tra le quali Deliveroo, Foodora, Glovo, Just Eat e UberEats. Quello che i due cicli di lotta hanno in comune, oltre al fatto di essersi prodotti in punte avanzate della logistica contemporanea, è la forma di organizzazione e la radicalità di azione che queste mobilitazioni hanno assunto. Una specificità politica che non vedevamo realizzarsi nel contesto europeo dal ciclo di lotte degli anni Settanta, e che rappresenta un buon auspicio per la ripresa del conflitto operaio anche, e soprattutto, nei settori del capitalismo più innovativo.

La situazione di partenza di tutti questi lavoratori era la medesima, caratterizzata dalla quasi completa assenza di diritti e protezioni legali, oltre che dalla mancata presenza e intervento delle sigle sindacali tradizionali. Al cospetto di queste condizioni, considerate come oggettivamente avverse per l’organizzazione collettiva dei lavoratori, la capacità dimostrata da questi soggetti di portare avanti pratiche conflittuali di mobilitazione ha sorpreso, se non confuso, vari “esperti” e studiosi di lotte sul lavoro, nonché i vertici di diverse organizzazioni politiche e sindacali. Secondo me, invece, e quasi paradossalmente, la circostanza che ha favorito questo tipo di mobilitazioni è stata proprio la presenza delle condizioni sopracitate. Se, da un lato, l’assenza di una cornice legale che garantisse ma anche regolasse, ad esempio, i diritti e le forme di sciopero ha infatti incentivato lo sviluppo di tattiche innovative e radicali, dall’altro, l’assenza, o inattività, delle sigle confederali ha favorito il manifestarsi di dinamiche di autorganizzazione e/o l’entrata ed il supporto da parte dei sindacati di base, tradizionalmente più propensi a pratiche antagoniste. In Italia, il caso dei facchini della logistica nel piacentino e bolognese e quello dei ciclo-fattorini della consegna di cibo in varie città del Centro-Nord hanno esemplificato in maniera sostanziale il realizzarsi di questo tipo di conflitto.

Le mobilitazioni nella logistica si sono mostrate esperienze di lotta particolarmente interessanti, sia per la composizione sociale della forza lavoro che per i modi di organizzazione e di azione da essa intrapresi. Una forza lavoro per lo più migrante – proveniente da vari paesi del Nord Africa (in particolare, Marocco, Tunisia ed Egitto), su cui era stata applicata fino a quel momento una strategia di divisione etnica da parte aziendale – si è massicciamente ribellata, proprio facendo affidamento sulle reti sociali di solidarietà presenti nelle varie comunità migranti. Fondamentale in questo processo di ricomposizione è stato poi il ruolo attivo giocato dai sindacati di base, come il SI Cobas e l’ADL Cobas, che hanno incoraggiato la costruzione di legami politici tra le stesse comunità migranti, contribuendo al superamento delle loro diffidenze “razziali” iniziali attraverso l’adozione di un comune linguaggio di rivendicazione sociale. In altre parole, una condizione di debolezza – percepita come strutturale per la mobilitazione, quale la divisione etnica – è stata invece trasformata in punto di forza, proprio grazie ad una strategia politica consapevole utilizzata dai gruppi organizzati presenti.

Ma il dato sicuramente più interessante di queste lotte riguarda le forme di azione adottate, che hanno espresso un livello di radicalità che non si manifestava da decenni nelle mobilitazioni sul lavoro in Italia, ossia almeno dagli anni precedenti al periodo della “Concertazione”. A differenza dei vari (e pochi) scioperi della logistica portati avanti in questi anni dalle sigle confederali,[13] la specificità di queste mobilitazioni consiste precisamente nella volontà e capacità politica di creare disagi concreti, ossia di colpire l’azienda proprio nel suo interesse economico principale, quello di fare profitti, mettendo in pratica il blocco totale della circolazione delle merci. Attraverso la costruzione di picchetti partecipati e determinati davanti ai cancelli dei magazzini, i lavoratori non mirano soltanto a fermare i pochi ed isolati crumiri, ma anche, e soprattutto, a bloccare tutto il flusso di circolazione delle merci con la paralisi totale dei tir in carico e scarico. Così facendo, i facchini esercitano tutto il loro “potere strutturale”, o più precisamente il loro potere contrattuale sul posto di lavoro (“workplace bargaining power”[14]), cioè sfruttano la loro centralità strategica nel processo di circolazione delle merci, per sferrare un attacco economicamente significativo, e quindi politicamente decisivo, alla controparte aziendale. Non è, d’altra parte, un caso il fatto che dovunque i facchini siano riusciti a organizzare queste forme “selvagge” di sciopero abbiano sempre ottenuto importanti vittorie sindacali (l’ultimo caso riguarda la Leroy Merlin di Piacenza nell’ottobre 2018). Cruciali nel successo e diffusione di queste lotte sono poi, oltre alle già citate organizzazioni sindacali di base, diversi gruppi e collettivi di “solidali”, ossia di militanti politici e sindacali di varie realtà autorganizzate (generalmente centri sociali e collettivi studenteschi) presenti nel territorio, che partecipano attivamente alla realizzazione dei picchetti, mettendo la loro esperienza, e fisicamente i loro corpi, al servizio dei lavoratori.

Pur con qualche differenza attinente alla natura del lavoro, le mobilitazioni dei ciclo-fattorini hanno mostrato caratteri simili in termini di organizzazione e forme di azione. Similmente ai facchini della logistica, queste mobilitazioni hanno infatti testimoniato la completa assenza dei sindacati tradizionali. Anche più chiaramente rispetto alla logistica, centrale in tale contesto è stata l’autorganizzazione dei lavoratori in collettivi autonomi con il supporto decisivo dei “solidali”, che non solo hanno partecipato personalmente alla realizzazione degli scioperi, ma in questo caso hanno anche avuto un ruolo fondamentale nella loro organizzazione e nella stessa invenzione delle forme di lotta. Tra le varie forme, ha senso qui menzionare la messa in pratica di uno specifico tipo di sciopero “digitale”, consistente nella pratica dei lavoratori di “sloggarsi” simultaneamente dalla app aziendale (quella che stabilisce i turni di lavoro) per boicottare e bloccare il servizio di consegna. Più in generale, la presenza di uno “spazio urbano militante”, cioè la presenza di collettivi autonomi e/o spazi auto-organizzati, nelle città in cui i ciclo-fattorini si sono mobilitati è risultata fondamentale per la loro crescita politica e organizzativa, così come per la loro capacità di innovare il repertorio di azione.

A questo riguardo, la più importante lezione che possiamo imparare dalle lotte dei ciclo-fattorini italiani è associata ad una strategia specifica che hanno adottato, che rappresenta – a nostra parere – la caratteristica più innovativa di questo nuovo tipo di militanza del lavoro. Consapevoli del loro scarso “potere contrattuale sul posto di lavoro”[15] – ossia, differentemente dai facchini della logistica, l’incapacità di bloccare con successo tutto il servizio di consegna della propria compagnia – questi lavoratori hanno portato avanti forme di azioni conflittuali per danneggiare il profitto aziendale nel “punto di realizzazione”, cioè nel rapporto tra azienda e clientela. In altre parole, i ciclo-fattorini hanno consapevolmente adottato una strategia di “brand shaming” per mobilitare a loro favore l’opinione pubblica e, allo stesso tempo e di conseguenza, per danneggiare economicamente le piattaforme. La novità non risiede tanto nell’utilizzo di questa tattica, praticata dalla fine degli anni Novanta da ampi settori del movimento per un’altra globalizzazione per danneggiare economicamente varie multinazionali, ma nell’averla “recuperata” da pratica di lotta per un consumo alternativo e trasformata in pratica conflittuale nel luogo di lavoro.

In questo senso, la forte connotazione simbolica delle piattaforme di consegna di cibo – una componente significativa del modello di business attraverso cui queste compagnie fanno utili – ha fornito agli stessi ciclo-fattorini una potente arma di ricatto nelle loro mani. Se multinazionali della consegna, come Deliveroo, Foodora e Glovo, fanno profitti proprio grazie al fatto che i loro lavoratori, operando con le biciclette, danno un’immagine fresca, simpatica e ambientalista dell’azienda per cui lavorano, la capacità di queste mobilitazioni di smascherare tale immagine attraverso strategie comunicative conflittuali può potenzialmente rendere le stesse aziende molto vulnerabili da un punto di vista economico e, quindi, politico. Come è stato recentemente suggerito, anche l’attacco ad una componente apparentemente simbolica degli affari – l’immagine pubblica della piattaforma– può in realtà rivelarsi al tempo del capitalismo digitale un elemento chiave per colpire la catena del valore.[16]



[1] Srnicek, N. (2017). Platform Capitalism. Cambridge: Polity Press.

[2] Braverman, H. (1974). Labor and Monopoly Capital. The Degradation of Work in the Twentieth Century. New York & London: Monthly Review Press.

[3] Baccaro, Lucio (2011). Labor, Globalizaton, and Inequality: Are Trade Unions Still Redistributive? Research in the Sociology of Work 22 (1): 213–285.

[4] Marx, K. (1973) [1857]. Grundrisse, trans. Martin Nicolaus. London: Penguin.

[5] Harvey, D. (2017). Marx, Capital and the Madness of Economic Reason. London: Profile Books: 74.

[6] Marx 1973: 536; trad. mia.

[7] Su questo si legga in proposito Harvey 2017.

[8] Cowen, D. (2014a). The deadly life of logistics: Mapping violence in global trade. Minneapolis University of Minnesota Press.  

[9] Cowen, D. (2014b). Disrupting distribution: Subversion, the social factory, and the ‘state’ of supply chains. Viewpoint Magazine. https://www.viewpointmag.com/2014/10/29/disrupting-distribution-subversion-the-social-factory-and-the-state-of-supply-chains/

[10] Cowen 2014a.

[11] Tronti, M. (2013) [1966]. Operai e Capitale. Roma: DeriveApprodi.

[12] Hardt, M., A. Negri (2002). Impero. Il Nuovo Ordine della Globalizzazione. Milano: Rizzoli.

[13] Si veda a questo proposito, a titolo di esempio, lo sciopero del “Black Friday” di novembre 2017, organizzato dalla CGIL, CISL e UIL, nel sito Amazon di Castel San Giovanni (Piacenza), concretizzatosi in un presidio simbolico dei sindacati davanti ai cancelli del magazzino col supporto di qualche lavoratore.

[14] Silver, B. (2003). Forces of Labor. Workers' Movements and Globalization Since 1870. Cambridge: Cambridge University Press.

[15] Ibidem.

[16] Zamponi, L. (2018). Bargaining with the Algorithm. https://www.jacobinmag.com/2018/06/deliveroo-riders-strike-italy-labor-organizing.