Riprodurre oggi le pratiche del blocco e dell'occupazione, vuol dire perpetuare un processo di movimento che sta contagiando tutto il mondo

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cronache da sud della tre giorni di Francoforte

25 / 5 / 2012

di Eleonora de Majo, Leandro Sgueglia, Egidio Giordano, Pietro Spaccaforno, Fabrizio Andreozzi, Alessandra Buono,Dylan Di Chiara, Walter de Majo, Bruno Pepe Russo.

Se non si tratta di un documento politico o di un appello, è anomalo che si firmi un testo con tanti nomi come abbiamo fatto col presente. Tuttavia questa riflessione è il frutto di una lunga discussione condivisa da tutto il gruppetto di napoletani che hanno preso parte alla carovana italiana al 'Blockupy-Frankfurt'. Il confronto, sia fra di noi che con gli altri compagni del Veneto, dell'Emilia, di Roma, etc... è stato serrato e quotidiano. C'è stata una nottata in cui, però, questo ragionamento ha preso una forma così estesa nonostante la stanchezza: la nostra ultima notte tedesca, al ritorno da una serata trascorsa dal ristorante di Giovannino – un vecchio immigrato calabrese che fa degli ottimi spaghetti – con tutti gli altri compagni. Abbiamo avuto varie ore, mentre in autobus si raggiungeva l'aeroporto di Hann, che è 200 km fuori da Francoforte, e mentre aspettavamo l'imbarco, per rievocare momenti ancora poco remoti e cercare insieme di capirli a caldo. E' ovvio poi che la forma elaborata dello scritto, è venuta n un secondo momento di maggiore calma e lucidità.

Immaginate una cartina dell’Europa come quelle che si fanno per i terremoti, però su larga scala.  Su Francoforte c’è un pallino rosso-fuoco che indica l’epicentro e che irradia tutte le zone attorno, in modo che la Germania e tutti i paesi del Nord-Europa si tingano di un rosso un po’ più chiaro che sbiadisce man mano che ci si allontana dall’epicentro stesso. Il colore dei paesi più distanti da quel cerchietto rosso, i P.I.I.G.S. , sfumano nel bianco: sono i paesi del debito fuori controllo, i paesi da commissariare, i paesi della colpa.
Il rosso, nel nostro caso, è il colore del dominio ed ovviamente nello stesso tempo è quello del divieto, della proibizione, della preclusione. E’ il colore che serve per delimitare le zone in cui la decisione del comando deve esprimersi in pieno e non deve accorgersi del vociare di chi la contesta. Dove c’è rosso acceso, secondo i piani del comando, il dissenso va fermato ed asfissiato con sottili tattiche poliziesche, prima che questo arrivi per strada. Dove c’è bianco, il dominio si applica tramite impatti veicolati dalle governance internazionali e dall'eterodirezione di governi fantoccio, tramite le filiali degli istituti finanziari e la loro influenza nella vita delle persone, ma anche tramite l'intersezione con la rete di poteri trasversali che si originano in loco, dall'impresa alla partitocrazia, dalle burocrazie alle mafie. Qui in “zona bianca” il dissenso stesso va punito con sangue e barbarie, attraverso l’uso di polizie violente e brutali, attraverso una modalità repressiva che somiglia più alla guerra delle bande che all’applicazione di un codice giuridico e normativo.

Il pallino rosso-fuoco che soffoca Francoforte, segna l’altissima tensione di una “città-bunker”, impermeabile ed invalicabile, in cui banchieri e manager agiscono le sorti del vecchio continente e in cui ogni forma di contestazione pubblica deve essere “gentilmente” accompagnata fuori dalla porta, anche se questo significa  dispiegare più di diecimila poliziotti e una quantità indefinita di mezzi e strategie. Questa Francoforte è quella che ci ha accolti il 16 maggio: sirene, ambulanze e posti di blocco ovunque. La  sensazione è stata  da subito quella di essere finiti nel quadro avanzato di un videogame degli anni novanta, circondati da un paesaggio bidimensionale, costretti ad una costante fuga senza mete, a dividere i gruppi, a camminare decisi, a parlare sottovoce l’italiano, a non sostare a lungo nei parchi, a non  vestire di nero, a non mettere sciarpe o cappucci. Una strategia che non ha nulla a che fare con quella che conosciamo in Italia, una strategia che tende ad innervosire, a sfiancare, agendo silenziosamente sull’intenzione, prima di permettere che l’azione politica prenda forma.
Blockupy ha sofferto molto, soprattutto nelle prime ore, questa volontà evidentemente studiata nei dettagli, di dividere e frammentare gli attivisti. L’intento palese era quello di non far incontrare i centinaia di corpi che stavano lentamente affluendo in città, dando a tutti, tedeschi e non, la sensazione che quelle azioni di protesta erano  frutto di gruppetti di attivisti piccoli ed imbarazzati dalla solitudine. Quando i gruppi erano troppo grossi, come nel caso dei pullman che hanno raggiunto Francoforte da Berlino o dalle altre città tedesche, si provava a bloccarli alle porte della città. Se le piazze si riempivano di cittadini di Francoforte, spontaneamente armati di costituzione e scesi in una piazza per chiedere che venisse ripristinato il diritto a manifestare nella propria città già colonizzata dal vetro delle banche, allora si arrestavano tutti quelli che provavano a raggiungerli, come è successo agli ottanta italiani davanti all’università. Se la volontà di arrivare con entusiasmo e determinazione alla manifestazione di sabato si mostrava troppo risoluta, allora si dispensavano DASPO, fantasiosi, originali, l’uno diverso dall’altro, il cui minimo comune denominatore era il divieto alla partecipazione ai momenti di piazza.

Eppure, questa stessa asfissia, è diventata in breve un ulteriore motore di inedito entusiasmo. Si è trattato di un entusiasmo che si è dato anche e soprattutto nella forma di una sfrontatezza ed una irriverenza nei confronti  dei divieti, circolando tra tutti i partecipanti a quella tre giorni che faticava a prendere fisionomia ma che poi ha assunto quella della disobbedienza più viscerale.
Tra il 17 e il 18, i fermi sono stati quasi ottocento, eppure la città era inesauribilmente bloccata da piccoli assembramenti, cortei spontanei, accampamenti di fortuna nelle piazze centrali. Le voci correvano tra noi ed erano le voci di piccole-grandi conquiste: la chiusura della B.C.E. per tutta la durata della tre giorni, il dislocamento dei lavoratori nelle sedi di provincia, la fuga di Draghi in un albergo fuori Francoforte, la pressione nazionale ed internazionale sulla polizia e sulla gestione dell’ordine pubblico. Tutti questi sono stati segnali di un solo fatto concreto: la cittadella della finanza ha avuto paura di noi, e ha fatto bene ad averne, perché dopo mille peripezie e mille ostacoli, sabato ci siamo ritrovati in 30 o 40 mila – poco importa – ad assediare strada per strada l’inaccessibile Bankfurt.

Inutile provare a raccontare tutto, ci sarebbe sempre qualcosa che manca. Quello che invece sembra imporsi come necessità a tutte e tutti noi, è la possibilità di costruire una narrazione che parta dalle esperienze vive e singolari che abbiamo vissuto, dagli sguardi che ci siamo scambiati, dalle parole che abbiamo gridato,  alle istanze e dalle passioni diverse che abbiamo portato nello zaino quando siamo partiti dalle diverse latitudini italiane; tutto ciò in modo da  poter restituire  un quadro variopinto ma sicuramente comune di cosa significa oggi ragionare di un piano europeo delle lotte e di come questo piano si possa intersecare virtuosamente con le mobilitazioni sociali dei territori che ogni giorno attraversiamo.

E’ così che, come napoletani della carovana “Rise-up!”, proviamo a leggere Francoforte a partire dalla nostra collocazione in quella cartina bianca e rossa di cui dicevamo all’inizio, un punto di partenza che è più a sud di tutti gli altri, un punto di partenza che non può non tenere conto di quella realtà drammatica che ci si dispiega quotidianamente davanti agli occhi. Una situazione che si definisce nei dati allarmanti diffusi proprio in questi giorni dall’Istat, dati che raccontano: come a sud quasi una famiglia su quattro vive nell’area della povertà; il 68,2% dei poveri italiani vive nel Mezzogiorno; l’occupazione dal ’95 non è mai cresciuta; i servizi sociali sono del tutto assenti; la spesa pubblica è diminuita di un punto e mezzo. Si completa il quadro se a questi dati si aggiunge: che il debito privato cresce a dismisura e spesso è un debito necessario, non per accedere a particolari beni di consumo, ma per adempiere a bisogni fondamentali (trasporto, abitazione, utenze domestiche come luce e gas, minime disponibilità di liquidi, pasti) o a tasse; che la riscossione pubblica dei crediti, tramite enti come Equitalia, ha assunto negli anni una forma disumana e vessatoria.

Se questo è il contesto in cui si muove quotidianamente l’azione politica, le nostre giornate a Francoforte sono state innanzitutto giornate di rivendicazione di un necessaria apertura per uno spazio  di ricomposizione delle subalternità, che a Sud-Europa più che altrove, vengono esposte alla sperimentazione laboratoriale di pratiche autoritarie, riproducibili su ampia scala. La Grecia è un topos, ma non è sola. Ricomporre queste stesse subalternità, deflagrando le frontiere nazionali come abbiamo fatto a Francoforte, e come dovremo fare ad Atene o a Madrid il prossimo autunno, è l’ambizione vera di un movimento transnazionale, di un’Europa in cerca di democrazia, oltre il giogo oppressivo dell’austerity e del debito. Espropriare la finanza di tutta la sovranità che ha coattamente accentrato nelle proprie mani, vuol dire rimettere al centro il vero tema, che è la redistribuzione della ricchezza e la lotta alle povertà, vecchie e nuove.

Nel contempo dobbiamo essere consapevoli che il processo che investirà l’Europa nelle prossime settimane deve metterci in guardia, deve stimolare i ragionamenti, e far proseguire questa avventura europea, compiutamente iniziata a Francoforte, in una direzione costituente, forte di un piano rivendicativo. Ci sembra che sia un terreno di sfida importantissimo quello che sta accadendo in Grecia: l’esito delle elezioni di fine maggio, le imminenti nuove elezioni di giugno, gli ostacoli che la troika prova ad imporre al suffragio universale e alla possibilità che i tartassati cittadini ellenici decidano di rompere la compatibilità con l’Europa dell’austerity. I movimenti, quei movimenti che hanno bloccato la capitale della finanza qualche giorno fa, devono stare dalla parte dei greci, perché la sfida che potrebbero assumere, a partire da un’ipotetica vittoria della sinistra radicale, è una sfida probabilmente perdente se resta autarchica. Rifiutare a gran voce la dittatura dell’austerity, la mannaia dei tagli alla spesa sociale, l’accanimento sui debiti privati, è già affermare di essere vicini e solidali ai greci. Così come siamo convinti che bisogna stare altrettanto attenti a quello che accadrà in Irlanda, con il referendum sul Fiscal Compact, proprio mentre anche in Italia si deciderà dell’approvazione della stessa misura, chiaramente senza referedum, e tenendo la popolazione tendenzialmente all’oscuro degli effetti devastanti legati all’approvazione del trattato.

Questi sono gli elementi politici che compongono il terreno su cui, dal sud del sud continentale ma senza pretese identitarie, ci sentiamo di accettare ed accogliere la sfida lanciata da 'Blockupy', da tutte le delegazioni internazionali, dai sindacati,  dai compagni tedeschi di IL, con cui abbiamo camminato fianco a fianco durante le giornate di mobilitazione e con cui abbiamo stretto una relazione vera, schietta e fruttuosa.
Quindi, dopo aver portato le nostre motivazioni nei “viali del fortino francofortese”, sia la sfida che la risultante di tale relazione le riportiamo sui nostri territori, investendole nell'azione locale e nazionale che tutti i giorni ci sforziamo di produrre. Allo stesso modo riportiamo nelle nostre regioni e nel nostro paese una nuova sperimentazione, contaminata dai più vari linguaggi, di pratiche conflittuali che comunque abbiamo fatto nostre già da anni.
Bloccare ed occupare le strade col semplice uso dei corpi, un uso non passivo ma propositivo e reattivo, molti di noi lo facevano già vivendo il movimento altermondialista con la disobbedienza sociale attiva. Altri hanno iniziato poco o molto dopo, ma comunque si sono cimentati in medesime forme di mobilitazione. In tanti lo abbiamo fatto difendendo le nostre terre contro il tentativo di chi voleva abusarne costruendovi discariche o basi militari, reclamando diritti (come istruzione, sapere, welfare, reddito) e una nuova democrazia, invocando tutele per sorelle e fratelli costretti oltre i margini della cittadinanza formale.
Tuttavia, riprodurre oggi le pratiche del blocco e dell'occupazione, che significano comunque riappropriazione di spazi metropolitani e soprattutto di spazi politici, nei luoghi di vita quotidiana e in quelli sicuramente meno vissuti ma simbolici, vuol dire innescare definitivamente anche nella nostra penisola un processo di movimento che si sta diffondendo come un contagio in tutto il mondo, dalla Spagna del 15-m alla Wall-Strett dei primi occupiers, dall'unione tra giovani e portuali di Oakland fino agli ultimi focolai di Chicago e di Montreal. Questo innresco dal sapore spregiudicato è di fatti una battaglia che deve essere al contempo irriverente e radicale, beffarda e coraggiosa. Deve somigliare, per dirla con una metafora recente, proprio  a quel motivetto di Guerre Stellari cantato dai manifestanti  ai poliziotti di Francoforte che accerchiavano l'imponente corteo del 19. 

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