Spazi d'eccezione - La dimensione spaziale e le eccezioni costituenti del comune

23 / 5 / 2016

Contributo pubblicato anche su OperaViva. Spazi d’eccezione è un libro, un meeting e una mostra. Nasce dall’incontro di due collettivi, S.a.L.E.-Docks e Escuela Moderna. Unisce oltre ottanta artisti, architetti, performer e attivisti. Il progetto intende analizzare la spazializzazione dello stato d’eccezione, i suoi effetti sullo spazio urbano e sulla vita che lo attraversa. Questo articolo è un’anteprima del volume «Spazi d’eccezione» , a cura di S.a.L.E Docks e Escuela Moderna (Milieu Edizioni), che verrà presentato il 25 maggio presso il S.a.L.E. Maggiori info ull'evento.

Secondo Giorgio Agamben lo Stato d'eccezione ha la funzione di unire all'interno del medesimo contesto auctoritas e potestas, ovvero elemento anomico e norma, producendo così una finzione in cui lo statuto del diritto viene di fatto sospeso, pretendendo però che tale sospensione avvenga a norma di legge. Ne consegue un inasprimento delle forme di coercizione, controllo e violenza associate al potere costituito. Una condizione che attraverso la normalizzazione dello stato d'eccezione assume oggi i contorni di una quasi-permanente tecnica di governo delle popolazioni, indirizzata in particolare contro le classi subalterne e le reti di movimento.

In apertura di millennio il Patriot Act statunitense aveva rappresentato un segnale piuttosto evidente di questa tendenza. Più recentemente è stata la volta della Francia dove, in seguito agli attentati del novembre 2015, il provvedimento dello stato d'emergenza (originariamente pensato per durare dodici giorni) è stato prolungato dal Consiglio dei ministri ed è ormai in vigore, su tutto il suolo nazionale, da oltre due mesi. E' dunque fondata l'opinione di Agamben quando sostiene che ci stiamo avvicinando ad uno stato d'emergenza permanente che alluderebbe ad una trasformazione strutturale della forma statuale, dallo stato di diritto allo stato di sicurezza[1]? Prima di provare a rispondere è importante affermare un fatto, su cui torneremo in seguito: la recente esplosione del movimento francese contro la loi travail ha dimostrato che le spinte costituenti non possono essere arrestate dalla normalizzazione dello stato d'eccezione. La nuit debout ha nuovamente riempito Place de La République, sino a pochi mesi fa luogo simbolo della chiusura di spazi di praticabilità sociale. Ciononostante gli effetti dello stato d'urgenza si erano fatti sentire. A inizio dicembre 2015 le forze dell'ordine francesi, forti dell'acquisita autonomia operativa, avevano già compiuto “oltre 2000 perquisizioni, 600 custodie cautelari (di cui 400 manifestanti contro lo stato d’emergenza o contro la COP21) e più di 300 arresti domiciliari (di cui una dozzina di militanti contro la COP21)”[2].

Queste sono alcune delle ragioni per cui “Spazi d'eccezione” ha deciso di sollevare una domanda: Che effetti provoca sullo spazio sociale, politico e urbano la normalizzazione operata dallo stato d'eccezione? Come avviene la sua spazializzazione?

L'attuale état d'urgence, in Francia, permette di proclamare il coprifuoco, ovvero di vietare la circolazione di persone o veicoli nei luoghi e negli orari stabiliti per legge, di istituire zone di protezione o sicurezza in cui il soggiorno delle persone sia regolamentato; di vietare il soggiorno in un dipartimento o in parte di esso a chiunque tenti di ostacolare, in qualsivoglia modo, l'azione delle pubbliche autorità e così via.

E' importante notare che le radici dello stato d'emergenza francese affondano nel passato coloniale. La legge fu infatti promulgata nel 1955 per rispondere all'attività del FLN algerino. Il nuovo strumento doveva sostituirne uno preesistente, lo stato d'assedio che la Francia non volle utilizzare perché inadatto alla guerra asimmetrica, per non essere costretta a riconoscere all'Algeria lo statuto di nazione indipendente e ai combattenti i diritti previsti dalle convenzioni di guerra. Sempre nelle colonie, inoltre, prima dell'avvento del Nazismo, venne fatto largo impiego del dispositivo spaziale maggiormente caratterizzato dal paradosso giuridico dell'assurgere dello stato d'eccezione a vera e propria norma: il campo di concentramento. E' il caso anche dell'Italia che tra il 1928 e il 1932 costruì più di dieci campi in Cirenaica (Libia orientale), dove venne deportato oltre un terzo della popolazione libica e dove la metà vi trovò la morte. Decolonizing Architecture Art Residency, nel progetto intitolato “Italian Ghosts”, ha tentato di mettere in luce l'eredità del complesso regime spaziale importato dal Fascismo nelle sue colonie: da una parte i campi di concentramento, dall'altra infrastrutture e soprattutto una serie di architetture moderniste. Un doppio registro che non illumina solo il lato oscuro della modernità e l'ambiguità dei Modernismi, ma anche il fatto che lo stato d'eccezione, oltre ad avere effetti su uno spazio pianificato per la vita entro i limiti del diritto, può influenzare in modo determinante il progetto dello spazio. Cioè lo spazio stesso può essere interpretato come effetto dello stato d'eccezione. Qui si torna inevitabilmente a Parigi, città simbolo per le sue rivoluzioni, eccezioni costituenti (tenteremo nelle prossime righe di giustificare questa formula) imposte dalle moltitudini. Si pensi  ad esempio alla Terza rivoluzione francese, i moti operai del 1848, repressi dalla borghesia attraverso la proclamazione dello stato d'assedio, con il conseguente passaggio dei poteri di polizia nelle mani dei militari. L'insurrezione che fluiva, si organizzava e si barricava nelle strade strette della vecchia capitale doveva essere dispersa, lasciata allo scoperto, sezionata e lacerata non solo dalle cannonate, ma anche dal nuovo assetto urbanistico della città. Il progetto del Barone Haussmann, il celebre “abbellimento strategico”, è dunque il progetto di una grande capitale moderna che nasce dallo stato d'assedio, contro l'eccezione rivoluzionaria.

Oggi viene da chiedersi se esista ancora, perlomeno nell'Europa della crisi, uno spazio che non sia in qualche modo interessato dall'eccezione, e anche quando si intenda questo termine come semplice sinonimo di eccezionalità, esso ha delle ricadute importanti in termini di diritto. Pensiamo agli hot-spot che dalla Turchia passando per le isole dell'Egeo e la Balkan Route, su fino a nord, costellano le attuali rotte migratorie. Pensiamo alla recente messa in discussione di Schengen, uno dei dispositivi che, agendo sulla libertà di movimento, maggiormente allude ad un'unità Europea oltre quella della governance politica e finanziaria. Questa “marcia indietro”, la reimposizione dei confini interni d'Europa è paragonabile alle limitazioni che possono essere imposte nella città in stato d'emergenza.

In questo scenario l'architettura diventa forense[3], assume cioè il ruolo di investigatore di una spazialità intesa prima di tutto come scena del crimine. La pianificazione come violazione dei diritti umani è ciò che vediamo accadere da decenni nei territori palestinesi per mezzo delle politiche di occupazione e più recentemente attraverso la costruzione di 730 km di muro. In Israele non è neppure necessario ricorrere allo strumento giuridico dello stato d'eccezione, esso esiste in forma permanente e trova una sistemazione priva di ambiguità all'interno dell'ordinamento giuridico nelle Defence (Emergency) Regulations che permettono di parcellizzare, dividere, arrestare, identificare, rinchiudere, bloccare, circondare ed espellere.

Francia, Israele, campi di concentramento e campi profughi. Dobbiamo quindi accettare la tesi che presenta l'eccezione quale carattere essenziale del potere? Toni Negri mette in guardia contro questa semplificazione. Sostiene che sia la governance, piuttosto che l'eccezione, a segnare la crisi della sovranitàe suggerisce di guardare allo stato d'eccezione come ad un “principio puramente quantitativo, che corrisponde cioè al tentativo di massimizzare la forza per eliminare l’avversario dal processo costitutivo della società politica”[4].

Sia Agamben che Negri, dunque, sebbene da prospettive opposte, non si azzardano a suggerire un utilizzo dello stato d'eccezione come una condizione di rapporto al diritto potenzialmente a favore della dimensione comune. Di conseguenza lo stato d'eccezione rimane un istituto saldamente nelle mani del potere costituito. Eppure, come le partecipazioni a questo progetto dimostrano, agli spazi dell'eccezione sovrana se ne contrappongono altrettanti che potremmo definire dell'eccezione comune.

Com'è possibile imporre una radicale torsione allo stato d'eccezione? Immaginarne una forma diversa che non si dia semplicemente come un'inversione speculare? Si può descrivere uno stato d'eccezione “dal basso” che nasce cioè come espressione del comune contro il potere costituito? Certo si potrebbe contestare la contraddittorietà di una qualsiasi pratica del comune (un'occupazione, una rivolta, un sistema di autogoverno territoriale) che si presentasse come eccezione, poiché ciò significherebbe avere introiettato la prospettiva statuale, significherebbe interpretare se stessi come qualcosa di eccezionale nel senso di saltuario, passeggero, incapace di strutturarsi come norma. Qui va prima di tutto chiarito che il termine eccezione andrebbe considerato non solo dal punto di vista statistico, ovvero come un richiamo a qualcosa di episodico e transitorio, ma anche dal punto di vista qualitativo, ovvero come disobbedienza alla legge, scarto rispetto all'ordine giuridico vigente che mantiene però con esso un rapporto paradossale. Inoltre exceptio, in Latino, si può tradurre anche come obiezione e nel diritto romano indicava un istituto attraverso cui il convenuto poteva replicare alle accuse dell'attore, ponendo appunto obiezioni di natura procedurale o di merito, invalidandone le pretese temporaneamente o in forma permanente.

Le pratiche che disegnano la geografia di questo progetto non hanno come priorità quella di farsi Stato (né probabilmente ne avrebbero la possibilità visti i rapporti di forza) per poi magari costringere le opzioni neoliberiste o dittatoriali nella posizione di eccezione. Né d'altro canto, i poteri costituenti hanno fretta di trasformarsi in costituiti, semmai hanno la priorità di produrre un una istituzionalizzazione di tipo nuovo, un diverso tipo di diritto. La provocazione è la seguente: come si può tenere assieme eccezione e potere costituente senza suggerire una loro omologia, senza che il secondo venga ridotto e sminuito nella sua pienezza, nella sua potenza produttiva? Se, da una parte, il potere costituente resiste all'integrazione in un rigido sistema di norme, lotta per sfuggire alle gabbie temporali e spaziali che gli si vogliono imporre, cioè la sua riduzione a potere straordinario e la sua fissazione all'interno del potere costituito, dall'altra i poteri statuali, nell'epoca della crisi della loro sovranità, tendono a fare dell'eccezione la regola. Il potere costituente, ontologicamente onnipotente ed espansivo, tende ad essere limitato, lo stato d'eccezione, contromisura temporanea, tende invece ad essere esteso in maniera indefinita.

Ma non è forse possibile sostenere che le diverse affermazioni del comune, fatte dell'esercizio della democrazia assoluta che è sinonimo di potere costituente, oggi si presentano come eccezioni (obiezioni) rispetto alla globalizzazione neoliberista e alla sua crisi, alle asimmetrie della guerra globale permanente? Non si scorge forse l'impulso alla sospensione della legge unita alla reinvenzione di istituzioni, forme di vita e modelli di autogoverno? A questo livello dovremmo lavorare per affermare un diritto del comune che non è sinonimo di legge e che non ha tra le proprie priorità quella di sottrarre il comune stesso all'eccezionalità (normandolo), ma piuttosto quella di rivendicarla come legittima: una episodicità permanente, un diritto fuori legge. Si tratta di seguire il ragionamento paradossale di Agamben fino a vederlo a testa in giù. Le eccezioni democratiche dovrebbero essere riconosciute (con un riconoscimento temporalmente esteso) come zone fuori dalla legge, pur rimanendo in rapporto con il diritto.

Proviamo allora ad illuminare alcuni caratteri di questo rapporto. Contro l'iperlegificazione di ogni aspetto della vita va affermato che il diritto non si esaurisce nel diritto positivo, cioè nell'insieme delle norme scritte che viene definito legge. Può infatti esistere un diritto anche “fuori legge”, laddove esistano sistemi di autogestione in grado di regolare la vita sociale secondo principi alternativi, oppure forme di autogoverno che esprimano ordinamenti giuridici altri, magari non inquadrati all'interno della forma statuale. E' questo il caso del Rojava, una regione del Kurdistan divisa tra Siria, Turchia e Iraq. Qui i Curdi hanno ritagliato una propria zona di autonomia (non uno Stato), regolata secondo i principi della dottrina del Confederalismo Democratico che prevede la convivenza tra etnie, religioni, l'applicazione di principi ecologici e la parità tra i sessi. Tutto ciò nel cuore del Medio Oriente devastato dalla guerra, resistendo agli attacchi di Daesh da un lato e alle violenze incessanti (coprifuoco, omicidi, demolizioni, bombardamenti) del regime di turco di Erdogan dall'altro.

Ma anche lo spazio urbano, come condizione globalizzata della vita oggi, è punteggiato da zone extra-ordinem[5], ovvero zone di antinomia, luoghi regolati da relazioni sociali che funzionano contro o al di fuori dell'ordinamento giuridico vigente. Si pensi alle occupazioni abitative (spesso organizzate in reti), agli spazi occupati o autogestiti, ai circuiti economici alternativi, solo per fare alcuni esempi. Il riconoscimento di questi tipi di antinomia preluderebbe dunque alla costruzione di una dimensione dialettica tra dentro e fuori del diritto a vantaggio di uno stato d'eccezione del comune.

“Spazi d'eccezione” include alcune esperienze di questo tipo, eccezioni dal carattere paradossalmente sistemico, istituzioni del comune, laboratori di forme di vita alternative contro la violenza della crisi del neoliberismo. E' necessario evitare la banalizzazione di queste esperienze in nome di un formalismo che ha scelto di glorificare l'informale, di “giocare” all'architettura temporanea mentre il displacement causato dalla gentrificazione si mangia il tessuto sociale di interi quartieri, mentre assistiamo al restringimento del welfare e all'inasprirsi della repressione e della brutalità poliziesca.

Negli Stati Uniti Detroit è da anni sinonimo di città in declino, la crisi dell'industria dell'auto ha causato lo svuotamento repentino di interi quartieri e soprattutto un'enorme svalutazione dell'immobiliare. Unreal Estate[6], così un gruppo di urbanisti ha definito il fenomeno che interessa la città del Michigan, dove il crollo verticale del valore economico del mattone ha “costretto” la popolazione a riscoprire e inventare nuovi valori d'uso (comune) fuori dall'economia di mercato. In questa vicenda di rottura delle vecchie enclosures e della loro trasformazione in commons metropolitani non si celebra il protagonismo della mitica classe creativa, quanto piuttosto quello della composizione metropolitana più impoverita e marginalizzata dalla crisi economica. Qui l'orto urbano e le pratiche di prossimità esprimono la necessità dell'invenzione di nuovi modelli di produzione, mentre in contesti dove il mercato immobiliare gode di ottima salute, le stesse pratiche spesso si limitano a realizzarsi come forma sofisticata di consumo dello spazio urbano, convivendo felicemente con i fenomeni di finanziarizzazione della città.  

A New York, al contrario di Detroit, l'estate rimane assolutamente real. E' dunque attraverso la gentrificazione che si esercita una spudorata violenza classista. Gli investitori non hanno nemmeno più bisogno di artisti squattrinati che facciano il “lavoro sporco”, hanno direttamente i musei. E' questo il caso controverso del “6th Brooklyn Real Estate Summit”, incontro riservato a grandi player del mercato immobiliare, paradossalmente ospitato, nel  novembre 2015, dal Brooklyn Museum, un'istituzione culturale largamente finanziata da soldi pubblici. Qui la resistenza molecolare (in cui la comunità artistica gioca un ruolo importante, ma certamente non unico) che si oppone alla gentrificazione non se la prende con gli hipster, il punto non è quello di preferire un club underground ad un caffé indie, ma piuttosto quello di fermare la cacciata di migliaia di residenti storici dalla città verso il New Jersey, contrastando così la drammatica distruzione del tessuto sociale dei boroughs, elemento imprescindibile di coesione e organizzazione biopolitica.

In Europa, soprattutto in paesi come l'Italia e la Grecia, la crisi ha significato un'accelerazione della dismissione delle grandi istituzioni pubbliche, un'ondata di privatizzazioni che non ha risparmiato antiche istituzioni del welfare e il patrimonio storico-architettonico, ovvero quegli elementi attorno a cui la città europea si è sviluppata dal Medioevo in poi. Questa tendenza illumina lo stretto legame tra privatizzazione e abbandono. Per valorizzare un edificio pubblico (pensiamo ad un teatro, un ospedale o una sede universitaria) sul mercato finanziario, magari attraverso il sistema della cartolarizzazione, esso deve essere abbandonato, svuotato. Poiché la vita, intesa come bios, non è solo ciò che il capitalismo odierno “mette al lavoro”, ma è anche ciò a partire da cui è possibile strutturare un contropotere, la materia per arginare lo spossessamento a mezzo di abbandono. E' questo il caso, ad esempio, della campagna “Invendibili”, promossa vittoriosamente dai collettivi di un' università veneziana contro la vendita di una sede storica di proprietà dell'Ateneo, il palazzo di Ca' Bembo, nel sestiere di Dorsoduro. Per gli studenti veneziani occupare quella sede ha significato l'iniezione in essa di molteplici valori d'uso, l'utilizzo delle aule a scopo di autoformazione, l'atelier artistico, il cinema, la riapertura del magnifico giardino di cui oggi può usufruire chiunque, non solo gli iscritti all'università, ma anche i bambini dell'adiacente scuola d'infanzia, ovviamente con famiglie al seguito.

Ecco perché, come ha recentemente scritto un noto intellettuale italiano[7], se la lotta per la salvaguardia di Venezia rappresenta simbolicamente la lotta per la salvezza di tutte le città storiche, va aggiunto che è necessario superare il concetto di mera salvaguardia, cioè l'idea che il patrimonio debba essere semplicemente conservato (nelle sue caratteristiche materiali, nel suo assetto patrimoniale e nel suo ruolo di depositario storico-culturale). Il patrimonio va riconquistato, va innervato di bios, va associato a nuovi valori d'uso. In questo processo di riappropriazione il diritto alla città non può certo riprodurre un approccio nostalgico. Oltre alle tattiche molecolari di sopravvivenza urbana, è necessario che esso operi all'altezza della condizione urbana presente, delle sue contraddizioni sociali, politiche ed economiche. Solo così le eccezioni positive potranno strutturarsi in rapporto ad un diritto del comune


[1]    G. Agamben, De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité, in Le Monde, 23-12-2015, http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/12/23/de-l-etat-de-droit-a-l-etat-de-securite_4836816_3232.html

[2]    Dell'utilità del  nemico interno. Intervista a Mathieu Rigouste, a cura di Carlotta Benvegnù, Simona De Simoni, Davide Gallo Lassere, in Effimera, http://effimera.org/3354-2/

[3]    vd. il progetto Forensic Architecture, http://www.forensic-architecture.org/

[4]    A. Negri, La sovranità fra governo, eccezione e governance, in Uninomade, http://www.uninomade.org/la-sovranita-fra-governo-eccezione-governance/

[5]    P. Cognini, Extra Ordinem. La zona franca dei beni comuni, in Global Project, http://www.globalproject.info/it/in_movimento/extra-ordinem-la-zona-franca-dei-beni-comuni/14534

[6]    A. Herscher, The Unreal Estate Guide to Detroit, University of Michigan Press, 2012.

[7]    S. Settis, Se Venezia Muore, Einaudi, 2014.