Sono sparite le occhiaie, ma poi è sparito anche il sonno

Il quarto articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

30 / 5 / 2020

Il quarto articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

Una mattina di questa quarantena mi sono svegliata e sono andata in bagno, mi sono lavata la faccia e mi sono fermata a guardarmi allo specchio. Fino a qui tutto come sempre ma quel giorno era diverso dagli altri, non perché sarei riuscita a passare meno di dieci ore davanti a uno schermo ma perché mi sono resa conto che non avevo più le occhiaie. Non vi preoccupate, non è una riscrittura del Il naso di Gogol’ anche se ho vissuto per un attimo lo stesso stupore surreale del protagonista, Kovalév, quando non trova più il proprio naso.

Per raccontarvi questa storia devo prima farvi un breve riassunto del mio dicembre e del mio gennaio: un convegno preparato in aeroporto, una Scozia ghiacciata e una Slovenia innevata, un bacio che non ho ancora capito se sia finito bene o male, un trasloco (in un posto felice anche se con quattro piani senza ascensore), troppe ore a lavoro causa turisti & festività, due giorni esatti di vacanza passati in treno, un concentrato di scadenze universitarie, cinque attacchi di panico.

Mentre il mio febbraio è iniziato così: mia madre mi ha detto che si è preoccupata che mi stessi facendo seriamente del male, ho assaggiato per la prima volta della mia vita dei molluschi, mi sono presa una settimana di vacanza per ricordarmi come si fa a respirare. Dopo questa mia settimana di pausa, le università hanno iniziato a chiudere e insieme i musei. Così mi sono trovata a casa senza corsi e senza lavoro, abbastanza felice di aver il tempo per leggere e pure il tempo di scrivere degli articoli che rimandavo da un po’. Ci sono voluti pochi giorni anche per farmi dormire, azione abbastanza inaudita nella mia vita pre-pandemia piena di cose da fare. E così inizia questo racconto, con delle dormite, con meno stress, con meno ansie e quindi meno occhiaie.

Poi il tempo passava, tutto chiudeva, si doveva rimanere in casa. E così gli occhi hanno iniziato a spostarsi dalle pagine dei libri allo schermo del computer: le lezioni, le esercitazioni, la famiglia, le amiche e gli amici, le faccende di cuore, le assemblee e le riunioni, i concerti.

Ci sono voluti pochi giorni prima che mi comparisse una nuova emicrania. Nuova nel senso che non era la solita, quella solita la sapevo bene o male gestire. E così finisce anche il racconto perché sono tornata presto a non dormire, sono tornata a vivere questi momenti in cui mi viene ansia, mi viene da piangere, mi spariscono le forze, fatico a respirare proprio quando vorrei andare a dormire. Inizio a pensare che i pochi progetti che avevo per il futuro imminente sono svaniti nel nulla, che non mi è stato rinnovato il contratto, che una delle ipotesi più probabili è dover tornare dai miei genitori in mezzo alla campagna cremonese, che non riuscirò a scrivere questa terza tesi, che i lavoretti in nero sono spariti pure quelli ed effettivamente erano un bell’aiuto, che le sedute con la psicologa su skype non sono per nulla terapeutiche, che la mia famiglia che è lontana da anni ora è stranamente irraggiungibile, che mi sento sola e trascurata anche se in questo momento c’è una persona lontana (non soltanto geograficamente) a cui scrivere/che mi scrive buonanotte e buongiorno.

Così passo notti intere a non dormire o a cercare rimedi – per il sonno, almeno. Il mio comodino parla da solo: gocce, goccine, pastiglie di ogni forma, chimica e natura. Il mio rapporto con il sonno è complicato da anni. Chi mi conosce bene non mi chiede nemmeno come sto, ma direttamente se in quel periodo sto dormendo; a volte le mie occhiaie rispondono al posto mio. Per dormire non ho sempre il tempo: provare a cambiare il mondo perché ci sono troppe cose che non vanno, le lezioni in università e le esercitazioni da fare, lavori e lavoretti da cui non si scappa; è difficile conciliare tutto in una sola giornata. Si iniziano a trascurare le amiche e gli amici (sante, vi faranno santi!), non si trova più il tempo per leggere o andare al cinema, ci si dimentica di mangiare. Ci si rovina, in poche parole. Ho ritrovato questo tweet che ho scritto il 29 gennaio: «mi sono accorta di avere del tempo libero e sono super felice ...poi mi sono accorta che sono felice per avere esattamente un’ora e tre quarti libera e che è molto poco come tempo per essere così felici». Ecco, questo è il breve riassunto della vita pre-pandemia. Se non che dopo il primo momento di felicità da “vita da divano”, la quarantena ha esasperato tutte queste situazioni, azioni e relazioni. La solitudine, la tristezza, le angosce: ho sentito tutto.

Mi viene in mente una frase di Claudio Misculin, matto di mestiere e attore per vocazione, che è stato il fondatore di quella che per ora si chiama Accademia della Follia. Un progetto teatrale nato e cresciuto all’interno di San Giovanni a Trieste, quello che fu il manicomio che Franco Basaglia e la sua équipe hanno aperto e quello che oggi è un magico roseto. Insomma, la storia è molto lunga e questa frase in realtà è molto breve. Fa così: «prendersi il proprio tempo è un atto di ribellione».

Potete benissimo dirmi che non è la frase più illuminante che sia mai stata detta e vi darò ragione. Però questa frase ha descritto l’inizio della mia quarantena e vorrei che continuasse ad avere questo potere. Perché quello che questa quarantena mi ha insegnato è che fermarsi fa proprio bene alla salute. Prendersi il proprio tempo è un atto di ribellione perché ti mette faccia a faccia con i tuoi bisogni e le tue emozioni. Ma soprattutto ho capito che dovremmo avere il diritto di fermarci, di non correre, di non inseguire, di fare pausa quando ne sentiamo il bisogno. Il diritto a non avere occhiaie e a dormire sonni sereni. Il diritto a non avere attacchi e il diritto ad avere un comodino pieno di libri e senza medicine.

Sono le tre di notte, ora spengo il computer e mi sposto nel letto ad aspettare il sonno.