Siamo capricciosə!

Pride, LGBTQIAPK+ e movimenti "radicali" nell’Italia odierna.

17 / 7 / 2022

Com’è cambiato il Pride in questi anni? La comunità LGBTQIAPK+ ad oggi è degnamente rappresentata dalle realtà aderenti all’associazionismo? Le forze dell’ordine possono partecipare ai Pride? Il rainbow washing è un problema realmente sentito oppure c’è qualcun* che è felice della sponsorizzazione da parte della Coca-Cola? Queste sono solo alcune delle domande che, in quanto attivisti, ci siamo fatti più e più volte e alle quali abbiamo provato a rispondere insieme. Rispondere sì, ma ovviamente senza alcuna pretesa che quanto segue sia in qualche misura esaustivo.

I recenti episodi che hanno visto Napoli tornare all’onore delle cronache a causa delle vergognose dichiarazioni di Massimiliano Di Caprio, proprietario della pizzeria Dal Presidente, di forte stampo omofobo ci hanno indotto a prendere parola. Forse anche a causa del clamoroso dietro front di Antinoo Arcigay Napoli, dapprima ferma nello stigmatizzare le parole di Di Caprio salvo poi incontrare il personaggio in questione quasi a conferire un’assoluzione a colui che aveva offeso senza tenere conto delle sensibilità di coloro che si erano sentit* offes*. Questi e molti altri elementi, lo crediamo fortemente, meritano una riflessione approfondita dentro e fuori dalla comunità.

Volendo fare un quadro della situazione attuale delle persone LGBTQA+ in Italia è subito evidente che il problema è prima di tutto culturale. Siamo un paese fermo ai primi duemila in cui la situazione dei diritti della popolazione LGBTQA+ è vista con pietismo dalla borghesia liberalprogressista del paese mentre completamente censurata dalle forze più conservatrici. In questo stato dell’arte desolante il problema è prima di tutto culturale, infatti, qualsiasi forma di discorso volto anche solo ad indagare la situazione del paese reale viene censurato. Siamo ancora il paese che manda in seconda serata i cosiddetti “film a tematica LGBT” in cui un bacio omoerotico alza un polverone inutile e in cui la classe giornalistica del paese continuamente confonde outing e coming out nel linguaggio scritto e orale, ignora l’uso dei pronomi e che esista una questione gender (non ultima la ridicola questione sulla schwa che ha investito il mondo accademico) e titola in maniera vergognosa articoli di giornali che potrebbero essere usati solo come carta igienica e che invece si trovano ad essere l’unico canale di comunicazione e di emersione della reale situazione delle minoranze queer in questo paese (basta pensare ai vergognosi articoli sulla morte di Cloe Bianco).

In questo contesto ci scontriamo ogni giorno con una vera e propria censura di qualsiasi mezzo d’informazione e divulgazione sulle persone LGBTQA+ e certo non aiuta l’ospitata di qualche ricco maschio bianco cis omosessuale nei programmi televisivi che magari esprime anche posizioni antiabortiste. In questo contesto il paese si presenta ovviamente fortemente spaccato con le grandi città, con in testa Milano, che non altro che  sono grosse vetrine gay in cui, in un contesto liberal e ferocemente capitalistico, i grossi brand, e con loro la morale borghese, hanno capito che per continuare a far produrre e consumare bisognava dare seguito al cosiddetto rainbow washing investendo interi quartieri dei centri storici come piccole isole felici dove poter essere se stessǝ a suon di “love is love” e “i gay sono più sensibili”.  Oltre questi luoghi in cui il capitale ha imparato a giocare sul nostro stesso tavolo, consegnandoci un’accettazione parziale e di facciata, esiste l’immensa Italia della periferia e della provincia. In questi luoghi tutti i giorni le persone LGBTQA+ sono sottoposte a stigmi sociali, a violenze fisiche e psicologiche oltre ad emarginazione sociale. Nascere attualmente in Italia in una città di provincia di 30mila abitanti del Veneto o del sud significa per una persona LGBTQA+ essere costretti o a soccombere e reprimersi oppure a dover emigrare verso centri maggiori. Se quindi da una parte abbiamo dei territori iper-liberali e pensati come vetrina gay per l’Italia dietro c’è uno spaventoso entroterra retrogrado e abitato dai peggiori stigmi sociali e umani. A questo quadro, già desolante, va aggiunto un insieme di tutele legislative del tutto insufficienti, minime e calate dall’alto come una gentile concessione di un parlamento a maggioranza maschile eteronormato, di ricchi cisgender che esulta quando anche delle leggi indecorose e protettive del nulla come il DDL ZAN vengono bocciate.

In questo quadro bisogna interrogarsi sul ruolo che hanno avuto le associazioni. Queste spesso si sono formate e adeguate alle esigenze dei territori estremamente sfaccettati di cui sono parte per cui risulta complicato provare a dare delle linee di tendenza uniche. In territori periferici o di provincia e nei contesti più fobici spesso per un collettivo tesserarsi ad associazioni di portata nazionale come Arcigay, pur non condividendone tutte le politiche, significa avere accesso ad una rete nazionale, ingrandirsi e ricevere fondi per sostenere spesso le buone pratiche innescate in contesti degradati. Due esempi di queste pratiche sono gli screening gratuiti (del tutto insufficienti e limitati spesso solo all’HIV, ma almeno esistenti) che in molti posti d’Italia rappresentano gli unici luoghi in cui fare un controllo per le MST senza passare per i reparti di malattie infettive degli ospedali o le case di accoglienza per i giovani in un paese in cui si viene ancora cacciatǝ di casa dopo un coming out.

Se la situazione però è ancora così difficile è perché spesso le segreterie nazionali delle associazioni LGBTQA+ non hanno svolto il ruolo di organizzatori della lotta delle minoranze, ma piuttosto hanno fatto da argine al dissenso sociale e alle proteste di piazza. Per cui l’associazionismo italiano non si è mai battuto davvero per imporre dal basso delle proposte di legge e dei diritti che venissero dalle esigenze dei collettivi e delle assemblee ma hanno fatto da supporter di disegni di legge già belli e confezionati presentati da singoli membri del parlamento. A questo doppio ruolo di argine della conflittualità e quindi di ostruzionismo delle proposte dei collettivi esercitato dalle associazioni LGBT è imputabile il grande ritardo in materia di diritti che l’Italia si trascina dietro.

Pur volendo considerare sensata l’ottica di andarsi a sedere ai tavoli col governo in alternativa alla lotta di piazza, a questi tavoli il mondo delle associazioni non ha mai battuto i pugni o chiesto niente di più di quello che veniva spontaneamente e gentilmente offerto dall’élite politica del paese. A questo va ad aggiungersi che molti circoli delle grandi città (Napoli, Roma, Milano) hanno perso un’ottica collettiva e comunitaria della lotta per i diritti per dare adito a gestioni privatistiche e aziendalistiche delle segreterie locali, legate al culto delle singole personalità all’interno dei direttivi. Quest’ondata di personalismo non solo si è radicata nelle associazioni ma ha legato anche le singole proposte di legge (già insufficienti di loro) a personalità che non possono non farci porre seri problemi di rappresentanza. Leggi come la Cirinnà sono legate alla singola personalità della parlamentare Monica Cirinnà, una donna ricca bianca eterosessuale e cis a cui l’associazionismo ci ha anche insegnato ad essere grati perché grazie a lei si è riusciti ad ottenere una legge sulle unioni civili del tutto insufficiente ma meglio di nulla. Simili problemi possono essere mossi sul DDL Zan dove la figura di Alessandro Zan anche lui omosessuale cisgender eletto quasi a sex simbol oltre che paladino dei diritti. Peggio ci sentiamo quando, come nel caso di Arcigay Napoli e dell’ormai ampiamente dibattuto caso delle dichiarazioni del proprietario della pizzeria “Dal Presidente”, l’associazionismo decide di dare spazio a colui che ha offeso – e che ha chiesto scusa poiché preoccupato solo ed unicamente di sentirsi il portafogli più leggero – piuttosto che a chi si era sentit* offes* dalle sue parole cariche di odio omofobo.

Questi episodi raccontano di una galassia, quella dell’associazionismo LGBT+, ormai in gran parte disposta alla compatibilità e al compromesso laddove il quadro generale imporrebbe quanto meno una lettura più radicale delle necessità della comunità tutta nella sua interezza.

In questo scenario desolante, che fine fa il Pride? A voler dare una prima occhiata, una gran brutta fine. Crediamo però fondamentale fare una premessa: I Pride, anche quelli finanziati dalle grandi corporations, rappresentano per tantissim* l’unico momento dell’anno in cui essere se stess*. Se oggi il Pride è divenuto una manifestazione svuotata dal senso politico e resa compatibile con i profili social del peggior centro sinistra – che ricordiamo essere allegramente alleato di governo con la Lega e Forza Italia, con la scusa dell’emergenza – la colpa è di chi quel Pride lo costruisce senza alcuna ambizione di radicalità, senza alcuna ambizione di rappresentanza e soprattutto senza nessuna cura nei confronti delle migliaia di soggettività che compongono le piazze e che vivono quello dei Pride “istituzionali” come l’unico momento dell’anno in cui potersi radunare.

Calvin Klein, Coca Cola, H&M, Alcott, Absolut Vodka, Adidas, Primark sono solo alcuni dei grandi marchi che dal 1 al 30 giugno si tingono di arcobaleno per sponsorizzare i propri prodotti. Peccato che ognuna di queste etichette abbia al suo interno contraddizioni grandi quanto una casa: sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, costrett* in condizioni oltre il disumano come nel caso di Adidas. Costruzione delle proprie fabbriche in paesi come il Bangladesh nel caso di Primark, dove si rischiano pene severissime se si viene “scoperti” omosessuali, senza parlare del fatto che moltissime di queste aziende – pensiamo alla più “iconica”, H&M – portano in alto la bandiera del così detto “fast-fashion”, un modello di produzione di capi a prezzi stracciati che ogni anno registra un impatto ambientale catastrofico. Tra capi di abbigliamento scartati, avanzi di soluzioni coloranti e tessuti rovinati a causa di trattamenti impropri l’impatto che questo tipo di industria ha sul pianeta ogni anno è enorme. Perché diciamo tutto questo? Non è bello che anche le grandi aziende riconoscano l’importanza dei diritti della comunità LGBTQIAPK+? La risposta è no. E’ no perché non è pensabile tenere slegati diritti civili e diritti sociali. Non serve a nulla scrivere su un cartellone della PUMA “love is love” se nel frattempo quell’azienda sfrutta intere aree del sud globale per rivendere le proprie scarpe arcobaleno nell’occidente bianco, ricco ed industrializzato. Così come non serve a nulla tingersi di arcobaleno se durante il resto dell’anno metti in campo politiche climalteranti infischiandotene dei territori in cui produci ricchezza – per te stesso – devastandoli a poco a poco. Tutto questo si chiama rainbowashing e crediamo che vada combattuto con la stessa energia con la quale si combattono le opzioni politiche reazionare che vorrebbero vederci sparire dalla faccia della terra.

In ultima battuta, crediamo che il Pride sia una manifestazione politica prima ancora che una grande festa: crediamo per esempio che durante i Pride sia necessario parlare di diritto alla salute (anche mentale), di diritto al lavoro, alla casa. Siamo convint* che non sia possibile parlare di inclusione e diritti se non si tiene conto di quanto poco inclusiva sia la nostra società e di quanti diritti manchino alla nostra comunità. Crediamo fermamente che la lotta debba essere intersezionale.

In virtù del suo essere una manifestazione politica, crediamo altresì che ci siano delle categorie che semplicemente NON POSSONO prendere parte alle nostre manifestazioni: sì, parliamo delle forze dell’ordine. Il polverone mediatico che ha travolto il Pride di Bologna è stata un’occasione per poter dire una cosa che per la galassia dell’associazionismo LGBT+ è stata una bestemmia: le forze dell’ordine sono il braccio – letteralmente – armato dello stesso sistema che definiamo complessivamente violento e ciseteropatriarcale. La retorica delle mele marce, del “ci sono anche poliziotti bravi” ha sinceramente stancato. Anche il più progressista dei carabinieri un giorno arresterà una sex worker, sgombererà una casa occupata, getterà via le coperte di un clochard in nome del “decoro”, arresterà un sedicenne per una canna, prenderà a manganellate student* e disoccupat* in corteo. D’altronde, volendo fare un esempio concreto, chi è che ha represso nel sangue il Pride di Istanbul non più tardi di 15 giorni fa? Ecco, appunto. La retorica per la quale la comunità LGBTQIAPK+ debba essere la paladina dell’inclusione nei confronti di tutti, finanche dei nostri nemici, dovrebbe essere definitivamente messa da parte. Perché dovremmo invitare a marciare con noi chi da sempre ci osteggia e ci relega ai margini della società? E’ una domanda che lasciamo aperta a chi leggerà.

Provando ad avviarci alle conclusioni, non possiamo fare a meno di notare che molte esperienze interessanti in tutto il paese stanno dando prova di voler dare battaglia in maniera radicale sulle questioni di genere: Roma, Milano, Padova, Bologna, Napoli e altre città raccolgono nelle proprie strade esperienze autorganizzate che dal basso e con una consapevolezza che fa impallidire le associazioni di cui sopra provano ad interrogarsi su come attraversare le proprie città, su come costruire discorsi alternativi al “love is love” di cui non sappiamo più che farcene. Sappiamo che non si tratta di un percorso semplice: dall’altro lato c’è un paese retrogrado con un Parlamento imbarazzante – e a guardare i sondaggi quello che gli succederà non sarà migliore, anzi – con accanto quelle associazioni che anziché porsi il problema di rappresentare una comunità in continua evoluzione si arroccano sulle proprie posizioni rischiando di preservare solo loro stessi o quel che ne resta. La sfida è quella di riuscire a costruire con umiltà, sorellanza, dal basso, dentro e fuori i Pride istituzionali un orizzonte radicale che sappia parlare all* tantissim* che sentono sulla propria pelle la violenza del patriarcato, della ciseteronormatività e che hanno voglia di contrattaccare.

Del resto, la prima volta fu rivolta.