Siamo ancora vivi, bastardi (*)

(*) Papillon, all'ennesima fuga dall'ennesimo carcere

16 / 7 / 2012



run baby run, stay angry, stay free.

Ai due ostaggi che si sono resi irreperibili e  a quelli purtroppo presi va il nostro sostegno. Irreparabile l'ingiustizia, irrepereribili le vittime: siamo 300mila solidali della loro libertà.



Nei giorni della rabbia cupa e degna dopo la sentenza della cassazione sul G8 di Genova, l'assenza di giustizia è un assedio. Non fa respirare, non lascia spazio alla pace. I pensieri di tutti sono come lupi in una gabbia dalla quale si preparano ad evadere: nessuno di noi è assolto, nessuno di noi è rassegnato.

Nonostante la rabbia di aver perso i 10 espiatori – che infrange la lucidità come un sasso contro uno specchio perché nessuno è sacrificabile e non sono concepibili i danni collaterali di nessun tipo, non abbiamo perso tout court.

A meno di voler considerare la storia come una parabola lineare e teleologica, una conquista di linee di campo definitiva e immutabile anziché una battaglia che continua con ogni mezzo necessario, anche dopo le mazzate pigliate, senza mai sentirsi al riparo all'ombra di conflitti del passato.

Da schiavi di faraoni figli di dèi siamo diventati schiavi ribelli insieme a Spartaco, da racaille lungo i docks siamo diventati organizzati e scioperanti, da ultimi della storia, mentre le stelle stavano a guardare, siamo diventati comunardi, partigiani, autonomi, centri sociali, noglobal, movimenti.

Non abbiamo perso, la storia non finisce qui. Stiamo lottando, ostinatamente, perché la libertà non è un regalo di nessuno. E diciamo “siamo ancora vivi, bastardi”.

Sia detto con sobrietà in questo momento, con umiltà e fratellanza ai tantissimi compagni e fratelli.

L'intensità della repressione di Genova è stata la misura di quanto avessimo ragione. Tanta ragione da fare abbastanza paura per procedere alla “più grande sospensione dei diritti democratici” mai avvenuta nell'occidente del dopoguerra.

Dopo un primo decennio di instabilità macroscopiche e incontrollate nei mercati finanziari arrivò il 2001 e incluse l'11 settembre. Due grandi matrici del terrore, dell'incertezza irrazionale e incommensurabile che è nei cromosomi del presente.

Da allora abbiamo avuto contro il dispiegarsi definitivo della guerra permanente come tattica di polizia globale e la trasformazione definitiva della polizia in un esercito a bassa intensità che garantisce la governance, massacrando ovunque o i movimenti nelle piazze o singoli corpi per farne degli exempla episodici per i molti che praticano la fuga dal controllo, o ne sentono forte il desiderio.

Dopo pochi anni è scoppiata definitivamente quella crisi che a ondate ha travolto e deragliato le stesse strategie seguite dal capitalismo, in un processo di trasformazione che ancora oggi non è stabilito, e intrinsecamente tale forse rimarrà per un lungo ciclo a venire. Un'instabilità sistemica e non governabile che ha scompaginato anche la capacità teorica e di colpire i nessi materiali dei movimenti.

Eppure, nonostante questa guerra agli umani di incredibile intensità globale, che oggi assume le vesti tecniche delle necessità ineluttabili e non negoziabili e che nel 2001 sembrava dispiegarsi solo altrove, “nel Sud”, non sono stati 10 anni di riflusso, di assenza e di stordimento.

Ci sono state, e continueranno ad esserci, mobilitazioni straordinarie, per qualità e vastità, ovunque, nuove pratiche e nuovi filoni di pensiero hanno cominciato a maturare, primo fra tutti quello sui beni comuni e, a seguire. una nuova capacità di saldare la radicalità del pensiero politico e delle pratiche del conflitto con la la complessità di un pensiero ecologico non manieristico.

Negli ultimi anni si sta riaccumulando una volontà diffusa di conflitto, di riappropiarsi delle piazze, delle strade, del discorso pubblico e soprattutto della sovranità sulla propria vita e sulla vita di un intero pianeta, con radicalità, valicando, di nuovo in massa, il tabù della legalità che ridiventa un feticcio da abbandonare dentro i recinti.

Siamo ancora vivi, bastardi.

Nessuno è stato veramente sorpreso o stupito della sentenza della cassazione sui 10 capri espiatori di Genova.

Solo la speranza era forte, intensa. La speranza che, in qualche modo, l'ipotesi di reato di devastazione e saccheggio fosse riconosciuta incongrua, assurda, inapplicabile perché essa prevede un'estensione distruttiva e una pianificazione che sono oltraggiosamente introvabili sia nella pochezza degli atti contestati sia nella cornice di Genova, dove, è ormai, stabilito, si dispiegò niente altro che una pura resistenza all'assalto sistematico scatenato dallo stato contro le vite di migliaia di persone che manifestavano. Tutto il resto è, di fronte e questa vergogna terribile, assolutamente insignificante.

Una speranza naufragata nel mare magnum di una frase del sostituto PG Gaeta. Una frase rimbalzata ovunque in rete: rompere una vetrina, lanciare una molotov, bruciare un bancomat, si configurano per una gravità che trascende “il fatto in sé”.

Qualcosa che, evidentemente, non vale per chi una molotov l'ha portata dentro la Diaz per sommergere di merda 92 innocenti massacrati e salvare il culo ai loro carnefici: per lui vale solo il fatto in sé, un banale falso, come la giustificazione quando si fa sega a scuola. Così come per tutti i responsabili della Diaz, di Bolzaneto e di Genova.

Per chi tutela l'ordine, quindi, i fatti sono solo “in sé” – quando ha la sfiga di essere maldestro nel compierli, visto che comunque non è riconoscibile nel farlo – perché è già stabilito che la loro trascendenza, l'ordine appunto, è giusta.

Per chi l'ordine lo vuole sovvertire, invece – e noi fortissimamente lo volevamo, lo vogliamo e lo vorremo, e avevamo, abbiamo e avremo ragione, 10x100 ragioni – i “fatti” valgono non in sé ma solo inscritti nei teoremi pretestuosi che alla fine servono solo a tradurre quell'unico, abnorme, delittuoso fatto: che non chiederemo mai il permesso per essere liberi, che non accetteremo mai di essere servi.

Alle volte siamo un po' scomposti nel farlo, dimentichiamo l'eleganza mentre ci sparano, ci gasano, ci pestano, ci imprigionano, ci torturano in 10x100 modi lungo tutta la nostra vita.

Il problema non è stata nemmeno tanto “la roba”, non la vetrina o il bancomat, pur nel loro pregnante portato simbolico: i delitti contro il patrimonio vengono puniti spesso molto meno (seppur sempre troppo) duramente. E dentro ai bancomat e alle banche non ci sono nemmeno più veramente i soldi, smaterializzati, sottratti o moltiplicati e inventati per essere impiegati dove è più necessario, istante per istante, come bombe destabilizzanti della vita di un intero pianeta, come una flotta immensa di “joint straight fighters”, capace di riaccumularsi e colpire ovunque in frazioni di secondo.

Così come il problema non è, evidentemente, nemmeno più la vita “in sé”, ma solo il suo controllo: una manciata di mesi a degli assassini – poliziotti o uomini “gelosi” impazziti per la fuga di donne (come qualcuno notava in rete) – contro 10 anni a chi si difendeva o voleva infrangere dei simboli di poco valore materiale.

Il problema, per la “giustizia”, è proprio la nostra volontà, quella che in tanti e diversi abbiamo mostrato a Genova e innumerevoli altre volte, nelle stagioni precedenti e successive, così come in Val di Susa. Il problema è colpire e agire per sovvertire e liberare e non per un vantaggio personale – accettabile e previsto, in fondo.. non fan così le banche e le multinazionali, il cui profilo comportamentale è perfettamente calzante con la descrizione di sociopatie schizofreniche?

La “compartecipazione psichica” con le sue varianti, tanto usata contro i movimenti, specialmente da alcuni magistrati-totem, eroi della sinistra, come Caselli nelle sue crociate contro gli studenti o ibnotav, non è che un jolly per consegnarci all'arbitrio totale della punizione, per lasciare aperto uno spazio di manovra senza confini e definizioni precise, per costringerci tutti all'ombra di quell'unico, abnorme, delittuoso fatto: che non chiederemo mai il permesso per essere liberi, che non accetteremo mai di essere servi.

Questa sentenza è una ghigliottina: una vendetta e un monito allo stesso tempo, uno strumento del terrore per tagliare la testa a chi vuole usarla, per intimorire il cuore che spinge, per fermare il corpo che segue.

Come IT, il pagliaccio suadente e terribile di Stephen King che si installa come un malware nei pensieri e divora chi rimane solo.

Ma noi non siamo soli.

Ripartiremo, sempre, perché arrendersi è perdere ma perdere non è né arrendersi né rassegnarsi sconfitti. Ripartiremo, con il dolore e la rabbia, senza indulgere né all'estetica del gesto (e tantomeno del martirio), né alla timidezza nell'uso della forza o della violenza.

Ripartiremo, soprattutto, con la feroce intelligenza di costruire un'alternativa che sia una sovversione efficace, virale e possibile per molti, moltissimi.

In 10x100 modi, ripartiremo, sempre: non è cosa vana ma il carattere stupendo della nostra natura umana.

“We never forget, we never forgive. Expect us”. We're coming again and again.