Sciopero generale: una grande sfida che ci aspetta

di Luca Casarini

3 / 3 / 2011

La data è fissata, su questo non c’è più alcuna discussione da fare.  Il 6 maggio sarà la giornata dello sciopero generale in questo paese.  Dopo mesi di pressioni, e dopo che via via, dal pubblico impiego al  commercio, il governo e confindustria abbiano fatto proprio il “piano  Marchionne”, addirittura peggiorando le condizioni di lavoro di altri  milioni di persone oltre agli operai Fiat, la Segretaria Camusso ha dovuto annunciarlo. Lo ha fatto con grande riluttanza, lo si vede  dalle modalità ufficiali ( quattro ore ) e dai tempi ( fra due mesi )  ma comunque ha dovuto. Questo primo elemento, lo sciopero generale,  che è stato al centro anche della discussione dell’assemblea di  uniticontrolacrisi dello scorso due marzo a Bologna, va valorizzato.

E’ una conquista, difficile come tutto ciò che si è ottenuto contro la  volontà del “quartier generale”, strappata da mesi di lotte della Fiom  e degli studenti, da una spinta dal basso che ha riempito le piazze di  questo paese per la democrazia ma interrogandosi se sia possibile  disgiungerla dai diritti sociali, da un’opinione pubblica che prende  corpo attorno al bisogno di giustizia ma che osserva come essa spesso  non coincida con ciò che è “legale”. Fino a ieri partivamo dalla  richiesta che ci fosse, oggi invece siamo più avanti, tutti, nel  convergere sul 6 maggio per costruirlo realmente. Non è vero che tutto  è sempre uguale, nemmeno gli scioperi lo sono: la difficoltà con cui  questo è stato letteralmente strappato alla burocrazia sindacale, che  è sintonizzata sulle esigenze del Pd più che su quelle dei lavoratori  e delle lavoratrici, lo testimonia. Se non lo capiamo, vuol dire che  ancora una volta l’ideologia o il confortante esercizio del ruolo del  minoritarismo, ci offusca il cervello ed impedisce la circolazione di  aria nuova: al deficit di speranza e di immaginazione che ci hanno  consegnato lunghi tempi grigi, bisogna saper rispondere osando. Io oso  dire che il 6 maggio sarà una grande giornata nella quale il paese si  deve fermare, e paradossalmente proprio le titubanze del gruppo  dirigente del più grande sindacato italiano, e i suoi dispettosi  tentativi di sabotaggio, torneranno utili, se lo vogliamo, a rendere  straordinario ed innovativo questo sciopero.

Certo perché ora, come  abbiamo spinto perché fosse proclamato e divenisse l’occasione per  ricomporre socialmente e politicamente tutte le lotte di questi mesi,  ora dobbiamo credere che le “misere” quattro ore di indizione  ufficiale saranno l’occasione per un nuovo grande scontro all’interno  della stessa Cgil. Uno scontro positivo, non semplicemente fra  “destra” e “sinistra” sindacale, ma tra un’idea di sindacato e  un’altra, una chiusa ed ingessata nei rituali secolari e l’altra che  si mescola alla società viva e in movimento di questo paese. Già il  fatto che il pubblico impiego abbia già annunciato che estenderà la  durata dell’astensione dal lavoro a tutta la giornata, è un fatto  concreto. La Fiom può fare altrettanto, e nulla impone che intere  Camere del lavoro, a livello territoriale e autonomamente decidano di  scioperare otto ore. Ma a questo punto entra in gioco dunque, nello  spazio lasciato libero dall’ufficialità, la qualità soggettiva dello  sciopero: si aprono infatti in questo modo le possibilità reali di  costruzione dal basso, e quindi ancora una volta fuori dal  cerimoniale, di praticare insieme il blocco della produzione e del  funzionamento “normale” dell’italia.

La generalizzazione dello  sciopero non è più dunque un aggettivo che accompagna la programmata  astensione dal lavoro di milioni di persone, ma coincide con essa  perché nulla è scontato o prevedibile.

Sciopero significa che la gente  non va a lavorare e non può andarci perché non funziona niente, perché  tutto è bloccato. Significa che si fermano fabbriche, scuole, uffici  pubblici. Con questa indizione è chiaro che tutto ciò sarà da  conquistare sul campo, costruendo la più grande iniziativa sociale  degli ultimi anni.

Pensiamoci un attimo: se lo sciopero fosse stato  indetto di otto ore, in pompa magna dalla Camusso e dalla sua  Segreteria, sarebbe stato molto più difficile interloquire con i  delegati di fabbrica, mescolare nei territori le rivendicazioni di  studenti, precari, immigrati con quelle di operai e dipendenti  pubblici. Tutto sarebbe stato più blindato, già ricomposto ai vertici  della piramide. Ora invece il modo per scioperare si trasforma nella  necessità, per tutti, di farlo insieme, perché di garantito dall’alto  c’è poco.

E qui veniamo alla data. Lontana? Rispetto a cosa?

La  spallata a Berlusconi non la si dà né in un giorno, né con un  processo. Questo è chiaro. Il 6 maggio però viene dopo il primo  maggio. E già salta agli occhi un’altra grande occasione di rovesciare  il tentativo di “allontanare” il problema. Il primo maggio dovrà  diventare, da S. Giovanni a Roma, passando per Torino, percorrendo le  piazze di mezza Italia, un primo maggio per lo sciopero generale. E  siccome il primo maggio è invece tradizionalmente convocato da Cgil,  Cisl e Uil, la contraddizione è evidente. E’ in quella contraddizione  che quelle piazze, un po’ ammuffite da anni di inedia, torneranno a  vivere. Non solo. Da qui al 6 maggio è un continuo di grandi ed  importanti iniziative.

A cominciare dal 12 marzo sulla scuola, una  giornata che auspico diventi per gli studenti e per tutti,  un’occasione di cominciare il grande percorso verso lo sciopero  generale.

Subito dopo, il 26, c’è la manifestazione a Roma sui  referendum: è già diventata una grande iniziativa contro il governo e  il suo tentativo di boicottare l’esito della consultazione rifiutando,  è annunciato oggi da Maroni, l’accorpamento con il voto  amministrativo. Con svariati milioni di euro in più di costi accollati  ai cittadini, si tenta la carta del non raggiungimento del quorum per  evitare che un esercizio di democrazia diretta decida sui beni comuni. 

Inoltre il 6 aprile circola già l’idea di un appello che dall’Aquila  lanci una contestazione di massa alla ventilata visita di Berlusconi,  che vorrebbe usare la passerella fra i disastri compiuti dal suo  governo nelle zone terremotate, come scusa per non farsi processare a  Milano.

E poi chi lo sa quante altre cose potrebbero accadere. In  questo io credo dovremo “fare come in Egitto”: non nella ridicola  evocazione, tutta astratta, di un modello di sollevazione popolare che  non è riproducibile a queste latitudini per storia, contesti e  problemi che abbiamo difronte, ma nello spirito e nell’osare: dobbiamo  crederci, e queste sono le lezioni dell’Egitto e della Tunisia, che  tutto può accadere se siamo capaci di cogliere l’occasione, di  osservare le cose per quello che sono e proprio per questo non  smettere di provare a cambiarle.

Se siamo convinti che quello che  dobbiamo fare lo dobbiamo fare in tanti, tantissimi e diversi, ma che  i nodi fondamentali su cui si gioca oggi il nostro presente,  democrazia, diritti, qualità della vita, beni comuni, redistribuzione  della ricchezza, sono venuti al pettine per tutti, e questo disegna  una crisi globale in cui anche il nostro paese, con tutte le sue  anomalie, è immerso.

La giornata del 6 maggio potrà essere, se  vogliamo e ne saremo capaci, una grande giornata di lotta e di  indignazione insieme: Via Berlusconi e largo alla nuova primavera  italiana, per i diritti, per la democrazia, per la giustizia, per il  cambiamento.

Non dobbiamo avere paura di sognarlo, ed abituarci a  pensare che anche qui da noi il vento sta cambiando.

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