La data è fissata, su questo non c’è più alcuna discussione da fare. Il 6 maggio sarà la giornata dello sciopero generale in questo paese. Dopo mesi di pressioni, e dopo che via via, dal pubblico impiego al commercio, il governo e confindustria abbiano fatto proprio il “piano Marchionne”, addirittura peggiorando le condizioni di lavoro di altri milioni di persone oltre agli operai Fiat, la Segretaria Camusso ha dovuto annunciarlo. Lo ha fatto con grande riluttanza, lo si vede dalle modalità ufficiali ( quattro ore ) e dai tempi ( fra due mesi ) ma comunque ha dovuto. Questo primo elemento, lo sciopero generale, che è stato al centro anche della discussione dell’assemblea di uniticontrolacrisi dello scorso due marzo a Bologna, va valorizzato.
E’ una conquista, difficile come tutto ciò che si è ottenuto contro la volontà del “quartier generale”, strappata da mesi di lotte della Fiom e degli studenti, da una spinta dal basso che ha riempito le piazze di questo paese per la democrazia ma interrogandosi se sia possibile disgiungerla dai diritti sociali, da un’opinione pubblica che prende corpo attorno al bisogno di giustizia ma che osserva come essa spesso non coincida con ciò che è “legale”. Fino a ieri partivamo dalla richiesta che ci fosse, oggi invece siamo più avanti, tutti, nel convergere sul 6 maggio per costruirlo realmente. Non è vero che tutto è sempre uguale, nemmeno gli scioperi lo sono: la difficoltà con cui questo è stato letteralmente strappato alla burocrazia sindacale, che è sintonizzata sulle esigenze del Pd più che su quelle dei lavoratori e delle lavoratrici, lo testimonia. Se non lo capiamo, vuol dire che ancora una volta l’ideologia o il confortante esercizio del ruolo del minoritarismo, ci offusca il cervello ed impedisce la circolazione di aria nuova: al deficit di speranza e di immaginazione che ci hanno consegnato lunghi tempi grigi, bisogna saper rispondere osando. Io oso dire che il 6 maggio sarà una grande giornata nella quale il paese si deve fermare, e paradossalmente proprio le titubanze del gruppo dirigente del più grande sindacato italiano, e i suoi dispettosi tentativi di sabotaggio, torneranno utili, se lo vogliamo, a rendere straordinario ed innovativo questo sciopero.
Certo perché ora, come abbiamo spinto perché fosse proclamato e divenisse l’occasione per ricomporre socialmente e politicamente tutte le lotte di questi mesi, ora dobbiamo credere che le “misere” quattro ore di indizione ufficiale saranno l’occasione per un nuovo grande scontro all’interno della stessa Cgil. Uno scontro positivo, non semplicemente fra “destra” e “sinistra” sindacale, ma tra un’idea di sindacato e un’altra, una chiusa ed ingessata nei rituali secolari e l’altra che si mescola alla società viva e in movimento di questo paese. Già il fatto che il pubblico impiego abbia già annunciato che estenderà la durata dell’astensione dal lavoro a tutta la giornata, è un fatto concreto. La Fiom può fare altrettanto, e nulla impone che intere Camere del lavoro, a livello territoriale e autonomamente decidano di scioperare otto ore. Ma a questo punto entra in gioco dunque, nello spazio lasciato libero dall’ufficialità, la qualità soggettiva dello sciopero: si aprono infatti in questo modo le possibilità reali di costruzione dal basso, e quindi ancora una volta fuori dal cerimoniale, di praticare insieme il blocco della produzione e del funzionamento “normale” dell’italia.
La generalizzazione dello sciopero non è più dunque un aggettivo che accompagna la programmata astensione dal lavoro di milioni di persone, ma coincide con essa perché nulla è scontato o prevedibile.
Sciopero significa che la gente non va a lavorare e non può andarci perché non funziona niente, perché tutto è bloccato. Significa che si fermano fabbriche, scuole, uffici pubblici. Con questa indizione è chiaro che tutto ciò sarà da conquistare sul campo, costruendo la più grande iniziativa sociale degli ultimi anni.
Pensiamoci un attimo: se lo sciopero fosse stato indetto di otto ore, in pompa magna dalla Camusso e dalla sua Segreteria, sarebbe stato molto più difficile interloquire con i delegati di fabbrica, mescolare nei territori le rivendicazioni di studenti, precari, immigrati con quelle di operai e dipendenti pubblici. Tutto sarebbe stato più blindato, già ricomposto ai vertici della piramide. Ora invece il modo per scioperare si trasforma nella necessità, per tutti, di farlo insieme, perché di garantito dall’alto c’è poco.
E qui veniamo alla data. Lontana? Rispetto a cosa?
La spallata a Berlusconi non la si dà né in un giorno, né con un processo. Questo è chiaro. Il 6 maggio però viene dopo il primo maggio. E già salta agli occhi un’altra grande occasione di rovesciare il tentativo di “allontanare” il problema. Il primo maggio dovrà diventare, da S. Giovanni a Roma, passando per Torino, percorrendo le piazze di mezza Italia, un primo maggio per lo sciopero generale. E siccome il primo maggio è invece tradizionalmente convocato da Cgil, Cisl e Uil, la contraddizione è evidente. E’ in quella contraddizione che quelle piazze, un po’ ammuffite da anni di inedia, torneranno a vivere. Non solo. Da qui al 6 maggio è un continuo di grandi ed importanti iniziative.
A cominciare dal 12 marzo sulla scuola, una giornata che auspico diventi per gli studenti e per tutti, un’occasione di cominciare il grande percorso verso lo sciopero generale.
Subito dopo, il 26, c’è la manifestazione a Roma sui referendum: è già diventata una grande iniziativa contro il governo e il suo tentativo di boicottare l’esito della consultazione rifiutando, è annunciato oggi da Maroni, l’accorpamento con il voto amministrativo. Con svariati milioni di euro in più di costi accollati ai cittadini, si tenta la carta del non raggiungimento del quorum per evitare che un esercizio di democrazia diretta decida sui beni comuni.
Inoltre il 6 aprile circola già l’idea di un appello che dall’Aquila lanci una contestazione di massa alla ventilata visita di Berlusconi, che vorrebbe usare la passerella fra i disastri compiuti dal suo governo nelle zone terremotate, come scusa per non farsi processare a Milano.
E poi chi lo sa quante altre cose potrebbero accadere. In questo io credo dovremo “fare come in Egitto”: non nella ridicola evocazione, tutta astratta, di un modello di sollevazione popolare che non è riproducibile a queste latitudini per storia, contesti e problemi che abbiamo difronte, ma nello spirito e nell’osare: dobbiamo crederci, e queste sono le lezioni dell’Egitto e della Tunisia, che tutto può accadere se siamo capaci di cogliere l’occasione, di osservare le cose per quello che sono e proprio per questo non smettere di provare a cambiarle.
Se siamo convinti che quello che dobbiamo fare lo dobbiamo fare in tanti, tantissimi e diversi, ma che i nodi fondamentali su cui si gioca oggi il nostro presente, democrazia, diritti, qualità della vita, beni comuni, redistribuzione della ricchezza, sono venuti al pettine per tutti, e questo disegna una crisi globale in cui anche il nostro paese, con tutte le sue anomalie, è immerso.
La giornata del 6 maggio potrà essere, se vogliamo e ne saremo capaci, una grande giornata di lotta e di indignazione insieme: Via Berlusconi e largo alla nuova primavera italiana, per i diritti, per la democrazia, per la giustizia, per il cambiamento.
Non dobbiamo avere paura di sognarlo, ed abituarci a pensare che anche qui da noi il vento sta cambiando.