Di Francesco Biagi e Fabio Mengali [dottorandi]

Sciopero dei docenti e ricercatori universitari. Di cosa stiamo parlando?

9 / 8 / 2017

Uno sciopero dall’alto?

In linea di principio quando parliamo di uno sciopero è assurdo pensare subito ai danni che potrebbero subire i soggetti interessati dal blocco di un’attività lavorativa: lo sciopero, per definizione, non può essere privato dei disagi economici e sociali che porta con sé qualsiasi tipo di astensione dal lavoro. È dunque un vizio giornalistico e dell’ormai opinione pubblica della politica valutare moralisticamente lo sciopero perché sinonimo di divisione, di tensione tra diverse categorie di lavoratori, di “un interesse privato” contro il “bene pubblico”. Figuriamoci se a parlare sono i docenti universitari sui quali, in parte meritatamente e in molta parte no, persiste lo stereotipo di improduttività, nepotismo, ladri di risorse pubbliche.

Nel nostro caso, la decisione di 5.444 docenti e ricercatori di annullare il primo appello della sessione di recupero estiva viene interpretata sulla base degli inconvenienti che causerà agli studenti. Sicuramente, la perdita di uno dei due appelli renderà più difficile l’approvazione delle prove ai fini delle lauree e dell’accumulo dei crediti necessari per Erasmus e borse di studio. Ma, come anticipato prima, la lente moralizzatrice delle azioni di sciopero non serve a niente se non mettiamo a tema le ragioni politiche e rivendicative che stanno dietro ad una decisione. In Italia si pretende una società pacificata, si predica la rimozione del conflitto sociale mentre le disuguaglianze aumentano vertiginosamente.

Partiamo dunque dalla lettera dei docenti ordinari, associati e dei ricercatori delle università pubbliche e degli enti di ricerca (qui la lettera di proclamazione dello sciopero)  Per i sottoscrittori gli ultimi governi dal 2011 ad oggi avrebbero bloccato e poi ridotto lo scatto salariale per questa categoria di lavoratori, limitando il rimborso dello stesso solo a partire dal 1° gennaio 2016 (anziché dall’anno prima) e eliminando quello riguardante l’arco temporale dal 2011 al 2014. La proclamazione dello sciopero, della durata di 24 ore e solo in occasione del primo degli appelli d’esame, è l’esito di una estenuante negoziazione con il governo che le categorie professionali e i singoli atenei hanno condotto da molto tempo a questo parte. In poche parole, i docenti si sono sentiti obbligati a indire l’astensione dal lavoro perché la loro pazienza, dopo molti momenti prolungati di silenzio e muro di gomma da parte del governo, è giunta alla fine a un limite. Nonostante la perdurante indifferenza delle istituzioni, i firmatari hanno precisato che il loro non è un blocco a oltranza o totale delle attività di docenza, visto che interesseranno solo gli esami di profitto e non le lezioni, così come l’obiettivo sarà una riduzione parziale del servizio senza minacciarne il funzionamento complessivo. Ancora non sappiamo se questa decisione è stata fatta alla luce dell’eventuale scia di scioperi che potrebbero darsi successivamente oppure se allude ad una negoziazione al ribasso. Quel che è sicuro è che la natura delle richieste e il quadro in cui si inseriscono soffrono di una grossa parzialità.

Parliamoci chiaro: se è vero che i docenti ordinari complessivamente godono di uno stipendio alto, non bisogna d’altro canto sottostimare la quantità di lavoro, in termini di prestazione frontale, ricerca e di burocrazia, che sono obbligati a fare; in più, la vertenza riguarda anche gli associati e i ricercatori a tempo indeterminato, ovvero chi non vive la morsa della precarietà, ma il più delle volte è costretto a offrire manodopera per prestazioni che non gli o le sono competenti mentre cerca di soddisfare tutti i criteri per portare a compimento la ricerca e per essere abilitato ad associato. La legittimità dello sciopero, a fronte della sproporzione tra quantità e qualità di lavoro e retribuzione, non lascia alcun dubbio. Eppure, nei termini in cui è stata posta la questione leggiamo tutti i rischi per cui una legittima lotta da parte dei lavoratori dell’accademia rischia, ancora una volta, di ritirarsi nel più bieco corporativismo. Per corporativismo non si intende la mancanza di un anelito generalista che tocchi tutti i nodi della produzione e riproduzione contemporanee, bensì la capacità di saper stringere coalizioni, alleanze e un comune sguardo d’insieme quanto meno tra le figure professionali e gli utenti del proprio luogo di lavoro. Inoltre, vogliamo ricordare che il blocco degli scatti stipendiali riguarda tutto il pubblico impiego.[1] Perché non si è voluto coordinare questo sciopero con tutte le categorie colpite anche oltre i recinti universitari? Perché non provare a innescare ulteriori alleanze e mobilitazioni nei settori pubblici dello Stato?

Come è stato ben illustrato dalla lettera di risposta firmata da alcuni soggetti del lavoro e del non lavoro universitario, l’unione tra tutte le componenti dell’accademia è la condizione necessaria affinché non solo le singole vertenze possano efficacemente raggiungere il loro obiettivo, ma anche per intervenire alla radice della drammaticità della situazione universitaria. La svalutazione e la negligenza nei confronti di ricercatori e docenti è infatti figlia della dismissione strategica delle nostre strutture universitarie, una dismissione che viene da lontano e che ha avuto effetti trasversali colpendo i contratti di impiego, il diritto allo studio, la qualità della didattica e della ricerca.

Lo stato terminale dell’università

Riassumendo, da quando è scoppiata la crisi nel 2008 nel vecchio continente in Italia uno dei primi settori del welfare ad essere destinatario delle politiche di austerità neoliberali è stata l’università pubblica. Dalla 133 di Tremonti del 2008 passando per la riforma universitaria targata Gelmini del 2010 e fino ai più recenti decreti, abbiamo assistito alla drastica riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario. L’odiosa legge del governo Berlusconi sancisce infatti che l’investimento sull'università si sarebbe ridotto “di 63, 5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. In tutta continuità con il neoliberalismo, il governo Renzi non si sottrae alla ingiuriosa sfida tra chi taglia di più il settore universitario: la Ministra Giannini nel 2015 diminuisce di 87,4 milioni le risorse universitarie, arrivando ad un investimento complessivo di 6 miliardi e 927 mila euro per il sistema di atenei italiano. Per capire l’irrilevanza di questa cifra, basti considerare come la Germania nello stesso anno devolve alle università 26 miliardi di euro. Detto ciò, è necessario considerare anche i criteri di ripartizione del Fondo, assestati per un 75% su base storica (quindi diretti agli atenei con un bilancio in positivo e con un rendimento di ricerca “virtuoso”) e per un 25% sul costo per studente. Se aggiungiamo all’insufficienza del denaro e all’illogicità della sua distribuzione il blocco del turn-over per la sostituzione dei docenti universitari, ecco che il cerchio si chiude: il numero di professori scende del 17% in data primo gennaio 2016 (ossia, adesso sono meno di 52.000 mentre prima erano 63.000). Parallelamente, il personale tecnico-amministrativo subisce una riduzione del 18% mentre gli studenti immatricolati del 20%.

A seguito della contrazione dell’offerta didattica e della chiusura di alcuni corsi universitari, o di alcune titolature d’esame, i Dipartimenti risultano sempre meno attrattivi per gli studenti. In più, dopo i primi colpi d’ascia al diritto allo studio, negli ultimi anni di certo la situazione non è mutata favorevolmente, dato che anche solo pochi mesi fa un decreto del Miur firmato dalla Ministra Fedeli ribadisce l’impossibilità di finanziare ulteriormente gli importi per il diritto allo studio e rimanda alla cifra prevista nel 2015. Il tutto senza contare lo scandalo dello scorso anno, quando migliaia di studenti si sono ritrovati ad essere “idonei senza borsa”, ovvero privati del diritto alla riduzione delle tasse, ad avere un alloggio e alla mensa gratuita.

A questo si lega indissolubilmente il processo di precarizzazione dei dottorandi, degli assegnisti e dei ricercatori. Non solo questi sono costretti ad una mole di lavoro non prevista dal proprio contratto – la quale risulta essere indispensabile anche solo per provare a restare nel circuito europeo delle accademie (quantità di articoli, conferenze, pubblicazioni di monografie altre dalla propria ricerca) –, ma vivono costantemente di quell’economia della promessa e di quel salario simbolico che corrisponde loro il sistema universitario. E si viene redarguiti così: “Lavora sodo, lavora duro, aumenta il capitale umano di cui sei portatore anche se non ti diamo un soldo e, prima o poi in futuro, otterrai un posto fisso. Nel frattempo, stringi i denti se non puoi stabilizzarti, se non puoi accumulare decentemente per la pensione, se non puoi pagarti l’affitto o essere pienamente indipendente, tu e eventualmente anche la tua famiglia”.

Si stima che in Italia, nonostante ci sia il numero più basso di dottori di ricerca, solo il 6% dei dottorandi riesca a permanere nella ricerca e essere vincitore di un assegno; e la figura stessa dell’assegnista soffre anni di precarietà e di attesa della successiva chiamata, con poche se non nulle possibilità di avere una continuità di tema e di relazioni all’interno di uno stesso Dipartimento. Molto spesso, infatti, i giovani ricercatori sono costretti a piegare i propri interessi ad argomenti che, se da una parte permettono loro di sopravvivere economicamente, dall’altra tradiscono le aspettative di ricerca e l’esperienza conoscitiva prodotta basata su altre linee. Bisogna poi considerare che la maggior parte dei finanziamenti per il lavoro di ricerca proviene da entrate straordinarie, per esempio i PRIN (progetti di ricerca di interesse nazionale) oppure da fondazioni private, aziende e banche. Per quanto recentemente sia stato approvato un minimo diritto alla disoccupazione per i dottorandi (con borsa, ovviamente) e ancor prima per gli assegnisti, mancano tutta una serie di tutele sociali per quanto riguarda la malattia, le ferie e un accontamento pensionistico degno di questo nome (la maggior parte dei precari della ricerca sono infatti iscritti alla gestione separata in quanto parasubordinati). Senza dimenticare i dottorandi senza borsa e i borsisti di ricerca: per loro non è prevista nessuna previdenza sociale. Dopo questa ulteriore figura, arriviamo ai ricercatori a tempo determinato, nati con la riforma Gelmini, la quale ha eliminato il ricercatore strutturato allungando a dismisura gli anni di precarietà selvaggia. Una situazione dalla quale, dopo un periodo di sofferenza e di stato di ricatto permanente (dovuto alla dipendenza da un docente, da un finanziamento, da un progetto), è possibile uscire solo ambendo all’abilitazione nazionale e alla soddisfazione dei suoi criteri, in Italia fondati sulla quantità di pubblicazioni e sulla valutazione della singola rivista o casa editrice nella quale il testo scientifico viene pubblicato.

L’ideologia della meritocrazia in una simile congiuntura economica di crisi ha preso piede e si è diffusa soprattutto perché bisognava dare una giustificazione ragionevole ai tagli imposti dal regime di austerità. Se i soldi sono pochi, vanno dati solo al “meritevole”. Tuttavia chi decide il meritevole? Uno scrittore inglese di vecchia impronta labourista, Michael Young, nel 1958 ha pubblicato il romanzo The Rise of the Meritocracy, una satira distopica su come funzionerebbe un mondo organizzato esclusivamente su basi meritocratiche, le quali illudono i subalterni di poter usufruire di un ascensore sociale; tuttavia, non vige alcun diritto, tutto è concesso solo se “meritato”. Un simile sistema da distopia immaginaria si è concretizzato con l’ideologia neoliberale e lo stesso Young si trova fra gli oppositori di simile visione inaugurata dalla Thatcher e proseguita da Blair. È proprio il Primo Ministro inglese Thatcher a inventare un sistema centralizzato di valutazione della ricerca, potremmo dire, su basi foucaultiane, proprie del “sorvegliare e punire”.[2]

La valutazione della ricerca è un tema molto delicato, soprattutto se si predispone un sistema centralizzato che non tiene conto della differenza fra le discipline e della competenza nel poter valutare tematiche così diverse. Nel 2010 nasce l’ANVUR, l’organo ministeriale che deve valutare a livello centralizzato la ricerca universitaria. Tuttavia emergono fin da subito i limiti ai quali sono appese le sorti dei finanziamenti dei fondi ordinari per le università e le sorti di tutti i ricercatori, fin dalla vincita del bando di dottorato di ricerca. In primo luogo, le valutazioni ANVUR mancano di base scientifica come è ampiamente dimostrato. Basti pensare che la quota premiale, ovvero quella quota non fissa che varia per mezzo della “valutazione”, ormai compone la maggioranza della quota dei fondi.[3] In questo modo, gli atenei più in difficoltà affonderanno sempre di più, invece sopravvivranno quegli atenei già ben quotati. La storica disparità tra atenei del Nord e atenei del Sud è la fotografia di questa immagine, assieme alla migrazione universitaria che gli studenti meridionali sono costretti a fare. Poco importano i titoloni di Repubblica sulla progressione del ranking di Palermo e di della Federico II di Napoli, perché non si tiene conto della carenza strutturale e di diritto allo studio di cui soffrono gli utenti delle università. È una logica perversa che aiuta chi sta già bene e lascia indietro chi già sta per precipitare. Di più, la valutazione degli atenei è direttamente legata anche al secondo punto della questione, ovvero la valutazione della ricerca. Per valutare la ricerca e i ricercatori si classificano le riviste. È come se dovessimo valutare un prodotto dalla loro confezione, infatti non viene preso in considerazione il contenuto dell’articolo, ma quest’ultimo è valutato in base alla rivista che lo pubblica. Com’è noto, le classifiche delle riviste sono stillate senza rigore scientifico e senza regole certe,[4] con metodi abbandonati da tempo da altri Paesi europei.[5] O meglio, le uniche regole certe sono quelle della filiazione baronale. Le logiche che stanno alla base di queste classifiche variano a seconda della capacità di lobbing che hanno le case editrici e le testate editoriali sui membri dell’ANVUR.[6] Ad esempio, è impossibile per dei giovani dottorandi o ricercatori fondare una rivista e tentare di farla diventare prestigiosa (si legga “di serie A”) senza il 90% di ordinari o associati in redazione. Può aver senso stillare delle regole minime per la gestione di una rivista conformi allo scenario europeo e internazionale, tuttavia ciò che non ha ragione d’essere è valutare e pretendere dagli atenei e dai ricercatori una scientificità e una eccellenza che non sono riscontrabili nel soggetto stesso che valuta. Com’è noto, tale valutazione riguarda anche il sistema di abilitazione scientifica nazionale, il quale prevede un minimo di pubblicazioni in riviste di serie A, senza il quale non si ha accesso al concorso. Un ricercatore può aver lavorato egregiamente, ma non aver avuto i contatti “giusti” per pubblicare nelle riviste “giuste” e quindi perdere un concorso o non esserne idoneo. In ogni caso, anche una volta abilitati, non è automatica l’assunzione come associato presso un Dipartimento. Il cappello che, in ogni caso, presiede alla carriera universitaria in generale è quello della competizione, dell’individualismo forsennato, dell’accaparramento dei posti e dei progetti, possibile solo previa eliminazione dell’altro, snaturando di conseguenza la cooperazione tra i saperi e la qualità che da questa deriva.

La somma di questi due versanti sui quali si è piegato il sistema accademico italiano porta con sé la trasformazione nella sua essenza dell’università. Da volano della formazione della forza-lavoro precaria nella crescente economia della conoscenza e baluardo dell’universalità dell’istruzione, l’università si è ridotta ad esamificio, ad acquisizione di un titolo comunque insufficiente a garantire la stabilità economica ed esistenziale dei giovani. Le competenze e le conoscenze acquisite, a causa della mancanza di finanziamenti per l’offerta didattica e delle condizioni del lavoro accademico, rimangono parziali, ferocemente imbrigliate nei tempi e nei limiti dei crediti universitari e del dogma della “professionalizzazione”; le ore di tirocinio non pagato sono aumentate a scapito dell’apprendimento e della dignità degli stessi studenti, costretti a fare mansioni gratuite per niente formative e ad abituarsi fin da subito alla routine della formazione perenne. In quanti si iscrivono a master, corsi di specializzazione, scuole professionali sebbene abbiano due lauree in mano? Con la scusa dell’eterna formazione vengono esborsati migliaia di euro e si è portati a pensare che tutti gli stage non retribuiti, che impegnano tanto quanto un lavoro formalmente riconosciuto, siano una tappa fondamentale per avere un lavoro anche se a scapito dei nostri diritti. Tutto questo, dal punto di vista degli studenti delle scuole superiori, significa solo una cosa: soltanto chi proviene da una famiglia il cui reddito è medio-alto potrà permettersi l’accesso agli studi universitari. Al di là del tema delle tasse universitarie e del diritto allo studio che non è assolutamente trascurabile, intraprendere un corso di studi significa, per quanto detto sopra, investire fino a dieci anni della propria vita in un percorso che non ha niente a che vedere con l’indipendenza economica e i diritti sociali. Lo sbarramento de facto di classe sta inoltre aprendo ad uno sbarramento formalizzato che sostanzia l’idea di un’università elitaria e disciplinata. Non a caso anche i corsi umanistici stanno vedendo l’introduzione del numero chiuso, le biblioteche e gli spazi universitari un isolamento progressivo dal contesto sociale e cittadino di cui sono parte integrante e da cui si arricchiscono culturalmente.

In buona sostanza, il capitalismo cognitivo che ha estratto valore dalla conquista dell’università aperta a tutti (dovuta ai movimenti degli anni Sessanta-Settanta), ha deciso di dismetterla per creare una nuova accumulazione originaria: forza-lavoro, seppur formata, a basso costo e possibilità per il capitale privato, grazie alla spinta del pubblico, di trovare nuove occasioni di rendita e profitto. Tutto ciò in salsa completamente italiana, dove con gli impulsi capitalistici più avanzati si mischiano sempre retrocessioni produttive. Di qui possiamo spiegare come l’Italia sia all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda il numero di laureati e di quota del PIL dedicata all’università.

Bloccare l’università della competizione e dell’austerità

Tenendo conto dei vari fili che si intersecano tra loro quando parliamo di università, è quanto mai insufficiente fermarsi a una rivendicazione che guarda solo alla, seppur giusta, vertenza settorializzata. Senza contare la colpa storica che molti (ma non tutti) dei docenti e dei ricercatori firmatari si portano addosso da tutti questi anni: un cinguettio balbuziente, se non la diretta rinuncia alla protesta di fronte ai tagli, ai blocchi di carriere, all’insufficienza del diritto allo studio. Per non parlare di coloro che si sono apertamente esposti contro i movimenti moltitudinari degli studenti a difesa dell’università pubblica nel biennio 2008-2010; oppure dei ricercatori che, dopo un iniziale rifiuto di svolgere le lezioni non obbligatorie per il loro contratto e una vicinanza ai movimenti, si sono tirati indietro non appena hanno ottenuto garanzie circa la loro stabilizzazione. Non possiamo di certo valutare l’indizione dello sciopero facendoci accecare dal (recente) passato. Purtuttavia, è bene conservarne un ricordo per avere la consapevolezza del persistente rischio di corporativismo a cui le componenti universitarie si espongono. Oppure pensiamo davvero che, se anche docenti e ricercatori dovessero ottenere lo sblocco degli aumenti stipendiali, la situazione delle università italiane andrebbe a risolversi? Uno sciopero deve indubbiamente difendere degli interessi che sono anche parziali, ma l’ambizione di quella parzialità deve essere un interesse generale, che significa non solo includere in termini di forza altre categorie, ma far vivere la propria condizione soggettiva come un problema di tutti, quale è il sistema formativo e il diritto all’istruzione. Significa anche essere fedeli alla tradizione dello sciopero estendendolo dal punto di vista dell’intensità e dei numeri, cioè facendo inceppare davvero la macchina accademica senza assestarsi sul blocco di un solo appello. Nel momento in cui tutti i soggetti dell’università si sentiranno coinvolti, non ci saranno tentativi di divisione tra categorie e inneggi al danneggiamento per gli studenti che terranno. Al movimento dei professori scioperanti va posto un quesito cruciale: siete disposti ad allargare la piattaforma di rivendicazione anche alle esigenze e alle ingiustizie subite dagli studenti, dai dottorandi con e senza borsa, dagli assegnisti, dai borsisti di ricerca e da tutto il precariato a tempo determinato? Siete disposti a fare vostre le rivendicazioni di chi vive una condizione di “lavoratore-paria” nel mondo accademico? Anche se nel 2008 e nel 2010 non eravate tutti in piazza contro l’erosione dell’università pubblica, siete disposti a creare alleanze sociali invertendo il percorso? Se la risposta è negativa, si realizzerà solamente la velleitaria opzione del “tirare per la giacchetta” qualcuno affinché si smuova qualche acqua.

Da qui sarebbe possibile, fatti i giusti passi intermedi, superare l’aspetto difensivo e reimpostare un dibatto pubblico che possa ripensare e stravolgere il modello attuale dell’università italiana nel segno della sua universalità, qualità e dignità per tutti i lavoratori. Iniziamo, quindi, da altre vertenze concrete e impegniamoci a farle rispettare. A partire dal rifinanziamento, dalle assunzioni straordinarie, dall’eliminazione dell’ANVUR e dalla garanzia universale per il diritto allo studio.



[1] Si veda: N. Casagli, Il perché di uno sciopero: la vera storia degli scatti stipendiali dei professori universitari Di Nicola Casagli, Roars.it, 8 agosto 2017

[2] Cfr.: Redazione Roars, (S)valutare la ricerca, in Id., Università 3.0. Quattro anni vissuti pericolosamente, ManifestoLibri - Ecommons, Roma, 2015, p. 57.

[3] Il calcolo è molto complesso, per un chiarimento si veda: A. Bacchini, Tutto quello che avreste voluto sapere sull’FFO premiale. Atto secondo, Roars.it, 23 gennaio 2017

[4] si Veda: Redazione ROARS, Le riviste “scientifiche” dell’ANVUR: dal sacro al profano e dalle stelle alle stalle, Roars.it, 21 settembre 2012

[5] Si Veda: G. De Nicolao, ANVUR, la tragedia di un’agenzia ridicola, Roars.it, 8 gennaio 2015

[6] Si veda: M. C. Pievatolo, Ciò che non siamo: una conversazione sulle riviste scientifiche, Roars.it, 15 giugno 2017