Schio - Ricordare e celebrare sono due cose diverse

16 / 7 / 2020

Alcune riflessioni del Coordinamento Studentesco Alto Vicentino in seguito alle polemiche emerse sul web e nei giornali locali in merito alla manifestazione del 7 luglio, che ha visto moltissime persone rispondere alla chiamata di Schio Antifascista e scendere in piazza per impedire all’estrema destra di sfilare per le strade della città.

Nelle polemiche social seguite alla manifestazione antifascista  del 7 luglio a Schio, l’assessore Donazzan ci ha definiti «antistorici e ignoranti». Non varrebbe la pena di risponderle se non fosse per il fatto che ci ha accusati di voler impedire di “ricordare la mattanza operata a Schio dai partigiani comunisti, a guerra finita, nel luglio del 1945" e per questo ci teniamo a puntualizzare alcune cose.

 

-          Ricordare e celebrare sono due cose diverse. Già dal primo intervento al microfono il giorno della manifestazione abbiamo detto chiaro e tondo che non eravamo lì per cercare di impedire la celebrazione della messa in ricordo delle vittime della strage, eravamo lì per impedire che anche quest'anno ìl fascismo venisse celebrato con il bene placito delle istituzioni (la scorsa settimana alla messa è seguito un corteo a cui l’assessore regionale Donazzan e il consigliere Cioni hanno partecipato in compagnia della crème del neofascismo vicentino, in barba alle stesse disposizioni della questura, che come solito ha fatto manganellare gli antifascisti per proteggere un corteo fascista). Corteo che negli anni scorsi ha visto andare in scena le consuete ritualità del ventennio, quali saluti romani e rito del «presente» che in teoria dovrebbero essere vietati nella «Repubblica nata dalla resistenza». Noi non contestiamo i fascisti morti, noi contestiamo i fascisti vivi e, purtroppo, al potere a spregio della Costituzione repubblicana. Noi contestiamo il fatto che i fascisti possano prendersi le strade, perché i fascisti sono una minaccia all’incolumità fisica di tutti e tutte quelli e quelle che essi reputano «diversi», come attestano i pestaggi a sfondo razzista o omofobo di cui sono pieni i giornali e gli svariati attentati incendiari commessi negli ultimi anni nel nostro territorio contro le residenze che ospitavano richiedenti asilo.

Impedire ai fascisti vivi di adunarsi e marciare per le vie della nostra città è un atto di autodifesa che non centra nulla con il ricordo delle vittime della strage del 7 luglio 1945. I conflitti di oggi vanno distinti dalla storia e non ci si può fare scudo dei morti per giustificare la riproposizione di riti e parate fasciste oggi.

 

-          Non siamo noi a celebrare le stragi. Quella è una cosa che lasciamo volentieri all’assessore Donazzan e ai suoi camerati, che ogni 4 novembre celebrano con la più bolsa retorica la sedicente «vittoria» nella grande guerra, cioè celebrano il fatto che 1 milione e 200.000 cittadini italiani, tra militari e civili, siano stati sacrificati sull’altare del nazionalismo e dell’imperialismo nella cosiddetta «Grande guerra».

La storiografia, a differenza dell’assessore Donazzan, ha da tempo abbandonato la retorica nazionalista e ormai definisce il periodo 1914-1945 come «guerra civile europea». Crediamo che la cosa si adatti bene anche agli eventi che interessarono il nostro territorio, dove tra 1915 e 1918 si consumò un «fratricidio» ben più sanguinoso dei fatti del 1943-1945 e soprattutto anticipatore di nuovi lutti e nuove tragedie. In seguito all’aggressione italiana ai danni dell’Austria-Ungheria (ricordiamo ai cultori della «difesa dei confini» che allora furono le truppe italiane a violarli)  le nostre montagne vennero arrossate dal sangue di decine di migliaia di poveri operai e contadini, spesso vicini di casa divisi solo da una linea immaginaria chiamata «frontiera», mandati al massacro da due stati egualmente oppressivi e imperialisti. Quel conflitto, anziché unire gli «italiani», li divise irrimediabilmente, dando avvio ad una guerra civile durata oltre vent’anni: perché non solo lo squadrismo e l’occupazione nazifascista, ma tutto il ventennio fascista furono di fatto un’unica guerra civile scatenata contro i lavoratori e le lavoratrici di questo paese, privati prima di ogni diritto politico e sindacale e poi usati come carne da cannone nelle guerre di Mussolini. Come accadde ai tanti alpini dell’ARMIR inviati a sostenere la guerra genocida di Hitler contro l’URSS (che ebbe qualcosa come 26 milioni di morti) e lasciati a morire sul Don mentre i gerarchi fascisti e i «camerati» nazisti se la filavano di gran carriera.

 

-          Non siamo noi a voler impedire che si raccontino episodi tragici del passato. Tra 1943 e 1945 in provincia di Vicenza vennero commessi 186 eccidi nazifascisti, per un totale di 751 vittime. Tutti elencati sull’atlante on line delle stragi nazifasciste in Italia, uno strumento frutto della ricerca storica che l’assessore Donazzan si è ben guardata dal promuovere nelle scuole, a differenza dei fumetti editi dai suoi amici di Casa Pound (pieni di vere e proprie invenzioni e orribili anche a livello grafico).

A Schio si è fatto anche di peggio: la maggioranza in consiglio comunale ha negato le «pietre di inciampo» alle 14 vittime della deportazione nazifascista. Insomma gli abitanti di Schio sembrano condannati a vivere nel romanzo distopico di Philip Dick The man in the high castle, cioè in un mondo in cui i nazifascisti hanno vinto la seconda guerra mondiale.

 

-          Vogliamo parlare di cosa accadde il 7 luglio 1945 a Schio? Bene, parliamone. Cominciamo col dire che con sommo dispiacere di Cioni e Donazzan Hitler e Mussolini hanno perso la seconda guerra mondiale.

La fine di una guerra, soprattutto di quella guerra, non è la fine di una partita di calcio.Non è che l’arbitro fischia, tutti smettono di sparare e tornano negli spogliatoi dandosi pacche sulle spalle. Innanzitutto i nazifascisti continuarono ad uccidere fino agli ultimissimi giorni di guerra e anche oltre, tant’è che l’ultima strage in territorio italiano venne commessa dalle SS a Stammentizzo e Molina di Fiemme in il 3 e 4 maggio 1945 , cioè dopo la resa delle truppe tedesche in Italia.

Inevitabilmente una guerra lascia degli strascichi: chi è stato torturato, chi ha visto i propri compagni e familiari deportati o uccisi, vuole giustizia o vendetta. E a volte capita che chi vuole giustizia non potendola ottenere sceglie di avere almeno vendetta.

Con un documento (riprodotto a pag.215 del libro di Nazauro Sauro Onofri Il triangolo rosso, che potete leggere on line sul sito del Museo del Risorgimento di Bologna) datato 4 novembre 1946, il Ministero degli interni della neonata repubblica italiana, sulla base di dati provenienti dalle varie questure, stimava pari a 8.197 il numero delle persone uccise dopo la liberazione «perché politicamente compromesse», a cui erano da aggiungersi 1.167 persone «prelevate e presumibilmente uccise». La storiografia (cioè i libri di storia che danno conto dei fatti citati attraverso note e bibliografia, non i romanzi come Il sangue dei vinti di Pansa) valuta oggi attorno ai 10.000 le vittime delle «rese dei conti» dopo la liberazione in tutta Italia. Una cifra frutto di omicidi condotti solitamente da individui o piccoli gruppi. Dove invece vinsero i fascisti il terrore era «di stato» e le cifre sono ben diverse: 150.000 fucilati nella Spagna franchista, un paese con 25 milioni di abitanti, mentre l’Italia dell’epoca ne aveva 40. Le cifre italiane sono invece in linea con il caso francese dove le vittime del post-liberazione furono (12.000-14.000).

Ma andiamo a vedere quanti furono i morti nel nostro territorio e in quelli circostanti, il documento del 4 novembre 1946 riporta le cifre provincia per provincia: 1 ucciso in quella di Trento; 5 in quella di Bolzano; 4 in quella di Belluno; 15 in quella di Verona; 29 in quella di Padova, a cui vanno aggiunti 24 «prelevati e presumibilmente soppressi»; 64 più 7 prelevati e scomparsi in quella di Vicenza. Quindi le 54 vittime della strage del 7 luglio sono la stragrande maggioranza dei morti in provincia di Vicenza.

Le dinamiche dell’episodio sono state esposte da Ugo de Grandis nel suo libro E la piazza decise. Qui ci limitiamo a dire che quella strage fu il tragico frutto della giustizia negata. Il CVL (Corpo Volontari della Libertà), cioè il comando della resistenza, aveva ordinato al momento dell’insurrezione di risparmiare i nazifascisti che si fossero arresi; successivamente vennero istituiti tribunali militari partigiani al fine di accertare le responsabilità personali e, in caso la sentenza confermasse la colpa, era prevista l’immediata esecuzione. Un sistema senza dubbio spicciativo ma che avrebbe garantito di punire sulla base di responsabilità individuali attraverso processi pubblici e rapidi, diretti a soddisfare il bisogno di verità e giustizia delle comunità che erano state straziate dall’occupazione nazifascista, in modo da limitare al minimo le esecuzioni extralegali e a casaccio.

Ma questi processi davanti a tribunali militari partigiani non si tennero mai o se ne tennero pochissimi. Sia il governo del Regno del Sud presieduto da Bonomi, sia i comandi angloamericani erano intenzionati ad esautorare i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN), espressione di tutti i partiti antifascisti. Per questo la giurisdizione sui processi contro i nazifascisti venne fin da subito passata alle Corti d’Assise Straordinarie (CAS), subendo una serie di rallentamenti e veri e propri sabotaggi. Inoltre alcuni dei principali responsabili delle forze armate di Salò vennero fin da subito sottratti alla giustizia dai comandi anglo-americani.

Su questi fatti si stendeva già l’ombra cupa della guerra fredda, con le truppe inglesi che nel dicembre 1944 avevano sparato su comunisti e socialisti per le vie di Atene, non a caso il PCI era terrorizzato proprio dalla «prospettiva greca».

Alla base di ciò che accadde c’era tutto questo: un paese devastato e affamato, le ferite aperte della violenza nazifascista, processi non celebrati, prove e testimonianze che scompaiono nelle questure e nelle caserme dei carabinieri, nazifascisti liberati a pochi mesi dalla fine della guerra, l’arroganza dei comandi angloamericani. A questo clima di tensione si aggiungono due fatti: il 30 aprile, il giorno dopo la liberazione di Schio, venne riesumata la salma di Giacomo Bogotto, giovane partigiano arrestato pochi giorni prima della fine della guerra, torturato (gli cavarono unghie e occhi) e sepolto vivo dei membri delle Brigate Nere, alcuni dei quali scledensi, che avevano sede in via Carducci. 

Ma ancora non basta, il 27 giugno tornò William Perdicchi, ľunico superstite di un gruppo di quattordici cittadini di Schio portati a Mauthausen e in altri lager a causa delle delazioni dei fascisti locali: erano stati catturati alla fine del ’44 e morirono tutti e ľunico che tornò pesava trentotto chili. Il risultato fu un’esplosione di violenza che travolse chi si trovava in carcere a Schio in quel momento, ci teniamo a dirlo, in maniera sommaria, senza che se ne potessero appurare le responsabilità individuali. Quell’atto fu secondo noi l’ammissione di una sconfitta, l’ammissione del fatto che era sfumata la possibilità di avere giustizia, di poterlo cambiare davvero questo paese, e di farlo tutti e tutte insieme, come insieme si era fatta la lotta partigiana: gli operai comunisti accanto ai borghesi liberali e ai sacerdoti.

Quel momento in cui un mondo nuovo era sembrato possibile era irrimediabilmente già perduto e di certo le raffiche di mitra nel carcere di Schio non lo riportarono indietro, tant’è che negli anni successivi il fascismo avrebbe continuato a uccidere: il 7 luglio è anche l’anniversario dell’eccidio commesso a Reggio Emilia dalla polizia che aprì il fuoco sui lavoratori inermi che cantavano sotto un sacrario alla resistenza.

 

Per concludere: noi il 7 luglio 2020 siamo scesi in piazza per impedire ai fascisti di oggi di sfilare, non per impedire di ricordare, attraverso una messa, le vittime del 7 luglio 1945 (né tanto meno per scontrarci con la polizia, come hanno detto in molti, puntando tutta ľattenzione sullo scontro che c'è stato, tentando  così di vanificare ľintera manifestazione). Ad aver strumentalizzato la cerimonia in ricordo dei familiari, ad essersi messi sotto i piedi il cosiddetto «patto di concordia» sono Cioni, Donazzan & camerati, che intendono fare del 7 luglio non un occasione di ricordo delle vittime ma di celebrazione del fascismo, cosa che sarebbe proibita dalla Costituzione, ma purtroppo sappiamo bene che lo stato (le forze dell’ordine) non coincide affatto con la Repubblica (i valori della Costituzione). E questo ci costringe ad esercitare quel «sacro dovere del cittadino», che è la difesa di quella cosa che altri chiamano in maniera altisonante «patria» mentre noi preferiamo chiamarla «comunità», cioè la nostra terra, la nostra città, la nostra gente, quelli che ci sono ancora e quelli che non ci sono più, i caduti nei lager e sulle montagne, sulle cui tombe i fascisti pretenderebbero sputare senza che noi avessimo nulla da ridire.

E invece noi ci stringiamo in cordone e ripetiamo le parole di Calamandrei:

«ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno.

Popolo serrato attorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

resistenza»

 

Bibliografia (dei saggi che non compaiono nel testo)

Ugo de Grandis. E la piazza decise - Schio, 7 luglio 1945. L'Eccidio, Schio, 2016.

Ugo de Grandis. L'ultimo crimine. L'attività della XXII Brigata Nera "A. Faggion" di Schio, Schio, 2020.

Mimmo Franzinelli. L’amnistia Togliatti. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Milano: Mondadori, 2006.