Salario minimo e contrattazione collettiva: le questioni aperte

7 / 7 / 2022

Tra i dibattiti che hanno infiammato la politica nelle ultime settimane, una menzione d’onore spetta sicuramente a quello sul salario minimo. Da quando il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno approvato, il 7 giugno scorso, la nuova direttiva passata agli onori di cronaca come “un passo verso il salario minimo europeo”, abbiamo avuto le reazioni più disparate da parte di tutto l’emiciclo.

Al di là della becera narrazione che ne hanno tirato fuori i media, la proposta di direttiva europea, sostenuta dalla stessa presidentessa conservatrice della Commissione Ue Ursula Von der Leyen, non obbliga gli Stati che, come l’Italia, non hanno una legislazione in materia, a fissare la soglia di un salario minimo. Vengono invece toccati principalmente due temi.

Il primo riguarda la contrattazione collettiva. La direttiva, approvata dopo un lungo iter di quasi un anno e mezzo, prevede che gli Stati dell’Unione arrivino ad avere almeno un 80 percento dei contratti coperti da contrattazione collettiva. Agli Stati che non raggiungono questa percentuale, viene richiesto di adattarsi entro due anni.

Ad oggi, nei sei Stati UE dove non è presente una legislazione in materia di salario minimo (Italia, Cipro, Danimarca, Svezia, Finlandia, Austria) l’individuazione della paga nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici è demandata allo strumento della contrattazione collettiva, con la quale le parti (generalmente i sindacati dei lavoratori e i rappresentanti dell’impresa, ma alle volte anche le istituzioni pubbliche) si siedono a un tavolo e negoziano il cosiddetto CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) che viene poi applicato a tutta la categoria.

Questo modus operandi, definito “di concentrazione”, crebbe in popolarità durante gli anni ’70, per lo meno nel nostro Paese. Dopo la stagione del 68’ e il cosiddetto “autunno caldo”, il governo cercava infatti di imporre la pace sociale tra un mondo sindacale decentralizzato ed eterogeneo e una classe imprenditoriale galvanizzata dal mito del boom economico. Di lì a breve, nella cornice storica del “lungo ‘68” e della spaccatura sempre più insanabile che vedeva contrapposti il PCI e la sinistra istituzionale contro i movimenti autonomi, si iniziano a intravedere i primi tentativi da parte dei sindacati concentrativi di fare fronte comune.

È infatti nel 72’ che si forma la Federazione CGIL, CISL, UIL,avente come obiettivo l’unificazione del fronte sindacale italiano, in un periodo storico di forti vittorie in merito alla tutela dei lavoratori e delle lavoratrici. Stiamo infatti parlando degli anni della legge 194 sull’aborto, della riforma del diritto della famiglia del ‘75 che introduceva – almeno formalmente - la parità uomo-donna e dello Statuto dei Lavoratori.

Alla fine di questo ciclo politico e sociale, nonostante le decisioni del Governo Craxi sul cosiddetto taglio della scala mobile (che prevedeva lo stop all’adeguamento degli stipendi in base ai prezzi dei beni di consumo) abbiano decretato la fine della federazione CGIL CISL UIL per via dell’opposizione della CGIL nei confronti di una norma considerata inaccettabile, la capacità contrattuale dei tre sindacati è rimasta ancora per qualche anno alta.

Quello che interviene in questa fase sono le modifiche strutturali del rapporto tra capitale e lavoro, che se da un lato ha via via introdotto una deregoulation nel mercato del lavoro, dall’altro ha portato sempre di più i sindacati della cosiddetta “Triplice” ad abbracciare una strategia quasi completamente concertativa, abbandonando quasi totalmente quella conflittuale.

Tornando alla questione salariale, se è vero infatti che strumento della contrattazione collettiva tra imprese e sindacati ad oggi è arrivato a coprire circa il 98% della forza lavoro del “Bel Paese”, è vero anche che non si può pensare che questo il sistema possa efficacemente sostituire il salario minimo. Ciò è dovuto innanzitutto alla mancanza di uguaglianza nel trattamento di ogni categoria (in Italia il numero di CCNL sfiora le 1000 unità), per cui le condizioni di contratto (immaginando che vengano sempre applicate de facto) sono il prodotto dei rapporti di forza tra l’impresa e la categoria che lo negozia, rapporti che ovviamente possono variare in base a fattori come la combattività del sindacato, le politiche aziendali, il livello di sindacalizzazione dell’impresa, la difficoltà a reperire nuova manodopera qualificata ecc.…

L’inadeguatezza dei CCNL è palesata soprattutto per quei settori più a rischio sfruttamento, come il caso dei cosiddetti Riders. Io stesso iniziai a lavorare per la multinazionale spagnola Glovo a inizio 2021, diversi mesi dopo che il sindacato UGL (che, per inciso, propone il “superamento definitivo della concezione politica di classe sociale e delle sue conseguenze ideologiche”) firmò con AssoDelivery, l’associazione di categoria che rappresenta le imprese del settore Food delivery, un CCNL talmente imbarazzante e indignitoso che anche la triade di sindacati concentrativi si è rifiutata di siglare.

Il contratto, oltre a prevedere qualche spicciolo di indennità in caso di pioggia o di festività nazionali (ad esempio, in caso di pioggia sarebbe stata corrisposta al rider un’indennità del 10% che, se rapportata ad un pagamento medio di 4,50 euro per consegna completa, significa 45 centesimi) decantava il raggiungimento di un salario di 10 euro orari, il che può sicuramente sembrare una seppur limitata vittoria per un settore con salari bassissimi che ha sempre ipersfruttato manodopera soprattutto immigrata anche grazie al sistema del caporalato. Peccato che, de facto, la paga minima reale oraria in caso non venisse assegnato alcun ordine si attestava su 3,50 euro lordi l’ora, non contano quindi le trattenute.

Questo perché, perlomeno nei primi trimestri del 2021, il sistema di lavoro con Glovo prevedeva che, una volta che il rider si fosse prenotato il proprio slot (le ore di lavoro per intenderci) sarebbe stato pagato non per il numero di ore, ma in base alle consegne effettuate. La paga di 10 euro orari è rapportata solo al tempo secondo cui, per l’impresa, il lavoratore o la lavoratrice avrebbe impiegato al fine di effettuare la consegna. Questo senza contare il traffico, le lunghe estenuanti attese davanti alle grandi catene di fast food, spesso al freddo o sotto la pioggia, la maleducazione dei clienti che non si degnano nemmeno di scendere le scale per ritirare il proprio cibo, la cronica carenza di una rete ciclabile efficiente nelle nostre città, etc.

Se, secondo Glovo, una consegna richiede 15 minuti e l’ora intera vale 10 euro, il pagamento corrisposto al rider è quindi di 2,5 a consegna. Quando ci lavoravo, la paga per task non poteva comunque essere inferiore a 4,50 euro a prescindere dal tempo impiegato, cosa che però è stata successivamente rivista dalle politiche dell’azienda. Ciò è un chiaro esempio del fatto che la contrattazione collettiva è, specialmente per quei settori nuovi o con una presenza di sindacati poco combattivi se non proprio gialli, non è assolutamente garanzia né di condizioni di lavoro dignitose né tantomeno di un corrispettivo economico ponderato al tempo e alla fatica richiesta alla forza lavoro.

Inoltre, è prassi comune che nel nostro paese i CCNL, che di norma andrebbero rinegoziati ogni 3 anni, siano lasciati scadere e non rinnovati.

Secondo il Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro, il 62,7% dei contratti collettivi risultavano scaduti a febbraio 2022, con molti altri prossimi alla scadenza. Ciò non garantisce quindi un riadattamento né alle nuove esigenze che possono variare (alcuni contratti, come ad esempio quelli relativi alle imprese di pulizia e multiservizi, non sono stati rinnovati anche per 10 anni) all’interno dell’ambiente lavorativo e ai diritti dei lavoratori né tantomeno per quando concerne gli adeguamenti salariali doverosi in un contesto di costante crescita dell’inflazione. Infatti, l’Italia è l’unico paese OCSE che ha visto una contrazione e non un aumento dei salari negli ultimi 30 anni, e ciò ha fortemente eroso la sicurezza economica dei risparmiatori.

Oltre a ciò, si aggiunge il dato che riguarda gli stipendi in settori considerati sottopagati. Ad esempio, quasi un terzo della forza lavoro percepisce una retribuzione inferiore a 9 euro l’ora, tra cui il 90% dei lavoratori domestici.

Il secondo punto della direttiva europea tratta proprio di questo, proponendo l’adeguamento dei salari al costo della vita e quindi all’inflazione. In realtà questa norma ha una lunga tradizione in Italia, con la cosiddetta scala mobile di cui parlavamo prima, vigente dal 45’ all’84’, che obbligava le imprese a corrispondere uno stipendio adeguato al costo della vita.

La nuova norma europea prevederebbe infatti un sistema di adeguamento ai salari al fine di garantire «standard dignitosi di vita, tenendo in considerazione le condizioni socio-economiche, il potere d’acquisto e i livelli di produttività nazionali». I salari, secondo la direttiva UE, potranno risultare adeguati se corrispondono almeno ad un timido 50% della retribuzione media lorda e dovranno esser adeguati in misura della nuova norma.

E per l’Italia cosa cambia? Assolutamente nulla, visto che da noi è assente una legislazione sul salario minimo e per quanto concerne la contrattazione collettiva siamo abbondantemente nei parametri. Infatti, chiarendo la situazione che si era venuta a creare dopo l’approvazione della norma, Nicolas Schmit, commissario Ue al lavoro e ai diritti sociali, ha dichiarato che non verrà imposto alcun salario minimo all’Italia.

Ciò è l’ennesima riprova di come l’unico modo per avanzare rivendicazioni salariali è quello della lotta dal basso. L’immobilismo delle istituzioni italiane ed europee, avallato anche dai partiti di centro-sinistra, rende necessaria una presa di posizione netta da parte dei sindacati in favore di nuove tutele riguardanti il mondo del lavoro.

Specialmente in un contesto come quello italiano, investito da una profonda e trentennale stagnazione salariale e da un aumento costante del costo della vita, risulta doveroso costruire un nuovo modello di sindacalismo di base che possa ridare linfa al movimento operaio e spostare l’asticella dei rapporti di forza in favore dei movimenti. Una riforma come quella del salario minimo potrebbe esser un ottimo punto di partenza per ridare diritti e dignità a tutti quei lavori, ad esempio gli stagionali, che ad oggi risultano sfiancanti da un punto di vista fisico e altamente sottopagati.