Roma svendesi

14 / 3 / 2011

Le ultime notizie in merito alla vendita degli immobili di proprietà del Comune di Roma svelano la distorsione di un processo, quello della dismissione, che chiama in causa la responsabilità pubblica degli amministratori, la trasparenza delle operazioni di vendita e perfino la coerenza politica delle decisioni prese.

Al contrario, invece, negli ultimi anni la dismissione del patrimonio immobiliare comunale è passata, politicamente, come operazione lecita e legittima, in un contesto economico e finanziario, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del 2000, caratterizzato dalla bolla immobiliare e dalla crescita esorbitante dei valori di rendita. Le voci di chi, come i movimenti di lotta per la casa, gli urbanisti e gli analisti del settore, hanno denunciato l’ambiguità e la pericolosità della dismissione dal punto di vista economico, sia per le casse pubbliche che per la sua insostenibilità sociale, non sono state ascoltate.

Le motivazioni che condussero prima la Giunta Rutelli e poi quella di Veltroni a intraprendere questa strada furono da subito quantomeno odiose: si trattò infatti non di un progetto politico teso a tentare di risolvere la delicata questione abitativa, ma dell’ammissione della propria incapacità di gestire il patrimonio immobiliare. Un’istituzione così potente, che in quegli anni stava dandosi un nuovo Piano regolatore generale e che alludeva addirittura alla costruzione di un tipo di crescita economica definita come “modello Roma”, come avrebbe potuto confessare una così grave mancanza senza immediatamente intervenire per colmarla? Al contrario Roma, o meglio il suo governo, ha scelto di svendersi, infilandosi nel sistema studiato da Tremonti per la vendita degli immobili degli enti previdenziali – le cosiddette operazioni Scip 1 e Scip 2, e già il nome dice molto – datate rispettivamente al dicembre 2001 e 2002.

In realtà le competenze e gli strumenti per gestire il patrimonio immobiliare comunale, invece di svenderlo, erano già presenti all’interno dell’amministrazione; la Conservatoria del Comune di Roma ha lavorato dalla metà degli anni Novanta per individuare e aggiornare la consistenza del patrimonio immobiliare e per geo-referenziarlo su una piattaforma digitale attraverso un sistema informatico innovativo. Ormai è chiaro che quel lavoro, approfondito e dettagliato, è di fatto servito solo a informare successivamente le stesse operazioni di dismissione: e quello che doveva essere uno strumento di conoscenza e intervento si è trasformato in strumento utile alla “valorizzazione” del patrimonio urbano, ovvero alla sua potenziale alienazione.

L’idea di svendere, dunque, era funzionale a una logica politica di esternalizzazione del rischio – ma anche delle opportunità – che ancora oggi caratterizza l’amministrazione comunale. Si decise infatti, per singoli Municipi, quali immobili dismettere, chiarendo la loro consistenza metrica e il loro valore inventariale. Chi scrive ha potuto avvalersi degli studi preliminari di tale riordino informatico, gli inventari, per individuare nel I Municipio – quello del centro sotrico – quali immobili sarebbero stati coinvolti nella speculazione immobiliare conseguente alla dismissione. Al di là infatti delle modalità poco trasparenti con cui si è svenduto il patrimonio pubblico, che sono probabilmente oggetto delle indagini in corso, è stato proprio il I Municipio a subire per primo tale torto. Si è cominciato insomma dal patrimonio più prestigioso e prezioso della città, il più raro e irriproducibile.

In base all’elaborazione dei dati forniti dalla Conservatoria del Comune di Roma nel 2007, solo le abitazioni coinvolte dalla prima dismissione, di cui circa il 70 per cento nel Municipio I, sono state 1025 (per 74.548 mq), 179 gli esercizi commerciali, i locali e gli uffici (per 16.317 mq), 98 le cantine, le soffitte, i magazzini, i box e le autorimesse (per 1385 mq). Da sottolineare la forbice che esiste tra il valore inventariale a cui si dismette il patrimonio stesso (circa 112 milioni di euro) e il valore di mercato, ottenuto mediando i valori di vendita medi per Rione (circa 721 milioni di euro). Basti solo immaginare il valore di rendita che tali abitazioni hanno accumulato nei secoli. Anche se ai nuovi proprietari è vietato rivendere a prezzo di mercato la loro casa prima di dieci anni, o cinque in caso di deroghe speciali, è facile pensare come gli immobili venduti siano stati comunque oggetto di operazioni speculative, rischiando di continuare ad alimentare un mercato immobiliare mai sazio, e soprattutto fruttando almeno sette volte di più alla nuova proprietà in un arco di tempo minore di una generazione.

Quale responsabilità politica si è assunta dunque un’amministrazione capace di favorire queste operazioni speculative? E ancora, come è possibile che la svendita sia partita proprio da un luogo segnato già gravemente dall’esodo di abitanti che lo ha svuotato negli anni? Chi, se non l’amministrazione pubblica, avrebbe piuttosto dovuto tutelare il diritto alla città e opporsi alla ferocia del mercato immobiliare romano?

Come se non bastasse, è sconcertante sapere che la filosofia, o meglio la retorica, che ha guidato la dismissione sia stata quella di svendere per ottenere liquidità utile a costruire nuove case per l’“emergenza” abitativa. Di fatto le politiche, non solo patrimoniali, delle amministrazioni che si sono succedute da Rutelli fino ad Alemanno hanno solo aggravato una tendenza drammatica e ormai cronica, per la città di Roma: l’accesso alla casa non viene sostenuto da nessuna politica sull’affitto per calmierare i prezzi immobiliari. Il patrimonio esistente viene venduto, di nascosto e a poco prezzo; le nuove insufficienti case popolari vengono proiettate al di fuori del grande raccordo anulare romano, negando il diritto alla città alle fasce più deboli economicamente; il programma di housing sociale dispone un sistema perverso di privatizzazione del suolo pubblico in nome della sostenibilità abitativa, e la città pubblica, come quella di Tor Bella Monaca ad esempio, viene prima socialmente demonizzata dai media e dalla stessa amministrazione per essere più facilmente demolita e sostituita, dall’alto, con fantomatiche trasformazioni urbanistiche.

Nel vuoto di idee che caratterizza le politiche abitative comunali, importanti esempi di conquista di diritti e spazi di vita consistono nelle occupazioni abitative da parte dei movimenti che, nella difficoltà dell’autogestione, sono capaci di restituire alla città interi edifici sottratti alle logiche speculative. Il recupero e la messa in sicurezza del patrimonio esistente della città è l’unica prospettiva sostenibile socialmente ed economicamente. Se davvero l’obiettivo della vendita del patrimonio immobiliare comunale (o la sua demolizione) fosse stato la soddisfazione di esigenze collettive, sarebbe stato perseguito attraverso modalità assolutamente scorrette. Già dopo due anni dal loro inizio, le operazioni di alienazione non avevano prodotto i risultati sperati in termini finanziari: la valorizzazione economica del patrimonio la potrà infatti conoscere solo chi, entrandone fortunosamente in possesso, avrà la possibilità di rivenderlo a prezzo di mercato. Invece di accrescere la proprietà privata, il patrimonio immobiliare comunale avrebbe potuto acquisire un ruolo essenziale in una prospettiva differente, collocandosi come punto di partenza per ipotesi di gestione e di investimento da parte dell’amministrazione comunale, senza la perdita definitiva della proprietà e dunque dell’agibilità delle risorse pubbliche.

A questo punto, in un contesto politico economico ed amministrativo degradato com’è quello romano nel tempo della Giunta Alemanno, è impossibile immaginare che la vendita di un patrimonio possa essere ridotta a mero disinvestimento della spesa gestionale pubblica. Un patrimonio immobiliare come quello di Roma, di tale peso e prestigio, farebbe gola a chiunque. A Parigi, ad esempio, l’investimento pubblico sul patrimonio immobiliare esistente costituisce un volano economico efficace e in crescita. Roma ha sofferto per troppo tempo una colpevole irresponsabilità politica che ha negato ai suoi abitanti il diritto alla città.

*** Esc, atelier autogestito

Tratto da: