Roma - Officine Zero, la fabbrica riconvertita

4 / 6 / 2013

Come in una abitazione riarredata bisogna rovistare in soffitta per trovarvi oggetti inutilizzati e mobili che hanno ceduto il passo ai nuovi, così è necessario uscire dalla nuovissima e ultramoderna Stazione Tiburtina, a Roma, per andare alla ricerca di ciò che la «rivoluzione» dell'alta velocità ha consegnato all'archeologia ferroviaria. Basta usare, come bussola, dei vecchi binari arrugginiti che conducono all'interno delle officine in cui, fino a pochi anni fa, si faceva la manutenzione dei treni. Si trovano sul retro della stazione, dove il privatissimo Italo di Luca di Montezemolo sfida in efficienza e tempi di percorrenza i Frecciarossa di Trenitalia. Un paio di vagoni sono ancora sospesi in altrettanti capannoni cui si accede attraverso un binario semovente, i lavori di smontaggio lasciati a metà. Una carrozza merci giace semisventrata in un prato.

Nell'officina più grande, seguendo la strada tracciata dai binari, la sagoma di un vecchia carrozza dell'Espresso rimane sullo sfondo, impolverata. Sul lato opposto si trovano dei carrelli che appaiono in ottimo stato di conservazione. «Li avevamo preparati per la nuova tratta della metropolitana B di Roma», spiega Enzo de Santis, ormai ex lavoratore della Rsi, un acronimo che sta per Rail Service Italia, l'azienda che in questi padiglioni aggiustava i treni notte. «Stanno qui da tre anni, ma nessuno è mai venuto a ritirarli». Andrebbero esposti in pubblico, a imperitura memoria della disastrosa amministrazione del sindaco Alemanno, simbolo di tutti gli scandali e sperperi di denaro pubblico. Aggirandosi tra i prati e i capannoni, si ha come l'impressione che qui la vita si sia fermata d'improvviso, per qualche misterioso motivo. Come dopo un terremoto o un'eruzione. Ogni cosa è al suo posto, mummificata come in una Pompei del declino ferroviario: i vagoni affrescati dai writer, la falegnameria con tutti gli strumenti di lavoro, la mensa con i frigoriferi e le cucine, la sala riunioni e gli uffici amministrativi dove, racconta chi ha provveduto a ripulirli, «abbiamo trovato le scrivanie piene di documenti, giornali, penne e matite» come se i dipendenti fossero stati costretti a una fuga precipitosa o fossero evaporati da un momento all'altro per effetto di una bomba H che ha lasciato intatti solo gli oggetti.

È l'altra faccia, la più nascosta, del primo hub dell'alta velocità italiano, inaugurato un anno e mezzo fa in pompa magna, alla presenza di Giorgio Napolitano, e finora mai realmente decollato, nonostante i 330 milioni investiti e la grancassa mediatica sulla riqualificazione che avrebbe investito l'intero quartiere. I 33 operai della ex Rsi - tutti in cassa integrazione, prima ordinaria, poi in deroga, ora straordinaria - non si sono mai arresi alla dismissione. Per un anno e mezzo hanno presidiato il loro ex luogo di lavoro e oggi provano a ripartire. Nel grande inverno dello scontento italiano si intravvedono germogli di speranza, e quello di Officine zero - come si sono ridenominati - appare uno dei più originali. Non si tratta di una "fabbrica recuperata" sul modello argentino - come è il caso della Mancoop di Castelforte, nel Basso Lazio - in cui, fuggiti i "padroni", si prova a conservare la produzione in forma cooperativa e autogestita. Qui non sarebbe possibile, per mancanza del committente: Trenitalia ha soppresso i convogli notturni che per decenni avevano scarrozzato migliaia di emigranti dal sud al nord del nostro Paese. A poco erano servite le proteste, anche le più dure, come quella dei lavoratori milanesi rimasti per mesi sospesi su una torre nella stazione centrale di Milano.

I lavoratori della ex-Rsi si sono così trovati di fronte a un bivio: arrendersi alla cassa integrazione, che prima o poi sarebbe finita, o reinventarsi. Non si sono accontentati dell'elemosina statale e hanno scelto la seconda strada. Si sono accorti che al di là di un muro, dal lato opposto rispetto alla stazione, una fabbrica anch'essa abbandonata era stata occupata per farne un centro sociale, lo Strike, e che gli occupanti «erano lavoratori come noi, perfino meno garantiti», dice oggi un altro quasi ex operaio, Emiliano Angelella. Il muro, fino a quel momento, era fatto di blocchi di cemento ma anche di pregiudizi: «Molti fra noi dicevano che quelli non facevano niente tutto il giorno, mentre noi invece lavoravamo».

La Grande Crisi italiana ha contribuito ad abbatterlo e a far nascere la «pazza idea» di recuperare questa Pompei ferroviaria nel cuore di Roma, utilizzando le loro competenze per un lavoro diverso, attento all'ambiente. Ci lavorano dallo scorso settembre, quando hanno capito che il fallimento della Barletta, la società che aveva rilevato la Rsi, chiudeva per sempre le porte a una riapertura. Hanno messo in piedi un «laboratorio sulla riconversione» insieme ad architetti, economisti e altri esperti. E ora finalmente sono pronti a partire. Ieri le Officine Zero - «zero padroni, zero sfruttamento, zero inquinamento», è lo slogan - hanno inaugurato la nuova fabbrica «eco-sociale». Gli ex lavoratori della Rsi lavorano al riuso e riciclo di elettrodomestici, personal computer, mobili e oggetti d'arredamento - tutto ciò di cui la modernità consumista prevede la sostituzione, con un alto costo ecologico. Gli uffici amministrativi, separati tra loro da vetrate come in una moderna redazione giornalistica, sono stati adibiti al coworking : chiunque - professionista, giornalista free lance - abbia bisogno di una scrivania e un collegamento a internet può affittare la postazione per il tempo che crede. La sala riunioni sarà trasformata in una «camera del lavoro autonomo e precario», con sportelli di consulenza per il cosiddetto popolo delle partite Iva e per i lavoratori che sfuggono al sindacato tradizionale.

Infine, l'abitazione del direttore dell'azienda diventerà una casa dello studente. La mensa farà da mangiare per tutti. L'obiettivo è convincere il curatore fallimentare a consegnare loro l'azienda e le istituzioni - la Regione in primis - a sostenere questa «pazza idea» di «lavorare senza padroni». Sottraendola a una sorte facilmente intuibile per un'area di un quartiere in trasformazione: quella di essere destinata, per quattro soldi, all'ennesima speculazione edilizia.

Tratto da Dinamo Press e pubblicato in Il Manifesto 2 giugno