Roma 6 marzo 2012 - Introduzione all'assemblea cittadina nella Casa Internazionale delle Donne contro lo sgombero di Lucha y Siesta

8 / 3 / 2012

Pochi  punti per avviare una discussione e per lanciare alcune suggestioni che sono il frutto del ragionamento che stiamo facendo in questi mesi a lucha y siesta e nelle reti e relazioni a cui abbiamo aderito nella strada che ci ha portato fin qui.

Quella che stiamo vivendo è una Guerra, una Guerra contro la maggioranza dei cittadini e delle cittadine di questo paese, è una Guerra coloniale da parte della finanza globale che vuole assoggettare e depredare tutto: territori beni e diritti. Lo vediamo ovunque ed ogni giorno: nelle finanziarie lacrime e sangue, nella diminuzione dei diritti del lavoro come nel caso Fiat e l’estromissione della Fiom nelle fabbriche, o come la cancellazione dell’art. 18 di cui si parla in questi giorni.

E’ guerra contro i territori, come nelle discariche e negli inceneritori di napoli e di altre zone o il tav in Val susa, dove in modo ottuso e noncurante si vogliono portare avanti progetti economicamente non produttivi, addirittura pericolosi, e comunque sordi a ciò che la popolazione che li abita, lavora, vive, ha da dire.

E così come accade in Val Susa, le “aperture” da parte delle istituzioni ( qualche posto di lavoro nei cantieri, affari per gli alberghi) sono solo strategie momentanee per appiattire il dissenso e che guardano ancora una volta solo al profitto per pochi e non al benessere di tutti. Non tanto dissimile il caso di Lucha, in cui il sindaco pur di risolvere il “problema” rappresentato dal progetto della casa delle donne, propone soldi per le donne ospitate o un altro posto non bene identificato, insomma palliativi per continuare a speculare sul patrimonio pubblico e a sventrare la città, non certo al fine di creare un progetto che costruisce benessere sociale per il futuro.

Scambiare la progettualità di autonomia delle donne, che è per il futuro di tutti, con dei soldi subito per alcune persone non è una soluzione accettabile, è solo un modo di eliminare dalla radice le richieste di riconoscimento dei diritti di cittadinanza.

Ma questa guerra, che colpisce la collettività tutta, ha nelle donne il suo primo e più importante obiettivo, l’obiettivo che la donna torni ad essere un corpo assoggettato e di nuovo la risorsa per avere un welfare a costo zero,che carichi su di se il costo della crisi;  e da qui si dispiega una violenza contro le donne che tocca tutti gli aspetti della vita: accesso al lavoro, la differenza salariale, diritti sul lavoro ( maternità, dimissioni in bianco etc); accesso alla salute riproduttiva, femminicidio (dati Onu), violenza domestica e la progressiva diminuzione di diritti e servizi.

Non avevamo chiaro il quadro complesso che si stava delineando nel paese 4 anni fa quando recuperammo un edificio abbandonato da più di 10 anni per contribuire alla battaglia più complessiva che le donne stavano rimettendo in piedi.

La consapevolezza della portata della battaglia in cui ci stavamo imbarcando è arrivata nel tempo:
quando abbiamo toccato con mano quante decine di donne venivano a bussare alla nostra porta, spesso inermi dopo aver perso lavoro casa a volte anche la dignità
quando abbiamo iniziato a scontrarci con le politiche messe in campo dal centro destra e spesso avvallate anche dal centro sx, sulla sicurezza che si traduce in controllo sul corpo delle donne, sull’assistenza come se le donne fossero un soggetto inferiore da assistere appunto
-     quando abbiamo iniziato la battaglia contro la legge Tarzia, la difesa dei consultori pubblici e la libertà di scelta, la possibilità di accedere alla Ru486 e alla pillola del giorno dopo.
Nel tempo insomma abbiamo capito che la battaglia che stavamo portando avanti era una lotta per la democrazia e i diritti, per la libertà e l’autodeterminazione sia nella sfera pubblica che in quella privata, delle donne innanzitutto ma di tutta la società poi.

Ciò che è accaduto nell’ultimo anno circa, la ripresa di parola da parte delle donne che si è manifestata nelle piazze ( il 13 febbraio, l’8 marzo etc) nel moltiplicarsi di convegni e di assemblee, negli scambi di posizioni e di ragionamenti sui giornali e sulle radio è stato importante ma oggi possiamo anche dire insufficiente. Ci riferiamo in particolare a tutto ciò che si è mosso con Snoq, che ha avuto il pregio di parlare a tante e tanti, di far emergere una questione morale nell’epoca del berlusconismo riguardo all’immagine delle donne, ha anche contribuito in modo significativo a affossare il consenso attorno al governo Berlusconi, ma poi cosa è cambiato?

La critica che facemmo lo scorso anno, e di cui alcune dissero che fosse estrema se non addirittura strumentale, ma che poi il tempo ha confermato, è che lo stampo della politica di genere messo in campo da snoq  e dalle istituzioni a vario livello non solo è poco audace ma anche di stampo “normalizzante”. Cioè si evidenziano tutta una serie di ciriticità nel campo della mancanza dei diritti delle donne (maternità e diritti del lavoro per esempio) ma dentro un campo socio-economico e culturale che tutto sommato viene accettato come dato. La sfida che si presenta oggi invece e che sta dentro uno scontro culturale aprissimo, ha bisogno di parole e di azioni forti, estreme quasi perché la condizione di violenza complessiva che vivono le donne non ha più tempo per essere spezzata.

Allora bisogna iniziare a dire che non vogliamo più parlare di assistenza ed inclusione (nella politica nella società nel lavoro), le donne non sono soggetti deboli da accudire né da assistere a vita per poter finanziare enti assistenziali, bisogna tornare a discutere di autonomia  e di valorizzazione dei percorsi che le donne già costruiscono.

E’ per questo che vogliamo porre la questione della casa delle donne Lucha y Siesta, in termini di patrimonio collettivo.
Perché seppur con aspetti diversi fa parte dello stesso contesto per cui la Casa Internazionale delle Donne paga d’affitto una cifra impossibile come se fosse un esercizio commerciale e non un punto di riferimento culturale politico e sociale; o nello stesso modo in cui si chiudono o si disinveste nei centri antiviolenza, o nei servizi per le donne; è lo stesso motivo per cui si vogliono trasformare i consultori o si vuole cancellare la legge 194.

Vogliamo peraltro ribadire una cosa: Il “progetto Lucha” è un progetto esportabile ovunque, non è necessario che si trovi laddove siamo ora per poter funzionare, ma crediamo che sia giunto un’altra volta il momento di mettere un punto fermo: per noi difendere l’esperienza di lucha significa da un lato affermare che il patrimonio pubblico è un bene comune e dall’altro ribadire che sulla valorizzazione dei percorsi di autonomia delle donne non si torna indietro.

La valorizzazione intesa dai poteri forti in termini di profitto non corrisponde alla nostra idea di valorizzazione in termini  di capitale sociale come risorsa; in termini di relazione e cura che creano un'idea di società e politica diversi; in termini di riappropriazione di spazi costruiti dalla e restituiti alla cittadinanza.
In questa fase di crisi, che non è più solo economica, ma coinvolge tutti i settori della società e in cui i governi al potere ci propinano solo le ricette del sacrificio per la cittadinanza in nome del bene superiore del mercato e della finanza, in molti stanno affermando che non è questo il modo in cui si esce da una crisi di sistema come quella che stiamo vivendo.

Da molte parti e con modi diversi si è iniziato a parlare di bene comune, alcune esperienze poi hanno provato a sperimentare concretamente cosa significa  rispondere alla crisi mettendo in piedi esperienze di riappropriazione di diritto e di servizio di cittadinanza.

Le stiamo chiamando “ Istituzioni del comune”, quei luoghi che rimettono al centro il bene comune degli individui e della società intera, sono quei luoghi che sottraggono potere alla speculazione e al profitto per costruire spazi di democrazia con una idea altera di ciò che si intende per società e cittadinanza ( il teatro valle e l’ex cinema palazzo sono un esempio). Nel caso di lucha ma anche delle donne dell’Aquila, di quelle di Milano o Torino inoltre dicono anche che le donne in particolare non possono essere più utilizzate come corpi spogliati di diritti, risorsa del mercato e della finanza per privarci ancora di più della vita, a tutt*.

Insomma noi diciamo che resistere a lucha significa mettere a disposizione una battaglia per tutti, per la democrazia e la tutela del bene comune, ma diciamo anche che è giunto il momento di prenderci tutto e che è arrivato il momento di estendere questa ed altre esperienze ovunque, altri Valle altre Lucha in ogni municipio in ogni quartiere.
Oltre alla parola riprendiamoci l’azione.