Ripartire da Trieste, citta’ dei matti

Mercoledì 10 febbraio pomeriggio a Trieste speriamo di essere in tanti per animare la discussione e poi per rilanciare le pratiche attorno al nodo (drammatico) droghe-carcere.

8 / 2 / 2010


Il workshop promosso dalla rete AltraTrieste si inserisce nelle giornate sulla psichiatria organizzate dall’Azienda Sanitaria in occasione del ventennale della morte di Franco Basaglia. Saranno tante nel corso dell’anno le occasioni per ricordare Basaglia. La memoria di per sé non basta. L’opera e la pratica di Basaglia vanno comprese, soprattutto da chi fa certi lavori e dovrebbe recuperare certi valori.

In questi giorni va in onda la fiction che racconta la vicenda umana dello psichiatra veneziano, del suo staff e soprattutto dei matti che lo hanno incontrato nei manicomi di Gorizia prima e di Trieste poi.

Perché il pensiero e le pratiche di Basaglia sono oggi così attuali, non solo per la psichiatria ma per il welfare in generale?

Non lo sono solo per i suoi scritti sull’autenticità, sull’oggettivazione del malato e contro la medicalizzazione; né solo per aver per primo in Italia messo in discussione il concetto di devianza e normalità o di salute e malattia mentale. Non lo sono solo perché questi suoi scritti sono oggi così disattesi nei servizi (si pensi, per esempio, ad alcuni servizi per le tossicodipendenze).

Basaglia fu in grado di giocare dentro le istituzioni di cura e del welfare un ruolo in direzione ostinata e contraria.

Quando arrivò a dirigere il manicomio di Gorizia, i suoi pazienti (quelli, allora, si chiamavano malati o matti) non avevano alcuna dignità: erano legati, torturati e rinchiusi. Finivano in manicomi i matti di guerra, le ragazze un po’ libertine, gli alcolisti; e diventavano matti a causa del manicomio, delle torture e dell’elettroschock.

Finivano in manicomio i diversi, i devianti che la società non voleva accogliere, a cui non voleva dare cittadinanza perché offendevano la morale o ponevano domande troppo complesse. Il manicomio rispondeva, in pieno stile fascista, al bisogno di sicurezza dei “normali” contro i “deviati”. Quello che succedeva là dentro era il giusto prezzo da pagare per stare al sicuro, per conservare la morale dominante.

Quando si chiese “Che cosa è malattia mentale?”, Basaglia di chiese soprattutto cosa fosse la normalità.

Per prima cosa, Basaglia comprese che non c’è cura possibile nel rapporto asimmetrico fra medico e malato, quando il sapere del primo si esprime come potere assoluto sul corpo dell’altro.

Basaglia e il suo staff intrapresero una strada mai percorsa prima, che andava per tentativi ed errori ma che aveva una sola chiara bussola: la distruzione dell’istituzione che dirigeva.

Costruirono le assemblee dei pazienti; abbatterono i muri; si spogliarono dei loro camici e così del loro ruolo che aveva oppresso i matti. Era una strada dalla quale non si poteva tornare indietro. Così arrivò a Trieste, aprì il manicomio all’arte, alla musica e alla città. Per le strade di Trieste insieme ai “suoi” matti uscì con un cavallo di cartapesta che teneva in pancia i sogni dei reclusi, degli ultimi: casa, amore, lavoro e dignità. I sogni di tutti noi che ai matti erano vietati.

C’è una scena del film che colpisce: una paziente è incinta e i carabinieri perquisiscono il manicomio alla ricerca di estrogeni che venivano prescritti come anticoncezionali (Basaglia subì un processo per quelle prescrizioni); un matto si avvicina al carabiniere che sta sequestrando le cartelle cliniche e gli chiede:

“Scusa, qual xe la lege che dixe che ti te pol scopare e mi no?”.

Una prova di consapevolezza dei propri bisogni e di critica dell’autorità. Una prova di libertà.

Basaglia è molto di più della legge 180.

È un esempio che nella pratica quotidiana del welfare si deve mettere la persona al centro; un esempio di rifiuto del ruolo di controllo e contenimento che il potere affida ai servizi sociali e sanitari; un esempio di una battaglia politica e culturale coinvolge il welfare e che attraverso la pratica entra nella società.

Franco Basaglia mise in crisi il proprio ruolo, negò l’istituzione e aprì un conflitto dentro il sistema sanitario giocato con le armi del rifiuto e della disobbedienza (alla morale dominante prima che alla legge).

Quanti sono oggi gli operatori o i medici che pur di conservare il proprio ruolo si allineano alle peggiori porcherie che la legge prevede?

Quanti sono i professionisti della cura che temono le conseguenze del rifiuto e della disobbedienza?

“Noi abbiamo dimostrato che si può fare”, disse.

Non ci sarebbe bisogno di ritornare al principio, di rimettere al centro la persona?

Non ci sarebbe bisogno oggi di pratiche indipendenti contro il ruolo che al welfare viene affibbiato?

Non sarebbe ora che, per esempio sulle droghe, si dicesse “Si può fare!” contro una legge che porta con sé tutta la normalizzazione, la medicalizzazione, l’esclusione e la reclusione che erano negli anni ’60 e ’70 propri della psichiatria?

Ecco cosa vediamo attuale di Basaglia: libertà e indipendenza.

La libertà che è condizione essenziale e allo stesso tempo obiettivo della cura.

L’indipendenza del sapere, che combatte quotidianamente il conflitto fra liberazione e repressione.

E che sceglie da che parte stare.

Pino di Pino, operatore di strada.