Riflessioni da Idomeni

Un contributo di ritorno dalla carovana solidale #OverTheFortress

2 / 4 / 2016

Nella vita, ogni pensiero, ogni situazione, ogni azione è perfettibile. Tutto può essere analizzato sotto mille punti di vista e ognuno di questi ha il potere di travolgere le prospettive raggiunte in precedenza, che tanto ci parevano definitive e risolutive. 

Le uniche cose perfette, o quasi, sono il silenzio e l’immobilismo. 

Se non dici o non fai qualcosa, non sbagli. 

Se non dici o non fai qualcosa, non sarai mai obsoleto. 

Se non dici o non fai qualcosa, non dovrai mai combattere, come non dovrai mai dimostrare di avere sufficiente onestà intellettuale per tornare sui tuoi passi. 

Il silenzio e l’immobilismo sono perfetti come lo sono le bolle di sapone, che però sono anche vuote, non servono a nulla, sono morte ancora prima di scoppiare. 

Le quasi 300 persone che venerdì 25 marzo hanno raggiunto la Grecia, via terra e via mare, hanno deciso di assumere il coraggio di parlare e agire. 

Così la carovana #overthefortress è partita portando con sé cinque furgoni di aiuti umanitari e un messaggio di denuncia contro le politiche europee, scellerate e criminali, in materia di libertà di movimento. 

Gran parte della Carovana parte in nave, dal porto di Ancona, verso Igoumenitsa. 

Sulla nave l’atmosfera è serena, goliardicamente piratesca, gravida di aspettative ed entusiasmo. 

Viene naturale, a un certo punto, ritrovandosi persi una distesa sterminata di onde, rivolgere un pensiero a chi quello stesso mare l’ha solcato su una bagnarola. E in questo pensiero subito il mare si fa più denso, minaccioso, propagatore di un senso di pericolo omnidirezionale: le acque sotto, il cielo sopra, il vuoto dentro. 

Salpati in Grecia montiamo sugli autobus che, con un viaggio di quattro ore, ci portano a Idomeni. 

Idomeni è un paesino a ridosso del confine greco-macedone dove circa 14.000 persone hanno dato vita a un campo profughi, in attesa e con la ormai vana speranza di poter varcare il confine una volta aperto. 

Ci avviciniamo al campo attraverso due serpentoni di macchine parcheggiate lungo la strada, oltre le quali si distendono prati infiniti. E’ qui che vediamo i primi dei tanti bambini del campo (sono quasi il 50%), che giocano e ignorano i genitori che accolgono il nostro corteo di autobus tra gli applausi. 

Parcheggiamo fuori dal campo, nella piazza del paesino, e avanziamo a piedi. Tutti ci salutano con grandi sorrisi, molti ci chiedono che cosa siamo venuti a fare e se non fosse per le nostre pettorine arancioni ci saremmo già persi in questo oceano di volti e di tende. 

Parlo di oceano perché è proprio questo che sembra: un oceano le cui onde sono i corpi e le tende in movimento, un oceano che allaga un paesino intero livellando tutto entro il limite delle sue acque. 

Una volta dentro iniziamo a interagire con i profughi: i grandi vogliono raccontarci le loro storie e dirci di cosa hanno bisogno, i piccoli vogliono giocare. 

Forse questo è stato uno degli aspetti più importanti della nostra presenza: la capacità di creare relazioni, interloquire con tutti rifuggendo dai rapporti di assistenzialismo e volunturismo, con rispetto e serenità. 

La distribuzione degli aiuti umanitari inizia proprio questo primo giorno. Un porta a porta che lì diventa tenda a tenda, frazione di stalla a frazione di stalla, angolo di stazione occupata ad angolo di stazione occupata, dormitorio a dormitorio, persona a persona. 

Probabilmente la giornata più interessante, densa di contenuti politici e attività sul campo, è stata quella di domenica. 

Abbiamo raggiunto il Campo con la consapevolezza che sarebbe stata una giornata tesa. Infatti, il giorno prima, ci era giunta notizia che si stesse spargendo la voce che ci voleva lì nel ruolo di agitatori, pronti ad aiutare i profughi a sfondare il confine per entrare in Macedonia. Era difficile che una presenza così massiccia di volontari non riaccendesse la speranza. 

Tra noi ci ripetiamo che non saremo il detonatore di nessuna protesta e che, qualora questa dovesse scoppiare indipendentemente da noi, valuteremo come sostenerla senza egemonizzarla. 

Ma tutte queste riflessioni si rivelano inutili, giacchè la polizia blocca la strada per Idomeni e ci impedisce di raggiungere il campo temendo che la nostra presenza rafforzi la protesta all’interno del campo. 

C’è vento. Piove. La pioggia ci schiaffa in faccia altra pioggia. Poi torna il sereno. Poi ritorna a piovere. E’ il vento, quello che arriva e rimane. 

Ci raggiunge un collettivo greco, assieme a noi si avvicina alla polizia costruendo una barricata di aiuti umanitari, per mostrare a tutti quello che siamo venuti a portare: medicine, scarpe e vestiti, non di certo fumogeni e spranghe. Una barricata che è un confine, l’ennesimo, ma l’unico degno in questa Europa che non ha mai visto così tanto filo spinato ad attraversarla in tutta la sua storia. 

Poi però accadono quelle cose che ispirano i film più banali della storia, quei colpi di scena che in un libro te lo farebbero chiudere all’istante, ma che nella vita vera aprono cuori e sorrisi. 

Quando stiamo per andarcene, dopo aver già distribuito due furgoni di aiuti umanitari nei campi satellite di Polykastro durante le ore di presidio di fronte al blocco della polizia, questa decide di andarsene. Finalmente! 

Allora entriamo, ogni gruppo di lavoro continua quello che ha da fare, si riconoscono dei volti familiari tra i molti che affollano il campo. Proprio il fatto di riconoscersi, salutarsi per nome, ti fa capire la portata umana del nostro intervento. 

Durante questa giornata ho la fortuna di conoscere una famiglia da Kobane. Ci raccontano della loro casa distrutta, dei tre figli uccisi da Daesh. 

Ci dicono che non sono scappati alle bombe per morire a Idomeni, lentamente e senza dignità. 

La loro è una delle tante famiglie che, in base all’accordo tra Unione Europea e Turchia, dovrebbe essere rispedita sotto al regime di Erdogan. Proprio il regime che li perseguita e chearma Isis contro di loro. 

Sentir parlare di figli brutalmente assassinati è una condizione a cui siamo abituati. Un po’ pensiamo di averci fatto il callo: la morte e il dolore diventano accessori indispensabili, appendici dei corpi di chi sappiamo essere in fuga da quella parte meno fortunata del mondo. Complice di tutto ciò la fermezza con cui i cari di questi morti ce ne parlano: lo sguardo fiero, l’aria di chi sa di non dire nulla di nuovo, la sopportazione di chi ha scoperto che il baratro può essere sempre più profondo. 

Ma poi la madre si commuove, il nostro amico siriano che traduce per noi si commuove, il nostro piccolo gruppo cerca di non scomporsi per rispetto a chi quel dolore lo rivive ogni giorno. Allora lì, faccia a faccia con la sofferenza, senza la frapposizione di uno schermo, capisci che è tutto vero. Che il dolore personale e il senso d’ingiustizia colpiscono allo stesso modo da Kobane a Venezia, indipendentemente da come vengono accolti.

Ma la sensazionalità di questa commozione vivificata, più che viva, mi spinge a fare i conti con il fatto che a me fa sempre meno specie sapere di decine di civili morti qui, in Occidente. Lo stesso per le centinaia e le migliaia di persone che muoiono altrove. È brutto da dire, ma ad avere vent'anni di questi tempi si vive così. 

Forse sono insensibile. O forse sono pragmatica: perché credo che il mondo non abbia tempo e modo per aspettare che i cuori di tutti battano all'unisono. 

Ed è per questo che non voglio sforzarmi troppo di farvi comprendere il dolore che ho visto in quegli occhi: invece di star qui a tentare di smuovere gli animi per quanto già accaduto e già masticato e ingoiato e vomitato e ringurgitato ogni volta sui vostri schermi, credo sia giunta l'ora di adoperarci per non spostare l'asticella più in là. Dirsi "mi sono abituata alla solitudine emotiva in cui mi hanno confinato e ho arredato questa mia casa con le primule rosse del sangue di oggi e di ieri, ma i garofani di domani proprio non li voglio". 

Perché dopo i garofani ci sono le rose, le gerbere, i tulipani, i papaveri e tutti i fiori che si possono tingere del rosso di un sangue sempre più vivo e vero. E, che la cosa ci piaccia o meno, sempre più vicino a noi. 

Per chi invece ha ancora forze a sufficienza per scappare da questa solitudine emotiva, poter stringere le mani della mamma di Kobane, poter donare un paio di scarpe al bimbo che cammina scalzo, oppure un paio di pantaloni a suo padre, sono gli unici gesti possibili. Comprendere che i sentimenti, le sensazioni,  la fede nei propri principi si sentono, si percepiscono. Però poi vanno praticati. L’umanità stessa va praticata, perché si è vivi vivendo. Come le bestie agiscono da bestie, così gli uomini degni devono ricordarsi di vivere come tali. 

Ed è questo che siamo andati a fare in Grecia: praticare umanità, costruire con le nostre mani la nostra idea di Europa. Un’Europa viva, diametralmente opposta a quella che cerca di sopravvivere alla sua stessa morte a colpi di austerità e accordi criminali. 

L’ultimo giorno di permanenza in Grecia mi sono unita al Legal Team per andare in uno dei tanti centri di ricollocamento governativi. Centri sui cui c’è il segreto, inaccessibili a giornalisti e volontari (anche istituzionali) e gestiti da militari e polizia. 

Per accedere al centro ci siamo divisi in due gruppi: uno è rimasto lontano cercando di intercettare le persone che ci vivono per porre loro qualche domanda, mentre un gruppo più ristretto si è avvicinato cercando di ottenere un colloquio con il direttore. 

Non è facile, ma alla fine due di noi riescono a farsi ricevere dal direttore. Questo direttore è un militare, il che la dice lunga. Dice che all’interno del centro ci sono solo militari e polizia, l’unica autorizzata ad esercitare la forza in caso di necessità. Si tratta di un campo presidiato in cui c’è la presenza “civile” solo della Croce Rossa (Medici Senza Frontiere non vuole operare in questi centri, legittimandoli e sottostando al loro indirizzo) e l’UNHCR che fornisce la dotazione materiale e il supporto legale, quest’ultima attività assieme all’EASO (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo). 

L’incontro dura appena cinque minuti, nel corso dei quali si evince che i migranti lì presenti arrivano per il 90% dalle isole e che sono stati portati lì dalla polizia.

Le informazioni più interessanti le raccogliamo in strada. Infatti, non appena notano la nostra presenza, i profughi diretti in città si fermano volentieri per raccontarci la loro storia e chiederci consiglio. 

Tutto quello che ci viene raccontato narra la disumanità della polizia greca, l’incompetenza dell’UNHCR che non spiega loro nulla di asilo, ricollocamento, ricongiungimento. Nessuno di loro ha fatto domanda di asilo, non sanno che la Convenzione di Dublino è temporaneamente sospesa per la Grecia, non sanno nulla. 

Ma anche se volessero fare domanda di asilo, per poter poi accedere al ricollocamento nei diversi paesi dell’Unione, devono fare i conti con il fatto che in Grecia il Diritto di asilo non esiste e che la domanda può essere presentata solo via Skype e che l’appuntamento per fare ciò è di un’ora a settimana. Capite l’impraticabilità di tutto ciò, in un campo senza internet, tra mille altri richiedenti asilo nella stessa situazione. 

Anche per questo, mentre noi siamo qui, un altro gruppo è tornato a Idomeni per montare un gazebo dotato di prese elettriche, luci (si trova nella zona adiacente ai bagni chimici, che non è illuminata) e connessione wi-fi per 100 persone in contemporanea. 

Un altro gruppo ancora, invece, si trova a Salonicco, a manifestare accanto ai compagni greci e ai fratelli migranti nel giorno dell’incontro per la definizione dei regolamenti esecutivi dell’accordo del 17 Marzo firmato a Bruxelles. Regolamenti esecutivi che accompagnano un accordo illegale, che affida alla Turchia –dietro lauto compenso- la raccolta differenziata dei rifiuti che l’Europa non desidera. 

Questi giorni in Grecia non sono stati un exploit emotivo che lascia il tempo che trova. 

La carovana si è mossa dopo che da mesi tanti attivisti hanno posto in essere una staffetta tra la Grecia e l’Italia, e ora proseguirà verso i tanti altri confini che, in giro per la fortezza Europa, limitano la libertà di movimento e il movimento in libertà di chi fugge da guerra, fame, violenza, paura. 

La prossima tappa è quella del 3 aprile al Brennero, dove verranno tirate giù le reti che vorrebbero limitare il passaggio dei migranti. 

Pertanto vi invito a informarvi sulla carovana #overthefortress e a sostenerla.

Chiudo con una domanda, posta a una ragazza che è divenuta mia amica nel corso di questi giorni intensi, da parte di un profugo conosciuto nella sua città. 

Lui le ha chiesto cos’è che, a parer suo, ci rende umani. La sua risposta è stata la tipica di chi si becca tra capo e collo una domanda dal sapore esistenziale: non lo so, l’amore, la fame, la paura. 

Poi lui le ha dato la sua, di risposta: 

“It takes one day to be born, 

it takes one day to fall in love, 

but we never know how much it takes to change” 

Nell’attesa, dico io, non possiamo far altro che vivere e amare, ma anche odiare e soffrire, alla faccia di chi crede nell’immutabilità della nostra condizione, del nostro tempo, del nostro mondo. Alla faccia di chi dice di tenerci al sicuro, consegnandoci una sicurezza tutta bucherellata e martoriata dagli sforzi inauditi fatta per strapparla a qualcun’ altro.