Ricatto o riscatto: Governare l’anomalia Napoli oltre la morsa del debito

7 / 10 / 2016

Durante le ultime giornate attorno ai palazzi dell'amministrazione comunale napoletana si avvicendano una dopo l'altra molte delle vecchie e nuove vertenze sociali legate al welfare, all'erogazione di servizi e ai diritti sociali. Si tratta in alcuni casi di battaglie storiche, in altri (assistenza domiciliare agli anziani, assistenza materiale ai bambini disabili etc) di emergenze legate al definanziamento progressivo agli enti locali e alla spesa sociale stessa. Nessuna di queste vertenze può essere trattata con superficialità, utilizzata come occasione di propaganda da chi è stato parte attiva di Governi che il welfare lo hanno trasformato in un'asta sulla vita. Nessuna di queste vertenze può essere utilizzata come megafono per la propria persona politica, anche se, tristemente, è quello che sta accadendo quotidianamente nel circo del main stream in cerca famelica di notizioni da prima pagina contro l'amministrazione e sui social network, solito palcoscenico di narrazioni virtuali e di gloriose gesta mai accadute. Nessuno, salvo forse quale editorialista locale, pone la questione politica per come essa si presenta, senza prestarsi ad atteggiamenti da tifoseria, o al mantra dell'auto-assoluzione senza spirito critico. Tutta la kermesse drammaticamente si gioca sulla pelle di centinaia di lavoratori e disoccupati, e precipita nell'esistenza quotidiana di migliaia di famiglie della città che già vivono in sofferenza. Per questo è necessario sottrarsi al gioco delle parti e provare a rilanciare sul terreno della politica appunto e sulle linee di indirizzo complessive di una amministrazione che si distingue per discontinuità assoluta con le politiche nazionali ed europee. Ebbene proprio in queste settimane si apre la discussione sul prossimo bilancio previsionale, un piano pluriennale con il quale andremo a definire con precisione l'ordine di priorità della spesa. Le risorse, inutile dirlo, sono esigue e le penalizzazione imposte dalla “prima versione” del piano di rientro, al quale abbiamo scelto di aderire per evitare il dissesto, sono spaventose, oserei dire diaboliche. Tuttavia la coperta sempre più corta va tirata comunque da un lato. Le scelte strategiche però non bastano. In questa città gli sprechi sono ormai quasi inesistenti e tutti i settori della vita cittadina hanno destinate risorse che a leggerle non si sa se ridere o piangere. Così anche il miglior bilancio possibile, che sceglie di tenere innanzitutto conto di chi è venuto a portare la propria voce a ridosso dei palazzi in queste settimane, comunque non sarà sufficiente a garantire la sottrazione delle fasce subalterne dalla ricattabilità. Il fatto,vero, che questa esperienza amministrativa abbia tra i suoi pregi quello di aver politicizzato profondamente il tessuto sociale della città, riuscendo a raccontare che il nemico non è chiuso nel palazzo del Municipio ma su ben più comode poltrone romane, non ci esenta dal dover diventare i primi attori di una battaglia che non è solo di dignità per la città ma è di sopravvivenza di una singolarità preziosa che deve si riprodursi come una contagio su tanti altri territori ma per farlo deve innanzitutto dimostrare che nelle città ribelli si può vivere meglio che in quelle che obbediscono. Altrimenti si finisce per combattere una battaglia di validissimi principi, tutta concentrata sulla distribuzione di potere verso il basso e che però lentamente lascia indietro i poveri. Perchè questo non accada bisogna far sì che questo già abusato brand di “città ribelle” si risignifichi, vale a dire si posizioni sulla linea del conflitto. Perché, chiariamoci, non è certo l'assemblearismo spinto a cambiare i rapporti di forza tra la città e i governi centrali sia nazionali che europei, ma la capacità di costruzione di mobilitazione sociale. In questo senso anche il nostro modo di affrontare la battaglia referendaria che ci condurrà al voto del 4 dicembre non è e non può essere lo stesso del resto di Italia. Se è vero infatti che la crisi dei movimenti e l'esplosione di consenso dei populismi affanna ovunque la costruzione di un punto di vista radicale, non conservatore e non opportunista sul No alla Riforma Boschi, è altrettanto vero che proprio da qui, come da tutti gli altri territori in cui la resistenza è cosa vera e non mitopoiesi, può invece svilupparsi una campagna che metta innanzitutto al centro le condizioni del patto sociale di cittadinanza nella difesa della costituzione. Lontano dai feticci e dagli opportunismi. Il No napoletano alla riforma Boschi deve quindi innanzitutto essere un No all'attacco costante alla democrazia e al diritto del popolo alla decisione. Come potrebbe non essere così nella città che ha pagato più di tutte l'uso strumentale dell'emergenza, i commissariati straordinari ed in cui lo stesso SbloccaItalia (una delle tre controriforme renziane che hanno fatto malissimo al paese reale e benissimo alle lobby) ha costruito le condizioni per lo scempio della cabina di regia su Bagnoli. Il No napoletano alla riforma Boschi deve essere un No che, a partire proprio dalla condizione eterna di cittadinanza di serie b, differenziale, non compiuta, che ci ha imposto il paese in questi decenni, rilancia, utilizzando proprio lo spazio referendario, non solo sulla non-applicazione generale della carta costituzionale ma sulla ricontrattazione complessiva dei diritti di cittadinanza. E come si ricontrattano le condizioni di cittadinanza se non collocandosi, nello scontro istituzionale, dalla parte della città e degli ultimi e dalla parte opposta di chi in questo scontro assume l'eterno ruolo del vessatore. Questo non significa affatto non sedersi con Regione e Governo per specifiche questioni, ma significa sapere che nessuno di questi tavoli è risolutivo di una dicotomia strategica e deliberata. Napoli, con il suo milione di abitanti ma con i suoi tre milioni effettivi che ogni giorno arrivano dall’immediata provincia, circolano e producono in città, è di fatto una città in ostaggio, bloccata dal lavoro sinergico di corte dei conti, ministeri, parlamento, uffici della regione e tribunali ordinari che si rimpallano differenti modalità di affossamento della nostra sacrosanta autonomia. La conseguenza è lo stato di emergenza permanente ed eteroditetto. In questo senso è lo stesso spazio della disobbedienza istituzionale a non essere sufficiente, anche se efficace simbolicamente. Esso resta un improduttivo scontro istituzionale in cui l’elefante finirà sempre per schiacciare la formica. La battaglia sulle risorse, sull’autonomia democratica della città è invece una battaglia della città. L’intransigenza dell’amministrazione comunale sui temi centrali del governo cittadino – a partire, ad esempio, dal rifiuto di sedere in cabina di regia o dalla garanzia che la città metropolitana non sarà a disposizione del nuovo piano-discariche di De luca – è un dato imprescindibile, ma – da solo – insufficiente. Questa intransigenza, infatti, permette semplicemente che, su molti temi, non si sia costretti a giocare in difesa, ma non può in nessun modo diventare un surrogato della pianificazione dell’offensiva. L'offensiva la fa la città, quando si fa corpo collettivo. Cosa dovrebbe d’altronde essere lo zapatismo partenopeo se non la costruzione di comunità ribelli nella pratica di vita quotidiana, ma fatte da partigiani e partigiane di una lotta giusta per la dignità, il riconoscimento e l’autodeterminazione di quelle stesse comunità? Cosa dovrebbe essere una città ribelle, se non uno spazio urbano che – attraverso la costruzione di luoghi di decisione orizzontali, ma orientati, non neutrali, non tecnocratici – sceglie come governarsi da se? Allora forse, è davvero, come ha più volte ribadito lo stesso de Magistris, il caso di preparare una campagna di riconquista, che innanzitutto riscriva le regole della contrattazione, sostituendo la negoziazione a ribasso con l’imposizione a rialzo, che porti a Roma Napoli, i suoi quartieri, le sue infinite vertenze, le sue assemblee popolari in qualunque forma e con tutte le storie che connettono tra loro gli esperimenti recenti con gli storici comitati di lotta che hanno animato i nostri territori. Anche su questo bisogna essere chiari. La rivendicazione di democrazia d'altra parte non è un vuoto esercizio di annessione di opinioni tra loro incompatibili che finiscono per galleggiare in uno spazio vuoto, non situato, incapace di decidere. Rivendicare democrazia radicale vuol dire pretendere che il potere si distribuisca verso il basso e non verso l’alto. Così la lotta alle sperequazioni, la costruzione di un’uguaglianza sostanziale di tutte e tutti, cittadini, abitanti, migranti – indipendentemente dal livello di inclusione differenziale all’interno dell’angusto perimetro della cittadinanza sociale – è una precondizione al funzionamento della democrazia e non solo una delle opinioni possibili all’interno di uno spazio democratico. Alcuni territori ci hanno dato, in questi mesi, dei segnali importanti. Sta a noi coglierli e ricucirli insieme. Bagnoli, ovviamente, in prima istanza, nella coraggiosa e determinante intuizione di individuare nel governo nazionale, a Roma, la controparte materiale e simbolica contro la quale mobilitare il proprio territorio. Ma anche le duecento persone che si sono costituite come assemblea popolare della III Municipalità a partire dall’occupazione di un ospedale (il San Gennaro) che sta chiudendo a causa dei tagli regionali. La comunità resistente di Chiaiano che ha messo in campo una straordinaria mobilitazione portando mille persone in corteo nella periferia nord di Napoli per opporsi al piano Ecoballe. Quando le indicazioni vengono dai comitati, dai presidi di lotta di base, lo spazio per le ambiguità non esiste, perché è la prassi politica – e non l’elucubrazione a freddo sulla democrazia – a definire l’orizzonte del ragionamento. Abbiamo, come sempre, molto più da imparare dalle modalità serrata di confronto delle realtà di base quando organizzano dei momenti di lotta, che da sterili dibattiti intellettuali sul migliore dei mondi possibili. In questo senso le assemblee popolari, piuttosto che ambire a decidere sui quattro spiccioli del bilancio all’oggi destinati ai quartieri della terza città di Italia, undicesima d’Europa, devono essere proprio i luoghi da cui si scrivono i termini del rifinanziamento della città, a partire dai bisogni e dalle esigenze dei territori.

 Un’assemblea generale delle assemblee popolari sotto palazzo Chigi. Questa è la proposta. Uno schiaffo in faccia ai ricatti di Renzi. Una risposta alle sue infinite clausole e condizioni. Soprattutto una prospettiva di lungo respiro a questo esperimento partenopeo che lega una città disobbediente a un governo locale che prova a costruire strade di uscita dalla subalternità, una sfida che ci metta al riparo dalle insidie della contrattazione per disperazione, dagli avvoltoi che volano sulla città per trasformarla nella costola della ristrutturazione della classe dirigente “progressista” del paese e dalle mitopoiesi e dalle apologie delle città che decidono senza poi di fatto decidere un bel niente.