"Restituiti al mittente". HRW denuncia i respingimenti dai porti dell’Adriatico

23 / 1 / 2013

Si intitola “Restituiti al mittente” ed è il Rapporto sui respingimenti di migranti dai porti dell’Adriatico verso la Grecia che Human Rights Watch ha reso pubblico in questi giorni.

Dopo avere ricostruito le procedure di “riconsegne sommarie alla Grecia dei minori stranieri non accompagnati e degli adulti richiedenti asilo” e mappato “alcune delle rotte seguite dai migranti e dai richiedenti asilo” nel loro viaggio verso l’Italia, il rapporto, che si basa su 29 interviste di persone respinte dai porti dell’Adriatico, espone delle raccomandazioni importanti rivolte al governo italiano, al governo greco, all’Unione europea, al Consiglio d’Europa, alle Nazioni Unite, e infine alle compagnie private di traghetti in servizio tra l’Italia e la Grecia.
Nel rapporto viene ribadita poi la condizione di pericolo cui tutti i migranti sono soggetti in Grecia, formalizzata anche dalla sentenza della Corte di Strasburgo del gennaio del 2011 che ha dichiarato, né più né meno, che la Repubblica ellenica viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo infliggendo ai migranti e ai richiedenti asilo trattamenti inumani e degradanti.
E ancora, il testo elaborato da HRW racconta del tipo di trattamento cui sono soggetti i respinti quando si trovano a fare a ritroso il viaggio sulle navi delle compagnie private in servizio tra Grecia e Italia, e di come i membri dell’equipaggio possono diventare strumenti polizieschi di reclusione e controllo anche violento, nel contesto di una banalità del male in cui l’esecuzione di ordini più o meno scritti è affidata ad attori diversi e sempre totalmente inadeguati.

Ci sono battaglie che logorano perché troppo a lungo gli sforzi che si fanno sembrano solo cadere nel vuoto. Ma a volte, anche magari a distanza di tempo, qualche risultato arriva, per quanto piccolo, perché qualcun altro rilancia quella stessa lotta.
Questo probabilmente staranno pensando, leggendo le pagine del Rapporto, le associazioni e i movimenti che in questi anni hanno denunciato, raccontato, viaggiato tra la Grecia e l’Italia, per opporsi alla pratica dei respingimenti sommari e indiscriminati di adulti e minori richiedenti asilo politico, o comunque profughi, da Venezia, Ancona, Bari e Brindisi verso la Grecia.

Decine e decine gli articoli relativi a questa tematica e comparsi su questo sito che non a caso ha dedicato per intero una sezione all’argomento"Grecia e immigrazione", oltre che avere pubblicato per primoi reportage di due diverse inchiestecondotte tra Patrasso e Igoumenitsa tra il 2009e il 2010dalla rete veneziana Tuttiidirittiumanipertutti.

Ci sono stati momenti in cui è sembrato che le cose stessero per cambiare, come dopo l’accettazione del ricorso contro Grecia e Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, un ricorso costruito grazie al viaggio a Patrasso di attivisti veneziani che hanno ripercorso le tracce dei respinti dall’Italia verso la Grecia e, tra le violenze della polizia e il clima di terrore che i migranti respirano in Grecia, hanno raccolto la storia di 37 di loro e la loro firma su procure riportate in Italia come un piccolo tesoro su cui costruire un po’ di giustizia.

All’indomani di quel pronunciamento della Cedu sulla legittimità del ricorso, e dopo un convegno in cui anche l’allora sindaco Massimo Cacciaridichiarò che "al porto di Venezia vige un sistema di non diritto", Gian Antonio Stella dedicò al tema un editorialein prima pagina sul Corriere della Sera. A quel punto persino Alessandra Mussolini si stracciò le vesti in un’interrogazione parlamentare sui bambini respinti, e per un momento sembrò che l’informazione mainstream potesse alzare la cortina di nebbia che da anni ed anni avvolge i porti dell’Adriatico, all’interno dei quali il fatto di rispettare o meno i diritti fondamentali, anche dei bambini, è interamente soggetto all’arbitrio della polizia di frontiera.

Ci sono stati momenti in cui è sembrato possibile condividere l’indignazione e fermare quel meccanismo che mandava al macero ogni giorni decine di persone verso i massacri della polizia greca o le deportazioni in Turchia e da lì in Afghanistan. Era giugno del 2010 quando la rete Welcome diede vita a una manifestazione internazionale a Bari, Venezia e Ancona, in contemporanea con Igoumenitsa e Patrasso, contro tutti i respingimenti.

Ci sono stati momenti in cui sembrava che il disvelamento della verità potesse produrre cambiamenti, come quando l’Osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali ha ottenuto i dati ufficiali della Prefettura di Veneziache “confessava” candidamente il respingimento di centinaia di persone ogni anno, rendendo quindi possibile il confronto con i numeri forniti dal CIR, allora in servizio al porto, e la verifica del fatto che quasi tuti i respingimenti fossero stati messi in atto sommariamente senza che i profughi avessero incontrato altro che poliziotti.

Ma dispositivi di controllo come quelli posti in essere in quei porti risultano troppo funzionali alla gestione "conveniente" delle migrazioni.

Se le persone respinte verso la Grecia fossero tutte ascoltate da personale competente, magari dopo avere permesso loro di riposare dopo decine di ore rinchiuse in un container o aggrappate alla pancia di un tir, queste avrebbero praticamente tutte accesso alla procedura per la richiesta di asilo politico.
E i richiedenti asilo, almeno finché le leggi sull’asilo non verranno rese ancora più repressive, e sembra sia questa la direzione che prenderà anche l’Unione europea con la prossima direttiva in materia, costano soldi e sono meno facilmente sfruttabili, almeno nella prima parte della loro permanenza.

La cosiddetta “lotta all’immigrazione clandestina” ha sempre preso di mira, innanzitutto, le persone in realtà più facilmente tutelabili da un punto di vista giuridico, nonché quelle più bisognose di tutela.

Così è stato nel Mediterraneo con i respingimenti del 2009 verso la Libia, e con le tante deportazioni da Lampedusa messe in atto a partire dal 2004, così continua ad essere nei porti dell’Adriatico dove non avviene quello “spettacolo della frontiera” messo in scena ormai da decenni rispetto agli arrivi delle barche sulle coste, ma dove vige lo stesso sistema di non diritto e abuso.

Nel 2008 Zaher aveva 15 anni e moriva in una strada periferica di Mestre. La sua storia è stata raccontata così tante volte, e spesso con così tanta ipocrisia che sembra incredibile doverne scrivere ancora.
Una disgrazia, di disse sul momento: “guarda quanto disperati sono, poverini”. Pochissime furono le voci, in quel momento, che denunciarono le responsabilità profonde e imperdonabili del sistema di controllo alle frontiere nella morte di Zaher, delle direttive ministeriali chiare anche se non scritte, di respingere quanta più gente possibile, di tutte le età, abusando di quell’accordo Italia-grecia del 1999 che prevede il “respingimento con affido al comandante” e che è superato da e deve essere subordinato a tutte le Convenzioni sui diritti umani e alle direttive europee.

Zaher si era nascosto sotto un tir e così era uscito dal porto di Venezia restando appeso fino a che le mani non hanno ceduto. Il suo corpo era talmente straziato dalle ruote del mezzo pesante, che è stato riconosciuto dalle poesie che aveva in tasca, in cui chiedeva che gli venisse aperta la porta del giardino, a lui che non era un ladro di fiori.

Zaher si era nascosto sotto un tir anche se era un minorenne ed era afghano.

Zaher sapeva che di fronte alla polizia italiana alla frontiera niente può proteggerti. Né la tua età né la tua storia. Tu sei un numero (che a volte viene anche scritto sui polsi), da reimbarcare entro poche ore, prima che la nave riparta col suo carico di turisti.

Sapeva che sarebbe stato affidato all’equipaggio della compagnia di turno, fosse la Minoan o la Anek lines, e che quelli che stanno a bordo lì non usano certo i guanti con i migranti rispediti indietro.

Sapeva che avrebbe dovuto passare altre notti braccato dalla polizia greca, nascosto nell’erba come un animale, o dentro un campo di baracche di cellofan e lamiera sempre a rischio di essere incendiato dai razzisti ellenici. Sapeva che lo avrebbero potuto richiudere un’altra volta in un centro di detenzione, in uno di quelli senza letti e senza aria, dove prendi un sacco di botte.

Sapeva che lo avrebbero potuto rimandare in Turchia, dove a stento era sopravvissuto una volta, e da lì indietro verso la guerra di casa sua.

Ed è morto perché lo sapeva. Come lo sanno quelli che ancora provano a salvarsi, morendo asfissiati o schiacciati nei tir, nascosti nelle valige, dentro il rivestimento dei sedili, o viaggiando con un sacchetto di plastica in testa perché il rilevatore del respiro non percepisca la loro presenza.

Nonostante la morte di Zaher e di tutti gli altri, i ricorsi, le inchieste, le manifestazioni, i videodocumentari, apparecchiature sempre più affinate esistono oggi ai porti militarizzati delle città italiane dell’Adriatico, scanner che non perdonano, dannosi per la salute, implacabili per chi cerca salvezza.

Questo rapporto di Human Rights Watch , con la sua autorevolezza, è un nuovo strumento di denuncia che deve trovare una reazione immediata.

Speriamo che la Corte europea dei diritti umani, che ancora non ha raggiunto un verdetto sul ricorso contro Italia e Grecia, aggiungendo anche questo tassello al quadro generale di brutalità che si consuma alla frontiera portuale tra Italia e Grecia, possa arrivare prima possibile a una condanna.

E che davanti a queste verità, ancora una volte rivelate, non si rimanga tutti spettatori indifferenti della crudeltà, come direbbe Alessandro Dal Lago, in un contesto di crisi economica ed esistenziale che rende ancora più ciechi di fronte alla violazione dei diritti degli altri. E che chi indifferente non lo è mai stato, resista al senso di frustrazione ed impotenza di fronte al perpetrarsi dell’ingiustizia messa a sistema.